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Il commercio mondiale dovrebbe essere ricostruito dal basso in alto, di Larry Summers (da Social Europe, 18 aprile 2016)

 

18 April 2016

Global trade should be remade from the bottom up

By Larry Summers

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Since the end of the second world war, a broad consensus in support of global economic integration as a force for peace and prosperity has been a pillar of the international order. From global trade agreements to the EU project; from the Bretton Woods institutions to the removal of pervasive capital controls; from ex­panded foreign direct investment to increased flows of peoples across borders, the overall direction has been clear. Driven by domestic economic progress, by technologies such as containerised shipping and the internet that promote integration, and by legislative changes within and between nations, the world has grown smaller and more closely connected.

This has proved more successful than could reasonably have been hoped. We have not seen a war between leading powers. Global living standards have risen faster than at any point in history. And material progress has coincided with even more rapid progress in combating hunger, empowering women, promoting literacy and extending life. A world that will have more smartphones than adults within a few years is a world in which more is possible for more people than ever before.

Yet a revolt against global integration is under way in the west. The four leading candidates for president of the US — Hillary Clinton, Bernie Sanders, Donald Trump and Ted Cruz — all oppose the principal free-trade initiative of this period: the Trans-Pacific Partnership. Proposals by Mr Trump, the Republican frontrunner, to wall off Mexico, abrogate trade agreements and persecute Muslims are far more popular than he is. The movement for a British exit from the EU commands substantial support. Under pressure from an influx of refugees, Europe’s commitment to open borders appears to be crumbling. In large part because of political constraints, the growth of the international financial institutions has not kept pace with the growth of the global economy.

Certainly a substantial part of what is behind the resistance is lack of knowledge. No one thanks global trade for the fact that their pay cheque buys twice as much in clothes, toys and other goods as it otherwise would. Those who succeed as exporters tend to credit their own prowess, not international agreements. So there is certainly a case for our leaders and business communities to educate people about the benefits of global integration. But at this late date, with the trends moving the wrong way, it is hard to be optimistic about such efforts.

The core of the revolt against global integration, though, is not ignorance. It is a sense, not wholly unwarranted, that it is a project carried out by elites for elites with little consideration for the interests of ordinary people — who see the globalisation agenda as being set by big companies playing off one country against another. They read the revelations in the Panama Papers and conclude that globalisation offers a fortunate few the opportunities to avoid taxes and regulations that are not available to the rest. And they see the disintegration that accompanies global integration, as communities suffer when big employers lose to foreign competitors.

What will happen next — and what should happen? Elites can continue pursuing and defending integration, hoping to win sufficient popular support — but, on the evidence of the US presidential campaign and the Brexit debate, this strategy may have run its course. This is likely to result in a hiatus in new global integration and efforts to preserve what is in place while relying on technology and growth in the developing world to drive further integration.

The precedents, notably the period between the first and second world wars, are hardly encouraging about unmanaged globalisation succeeding with neither a strong underwriter of the system nor strong global institutions.

Much more promising is this idea: the promotion of global integration can become a bottom-up rather than a top-down project. The emphasis can shift from promoting integration to managing its consequences.

This would mean a shift from international trade agreements to international harmonisation agreements, where issues such as labour rights and environmental protection would take precedence over issues related to empowering foreign producers. It would also mean devoting as much political capital to the trillions that escape tax or evade regulation through cross-border capital flows as we now devote to trade agreements. And it would mean an emphasis on the challenges of middle-class parents everywhere who doubt, but still hope desperately, that their kids can have better lives than they did.

 

Il commercio mondiale dovrebbe essere ricostruito dal basso in alto

di Larry Summers

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un generale consenso a favore della integrazione economica mondiale, come fattore di pace e di prosperità, è stato un pilastro dell’ordine internazionale. Dagli accordi commerciali globali al progetto dell’Unione Europea; dalle istituzioni di Bretton Woods alla rimozione dei controlli pervasivi sui capitali; dagli accresciuti investimenti diretti stranieri all’aumento dei flussi di persone che passano le frontiere, la direzione complessiva è stata chiara. Guidato dal progresso economico nelle nazioni, dalle tecnologie come il trasporto via mare con i container e Internet che promuovono l’integrazione, nonché dai cambiamenti legislativi nelle nazioni e tra le nazioni, il mondo è diventato più piccolo e più intimamente connesso.

Tutto ciò ha mostrato maggiore successo di quello che ragionevolmente si poteva sperare. Non abbiamo visto una guerra tra le potenze principali. Gli standard globali di vita sono cresciuti più velocemente che in ogni altro periodo storico. E il progresso materiale ha coinciso con un progresso persino più rapido nel combattere la fame, nel dare potere alle donne, nel promuovere l’alfabetizzazione e nell’allungare la vita. Un mondo che, tra pochi anni, avrà più telefoni portatili che adulti è un mondo nel quale sono possibili più cose per più persone, di quanto non era mai successo in precedenza.

Tuttavia in Occidente è in corso una rivolta contro l’integrazione globale. I quattro principali candidati alla Presidenza degli Stati Uniti – Hillary Clinton, Bernie Sanders, Donald Trump e Ted Cruz – si oppongono tutti alla principale iniziativa sul libero commercio di questo periodo: la Cooperazione del Trans-Pacifico. Le proposte del signor Trump, il candidato repubblicano favorito, per separare con un muro il Messico, abrogare gli accordi commerciali e perseguitare i musulmani sono di gran lunga più popolari di lui stesso. Il movimento per un’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea suscita un sostegno rilevante. Sotto la pressione dell’ingresso dei rifugiati, l’impegno ad aprire le frontiere dell’Europa sembra sgretolarsi. In larga parte a causa dei condizionamenti politici, la crescita delle istituzioni finanziarie internazionali non ha retto il passo della crescita dell’economia globale.

Certamente, una componente sostanziale di ciò che sta dietro quella resistenza è un difetto di conoscenza. Nessuno ringrazia il commercio globale per il fatto che il suo stipendio acquista il doppio in vestiti, in giochi e in altri beni, di quanto sarebbe possibile altrimenti. Coloro che hanno successo come esportatori, tendono ad accreditare la loro propria bravura, non gli accordi internazionali. C’è dunque certamente motivo per i nostri dirigenti e per le comunità economiche per educare le persone sui benefici della integrazione globale.  Ma a questa tardiva scadenza, con le tendenze che si muovono nel senso sbagliato, è difficile essere ottimisti su tali sforzi.

Eppure, il cuore della rivolta contro l’integrazione globale non è l’ignoranza. É una sensazione, non interamente ingiustificata, che si tratti di un progetto messo in pratica dalle élite per le élite, con poca considerazione degli interessi delle persone comuni – che considerano l’agenda della globalizzazione come se fosse stata stabilita dalle grandi società per mettere un paese contro l’altro. Costoro leggono le rivelazioni nei Panama Papers  e concludono che quella globalizzazione offre a pochi fortunati le opportunità per evitare tasse e regolamenti, che non sono disponibili per gli altri. E osservano la disintegrazione che accompagna l’integrazione globale, quando le comunità entrano in sofferenza per i grandi datori di lavoro che subiscono la competizione straniera.

Dopodiché cosa accadrà – e cosa dovrebbe accadere? Le élite possono continuare a perseguire ed a difendere l’integrazione, sperando di ottenere un sufficiente sostegno popolare – ma, secondo le testimonianze  della campagna presidenziale negli Stati Uniti e del dibattito sulla uscita dell’Inghilterra dall’UE, questa strategia potrebbe aver fatto il suo corso. Tutto questo è probabile si risolva in uno iato tra una nuova integrazione globale e gli sforzi per preservare ciò che è in atto, e l’affidarsi contemporaneamente sulla tecnologia e sulla crescita nel mondo sviluppato  per guidare una fase ulteriore di integrazione.

I precedenti, in particolare il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, non sono incoraggianti sul successo di una globalizzazione lasciata a se stessa, senza né una forte assicurazione del sistema, né forti istituzioni globali.

É molto più promettente questa idea: la promozione dell’integrazione globale può diventare un progetto dal basso verso l’alto, anziché dall’alto verso il basso. L’enfasi può spostarsi dal promuovere l’integrazione al gestire le sue conseguenze.

Questo significherebbe uno spostamento dagli accordi commerciali internazionali ad accordi di armonizzazione internazionale, dove i temi dei diritti del lavoro e della protezione ambientale avrebbero la precedenza sui temi connessi con il rafforzamento dei produttori stranieri. Significherebbe anche dedicare molto impegno politico alle migliaia di miliardi che sfuggono alle tasse o eludono i regolamenti attraverso i flussi dei capitali oltre le frontiere, di quello che adesso si dedica agli accordi commerciali. E comporterebbe dappertutto un’enfasi sulle sfide dei genitori delle classi medie, che dubitano, ma ancora sperano disperatamente, che i loro figli possano avere vite migliori delle loro.

 

 

 

 

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