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Commercio, lavoro e politica, di Paul Krugman (New York Times 28 marzo 2016)

 

Trade, Labor, and Politics

Paul Krugman MARCH 28, 2016

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There are a lot of things about the 2016 election that nobody saw coming, and one of them is that international trade policy is likely to be a major issue in the presidential campaign. What’s more, the positions of the parties will be the reverse of what you might have expected: Republicans, who claim to stand for free markets, are likely to nominate a crude protectionist, leaving Democrats, with their skepticism about untrammeled markets, as the de facto defenders of relatively open trade.

But this isn’t as peculiar a development as it seems. Rhetorical claims aside, Republicans have long tended in practice to be more protectionist than Democrats. And there’s a reason for that difference. It’s true that globalization puts downward pressure on the wages of many workers — but progressives can offer a variety of responses to that pressure, whereas on the right, protectionism is all they’ve got.

When I say that Republicans have been more protectionist than Democrats, I’m not talking about the distant past, about the high-tariff policies of the Gilded Age; I’m talking about modern Republican presidents, like Ronald Reagan and George W. Bush. Reagan, after all, imposed an import quota on automobiles that ended up costing consumers billions of dollars. And Mr. Bush imposed tariffs on steel that were in clear violation of international agreements, only to back down after the European Union threatened to impose retaliatory sanctions.

Actually, the latter episode should be an object lesson for anyone talking tough about trade. The Bush administration suffered from a bad case of superpower delusion, a belief that America could dictate events throughout the world. The falseness of that belief was most spectacularly demonstrated by the debacle in Iraq. But the reckoning came even sooner on trade, an area where other players, Europe in particular, have just as much power as we do.

Nor is the threat of retaliation the only factor that should deter any hard protectionist turn. There’s also the collateral damage such a turn would inflict on poor countries. It’s probably bad politics to talk right now about what a trade war would do to, say, Bangladesh. But any responsible future president would have to think hard about such matters.

Then again, we might be talking about President Trump.

But back to the broader issue of how to help workers pressured by the global economy.

Serious economic analysis has never supported the Panglossian view of trade as win-win for everyone that is popular in elite circles: growing trade can indeed hurt many people, and for the past few decades globalization has probably been, on net, a depressing force for the majority of U.S. workers.

But protectionism isn’t the only way to fight that downward pressure. In fact, many of the bad things we associate with globalization in America were political choices, not necessary consequences — and they didn’t happen in other advanced countries, even though those countries faced the same global forces we did.

Consider, for example, the case of Denmark, which Bernie Sanders famously held up as a role model. As a member of the European Union, Denmark is subject to the same global trade agreements as we are — and while it doesn’t have a free-trade agreement with Mexico, there are plenty of low-wage workers in eastern and southern Europe. Yet Denmark has much lower inequality than we do. Why?

Part of the answer is that workers in Denmark, two-thirds of whom are unionized, still have a lot of bargaining power. If U.S. corporations were able to use the threat of imports to smash unions, it was only because our political environment supported union-busting. Even Canada, right next door, has seen nothing like the union collapse that took place here.

And the rest of the answer is that Denmark (and, to a lesser extent, Canada) has a much stronger social safety net than we do. In America, we’re constantly told that global competition means that we can’t even afford even the safety net we have; strange to say, other rich countries don’t seem to have that problem.

What all this means, as I said, is that the Democratic nominee won’t have to engage in saber-rattling over trade. She (yes, it’s still overwhelmingly likely to be Hillary Clinton) will, rightly, express skepticism about future trade deals, but she will be able to address the problems of working families without engaging in irresponsible trash talk about the world trade system. The Republican nominee won’t.

And there’s a lesson here that goes beyond this election. If you’re generally a supporter of open world markets — which you should be, mainly because market access is so important to poor countries — you need to know that whatever they may say, politicians who espouse rigid free-market ideology are not on your side.

 

Commercio, lavoro e politica, di Paul Krugman

New York Times 28 marzo 2016

Ci sono molte cose nelle elezioni del 2016 che nessuno aveva visto arrivare, ed una di esse è che la politica del commercio internazionale è probabile sia un tema importante nella campagna presidenziale. Più rilevante ancora, le posizioni dei partiti sono destinate ad essere il contrario di quello che vi sareste aspettati: i repubblicani, che sostengono di essere a favore dei liberi mercati, è probabile propongano un rozzo protezionismo, lasciando ai democratici, con il loro scetticismo sui mercati privi di condizionamenti, la sostanziale difesa di un commercio relativamente aperto.

Ma questo non è uno sviluppo così peculiare come sembra. A parte le prese di posizioni propagandistiche, da tempo i repubblicani hanno teso ad essere maggiormente protezionisti dei democratici. E c’è una ragione per tale differenza. É vero che la globalizzazione introduce una spinta verso il basso sui salari di molti lavoratori – ma i progressisti possono offrire una varietà di spiegazioni per tale fenomeno, mentre a destra, il protezionismo è tutto quello che abbiamo.

Quando affermo che i repubblicani sono stati più protezionisti dei democratici, non mi riferisco al lontano passato, alle politiche delle alte tariffe sulle importazioni dell’epoca della Gilded Age [1];  sto parlando dei moderni Presidenti repubblicani, come Ronald Reagan e George W. Bush. Reagan, dopo tutto, impose una quota alle importazioni di automobili che finì col costare ai consumatori miliardi di dollari. E Bush impose tariffe sull’acciaio che erano in chiara violazione degli accordi internazionali, con il solo effetto di dover tornare indietro dopo che l’Unione Europea minacciò di imporre sanzioni di rappresaglia.

Per la verità, l’ultimo episodio dovrebbe essere una lezione pratica per chiunque parli in modo demagogico sul commercio. La Amministrazione Bush patì un esempio doloroso di illusione da superpotenza, il convincimento che l’America poteva imporre le sue soluzioni a tutto il mondo. La falsità di quel convincimento venne soprattutto dimostrata in modo spettacolare con la debacle dell’Iraq. Ma il regolamento dei conti venne anche più rapidamente sul commercio, un’area nella quale altri protagonisti, l’Europa in particolare, hanno altrettanto potere del nostro.

Né la minaccia di una rappresaglia è l’unico fattore che dovrebbe sconsigliare una dura svolta protezionista. C’è anche il danno collaterale che una tale svolta infliggerebbe ai paesi poveri. Parlare in questo momento su cosa provocherebbe una guerra commerciale, ad esempio al Bangladesh, sarebbe probabilmente una politica destinata all’insuccesso. Ma un futuro Presidente responsabile, dovrebbe ragionare attentamente su tali aspetti.

D’altronde, potrebbe darsi che il Presidente in questione sia Trump.

Ma torniamo al tema più generale di come aiutare i lavoratori messi alle strette dall’economia globale.

Una seria analisi economica non ha mai sostenuto la tesi panglossiana di un commercio vantaggioso per tutti, che è popolare nei circoli delle classi dirigenti: un commercio in crescita può, in effetti, danneggiare molta gente, e in riferimento ai decenni passati, la globalizzazione è stata probabilmente un fattore depressivo per la maggioranza dei lavoratori statunitensi.

Ma il protezionismo non è l’unico modo per combattere quella spinta verso il basso. Di fatto, molte delle cose negative che in America associamo alla globalizzazione sono state scelte politiche, non necessariamente conseguenze – ed esse non sono accadute in altri paesi avanzati, anche se quei paesi si misuravano con le stesse forze globali con le quali facevamo i conti noi.

Si consideri, ad esempio, il caso della Danimarca, che notoriamente Bernie Sanders  ha sostenuto come esempio. Come membro dell’Unione Europea, la Danimarca è soggetta agli stessi accordi commerciali globali nostri – e se essa non ha accordi di libero commercio con il Messico, ci sono una quantità di lavoratori con bassi salari nell’Europa dell’Est e del Sud. Tuttavia la Danimarca ha molta minore ineguaglianza di quella che abbiamo noi. Perché?

In parte la risposta è che i lavoratori in Danimarca, i due terzi dei quali sono sindacalizzati, hanno ancora un notevole potere contrattuale. Se le grandi società degli Stati Uniti sono capaci di far uso della minaccia delle importazioni per sfasciare i sindacati, questo è solo dipeso dal nostro ambiente politico che punta a mettere in crisi i sindacati. Persino il Canada, il nostro vicino di casa, non ha conosciuto niente di simile al crollo sindacale che è avvenuto da noi.

E il resto della risposta è che la Danimarca (e, in minore misura, il Canada) ha un rete di sicurezza sociale molto più forte che da noi. In America, ci viene continuamente ripetuto che la competizione globale comporta che non possiamo permetterci neppure le rete di sicurezza sociale che abbiamo; strano a dirsi, gli altri paesi ricchi non sembrano avere un tale problema.

Quello che tutto questo comporta, come ho detto, è che il candidato democratico non dovrà impegnarsi in politiche bellicose sul commercio. Ella (è così: è ancora probabile in modo schiacciante che si tratterà di Hillary Clinton) esprimerà, giustamente, scetticismo sui futuri accordi commerciali, ma sarà capace di affrontare i problemi delle famiglie lavoratrici senza impegnarsi in discorsi spazzatura sul sistema del commercio mondiale. Il candidato repubblicano non lo farà.

E c’è una lezione che va oltre queste elezioni. Se siete in generale un sostenitore dei mercati mondiali aperti – come dovreste essere, principalmente perché l’accesso ai mercati è così importante per i paesi poveri – dovete sapere che, qualsiasi cosa possano dire, i politici che sposano la rigida ideologia del libero mercato non sono dalla vostra parte.

 

 

[1] Ovvero, la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Il termine venne coniato da Mark Twain e dalle satire di Charles Dudley Warner, e non nel significato apparente di “età dell’oro”, ovvero di periodo storico di grandi successi e progressi, ma piuttosto nel senso di epoca caratterizzata da ‘eccessi’, dalla tendenza a rivestire di una patina aurea una realtà molto contraddittoria, e a mettere in ombra enormi contraddizioni sociali. Il termine derivava dal dramma storico di Shakespeare “Re Giovanni” (1595), nel quale compare questa notazione: “Indorare l’oro fino, dipingere il giglio … è uno spreco ed un eccesso ridicolo”. “Età aurea” è la traduzione più veloce ma imprecisa, ma si noti che l’epoca venne definita non come “golden age” (età dell’oro), ma come “gilded age” (età rivestita di una patina d’oro).

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