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Commercio e avversità, di Paul Krugman (New York Times 11 marzo 2016)

 

Trade and Tribulation

Paul KrugmanMARCH 11, 2016

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Why did Bernie Sanders win a narrow victory in Michigan, when polls showed Hillary Clinton with a huge lead? Nobody really knows, but there’s a lot of speculation that Mr. Sanders may have gained traction by hammering on the evils of trade agreements. Meanwhile, Donald Trump, while directing most of his fire against immigrants, has also been bashing the supposedly unfair trading practices of China and other nations.

So, has the protectionist moment finally arrived? Maybe, maybe not: There are other possible explanations for Michigan, and free-traders have repeatedly cried wolf about protectionist waves that never materialized. Still, this time could be different. And if protectionism really is becoming an important political force, how should reasonable people — economists and others — respond?

To make sense of the debate over trade, there are three things you need to know.

The first is that we have gotten to where we are — a largely free-trade world — through a generations-long process of international diplomacy, going all the way back to F.D.R. This process combines a series of quid pro quos — I’ll open my markets if you open yours — with rules to prevent backsliding.

The second is that protectionists almost always exaggerate the adverse effects of trade liberalization. Globalization is only one of several factors behind rising income inequality, and trade agreements are, in turn, only one factor in globalization. Trade deficits have been an important cause of the decline in U.S. manufacturing employment since 2000, but that decline began much earlier. And even our trade deficits are mainly a result of factors other than trade policy, like a strong dollar buoyed by global capital looking for a safe haven.

And yes, Mr. Sanders is demagoguing the issue, for example with a Twitter post linking the decline of Detroit, which began in the 1960s and has had very little to do with trade liberalization, to “Hillary Clinton’s free-trade policies.”

That said, not all free-trade advocates are paragons of intellectual honesty. In fact, the elite case for ever-freer trade, the one that the public hears, is largely a scam. That’s true even if you exclude the most egregious nonsense, like Mitt Romney’s claim that protectionism causes recessions. What you hear, all too often, are claims that trade is an engine of job creation, that trade agreements will have big payoffs in terms of economic growth and that they are good for everyone.

Yet what the models of international trade used by real experts say is that, in general, agreements that lead to more trade neither create nor destroy jobs; that they usually make countries more efficient and richer, but that the numbers aren’t huge; and that they can easily produce losers as well as winners. In principle the overall gains mean that the winners could compensate the losers, so that everyone gains. In practice, especially given the scorched-earth obstructionism of the G.O.P., that’s not going to happen.

Why, then, did we ever pursue these agreements? A large part of the answer is foreign policy: Global trade agreements from the 1940s to the 1980s were used to bind democratic nations together during the Cold War, Nafta was used to reward and encourage Mexican reformers, and so on.

And anyone ragging on about those past deals, like Mr. Trump or Mr. Sanders, should be asked what, exactly, he proposes doing now. Are they saying that we should rip up America’s international agreements? Have they thought about what that would do to our credibility and standing in the world?

What I find myself thinking about, in particular, is climate change — an all-important issue we can’t confront effectively unless all major nations participate in a joint effort, with last year’s Paris agreement just the beginning. How is that going to work if America shows itself to be a nation that reneges on its deals?

The most a progressive can responsibly call for, I’d argue, is a standstill on further deals, or at least a presumption that proposed deals are guilty unless proved innocent.

The hard question to deal with here is the Trans-Pacific Partnership, which the Obama administration has negotiated but Congress hasn’t yet approved. (I consider myself a soft opponent: It’s not the devil’s work, but I really wish President Obama hadn’t gone there.) People I respect in the administration say that it should be considered an existing deal that should stand; I’d argue that there’s a lot less U.S. credibility at stake than they claim.

The larger point in this election season is, however, that politicians should be honest and realistic about trade, rather than taking cheap shots. Striking poses is easy; figuring out what we can and should do is a lot harder. But you know, that’s a would-be president’s job.

 

Commercio e avversità, di Paul Krugman

New York Times 11 marzo 2016

Perché Bernie Sanders ha vinto di misura in Michigan, quando i sondaggi indicavano un ampio vantaggio per Hillary Clinton? Nessuno lo sa con certezza, ma ci sono molte supposizioni sul fatto che Sanders possa aver guadagnato consensi battendo il tasto dei mali degli accordi commerciali. Nel frattempo anche Donald Trump, continuando ad indirizzare la maggioranza dei suoi colpi contro gli immigranti, ha attaccato le supposte pratiche commerciali disoneste della Cina e della altre nazioni.

Dunque è arrivato, finalmente, il momento del protezionismo? Forse sì, forse no: ci sono altre spiegazioni possibili per il Michigan, e i sostenitori del libero scambio hanno ripetutamente gridato al lupo su ondate protezionistiche che non si sono mai materializzate. E se è davvero il protezionismo sta diventando un importante fattore politico, come dovrebbero rispondere le persone ragionevoli – economisti ed altri?

Perché il dibattito sul commercio sia comprensibile, vi serve conoscere tre cose.

La prima è che siamo arrivati al punto in cui siamo – un mondo ampiamente caratterizzato da liberi scambi – attraverso un processo di diplomazia internazionale durato per generazioni, che risale a Franklin Delano Roosevelt. Questo processo si basa su una serie di compromessi – io aprirò i miei mercati se tu apri i tuoi – in aggiunta a regole per impedire ricadute negative.

La seconda è che i protezionisti hanno quasi sempre esagerato gli effetti dannosi della liberalizzazione del commercio. La globalizzazione è solo uno del vari fattori che sta dietro la crescita della ineguaglianza dei redditi, e gli accordi commerciali, a loro volta, sono solo uno dei fattori della globalizzazione. I deficit commerciali sono stati una ragione importante del declino della occupazione statunitense nel settore manifatturiero a partire dal 2000, ma quel declino è cominciato molto prima. E persino i nostri deficit commerciali sono principalmente un risultato di fattori diversi dalla politica commerciale, come un dollaro forte reso possibile dalla ricerca dei capitali globali di rifugi sicuri.

Ed è vero che Sanders avanza quel tema in modo demagogico, quando ad esempio twitta un messaggio che collega il declino di Detroit, che cominciò negli anni 60 ed ha avuto molto poco a che fare con la liberalizzazione del commercio, con “le politiche del libero-commercio di Hillary Clinton”.

Ciò detto, non tutti i sostenitori del libero commercio sono riferimenti di onestà intellettuale. Di fatto, l’argomento delle classi dirigenti per un sempre maggiore libero commercio, che è quello che l’opinione pubblica ascolta, è un buona misura un imbroglio. É così anche se si mettono da parte le sciocchezze più oltraggiose, come la pretesa di Romney secondo la quale il protezionismo provocherebbe recessioni. Quello che si sente dire, anche troppo spesso, sono argomenti secondo i quali il commercio è un motore nella creazione di posti di lavoro, gli accordi commerciali sono destinati ad avere grandi vantaggi in termini di crescita economica e sono positivi per tutti.

Tuttavia, quello che dicono i modelli del commercio internazionale utilizzati dai veri esperti, in generale, è che gli accordi che portano a maggiori scambi commerciali né creano né distruggono posti di lavoro; che normalmente essi rendono i paesi più efficienti e più ricchi, ma che i dati non sono enormi, e che essi possono facilmente provocare perdite come vantaggi. In via di principio, i vantaggi complessivi comportano che i vincitori dovrebbero compensare i perdenti, in modo che ci guadagnino tutti. In pratica, considerato specialmente l’ostruzionismo da terra-bruciata messo in atto dal Partito Repubblicano, di solito non va in questo modo.

Perché, allora, abbiamo voluto questi accordi? Gran parte della risposta riguarda la politica estera: gli accordi commerciali globali dagli anni ’40 agli anni ’80 furono utilizzati per stabilire vincoli tra le nazioni democratiche durante la Guerra Fredda, il NAFTA fu usato per premiare ed incoraggiare i riformatori messicani, e così via.

E a tutti coloro che, come Trump o Sanders, vanno a stuzzicare quegli accordi passati, si dovrebbe chiedere cosa esattamente propongano per l’oggi. Stanno sostenendo che dovremmo stracciare gli accordi internazionali dell’America? Hanno riflettuto su quello che ciò provocherebbe alla nostra credibilità e reputazione nel mondo?

Mi viene da pensare, in particolare, al tema del cambiamento climatico – un tema importantissimo che non possiamo efficacemente affrontare senza che tutte le nazioni importanti partecipino ad uno sforzo congiunto, del quale l’accordo dell’anno passato a Parigi è stato solo l’inizio. Come potrebbe funzionare, se l’America appare come una nazione che rinnega i suoi accordi?

Il massimo che un progressista può responsabilmente sostenere, direi, è un arresto per gli accordi futuri, o almeno la presunzione di colpevolezza per gli accordi proposti, a meno che non sia dimostrata la loro innocenza.

In questo caso, il tema difficile da gestire è l’Accordo di Cooperazione del Trans Pacifico, che la Amministrazione Obama ha negoziato ma il Congresso non ha ancora approvato (io mi considero un oppositore moderato: non è una iniziativa diabolica, ma avrei proprio voluto che il Presidente Obama non fosse arrivato a quel punto). Persone che rispetto nella Amministrazione sostengono che dovrebbe essere considerato come un accordo esistente che dovrebbe restare; io sosterrei che c’è molta meno credibilità in ballo per gli Stati Uniti di quella che essi pretendono.

L’aspetto più generale in questa stagione elettorale, tuttavia, è che gli uomini politici dovrebbero essere onesti e realistici sul commercio, piuttosto che tirar colpi a casaccio. Atteggiarsi in quel modo è facile; molto più difficile è immaginare cosa possiamo e dovremmo fare. Ma come si sa, è questo il lavoro di un aspirante Presidente.

 

 

 

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