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Il ritorno del pessimismo dell’elasticità (per esperti) (dal blog di Krugman, 16 aprile 2016)

 

Apr 16 11:13 am

The Return of Elasticity Pessimism (Wonkish)

I talked at the Council for European Studies conference in Philly last night, and was surprised by one aspect of the discussion. As you might expect if you’re into these things, my take on the euro was strongly informed by the theory of Optimum Currency Areas; I expected pushback. But I didn’t realize how many people now seem to believe that real exchange rates don’t matter for adjustment — that is, that even internal devaluation (downward adjustment of prices and wages relative to trading partners) isn’t necessary in the aftermath of unsustainable capital inflows.

It turns out, however, that we’re seeing a significant revival of the “elasticity pessimism” widely prevalent during the post World War II “dollar shortage”. This was the belief that trade flows barely respond to price signals, and hence that devaluations don’t help alleviate imbalances. Now as then, the argument rests in large part on specific cases where large changes in relative prices don’t seem to have produced large changes in trade (Greece’s lagging exports), or conversely, where large changes in trade seem to have happened without large changes in relative prices (Spain’s export recovery, maybe).

The difference is that in the late 1940s this kind of argument was deployed in support of more government intervention — keep those exchange controls in place, because devaluation won’t work — whereas now it’s being deployed as an argument against activism — never mind the euro, it’s all rigidities that must be cured with structural reform.

But while the purposes may be different, the substantive issues remain. What is the case against elasticity pessimism?

I guess I’d offer several answers.

First, it’s worth thinking about where those big external imbalances came from. Big capital flows to the European periphery led to inflation and rising real exchange rates, and this was associated with huge trade imbalances. How did that happen, if real exchange rates don’t matter?

Second, my sense is that at least some analyses aren’t taking sufficient account of cyclical factors. Devaluation that takes place along with an economic recovery may not be associated with a falling trade deficit, because rising demand is offsetting improved competitiveness — I think this is relevant for Iceland. Also important for understanding why sudden stops produce large import contractions even under fixed rates.

Third, there are lots of other factors, so you have to avoid picking and choosing your stories too much. One way to do this may be to do what one recent IMF study did: focus only on large real exchange rate changes, estimate elasticities for lots of countries, and pool the results. The result is to diminish the noise, both by eliminating small fluctuations that may be statistical illusions and by exploiting the power of large numbers.

Beyond all this, however, we probably need to revisit the classic 1950 Orcutt analysis of likely biases in estimates of trade response to prices.

I guess I’m showing a strong preconception here — that done right, analysis will show that trade elasticities remain fairly large. Certainly willing to be proved wrong — but we need to do this carefully, because it’s really important for future policy.

 

Il ritorno del pessimismo dell’elasticità (per esperti)

L’altra notte ho tenuto un discorso a Filadelfia, alla conferenza del Consiglio per gli Studi Europei, e sono rimasto sorpreso da un aspetto della discussione. Come vi potete immaginare se siete addentro queste cose, la mia posizione sull’euro era fortemente ispirata dalla teoria delle Aree valutarie ottimali; mi aspettavo qualche reazione. Ma non avevo compreso quante persone oggi sembrano credere che i tassi reali di cambio non contino agli effetti della correzione – ovvero, che persino le svalutazioni interne (la correzione verso il basso dei prezzi e dei salari relativamente ai partner commerciali) non sono necessarie a seguito di flussi di capitali in entrata insostenibili.

Si scopre, tuttavia, che stiamo assistendo a un significativo revival del “pessimismo dell’elasticità”che prevalse ampiamente durante la “mancanza di dollari” successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Era questo il convincimento che i flussi commerciali rispondono a malapena ai segnali dei prezzi, e di conseguenza le svalutazioni non contribuiscono ad attenuare gli squilibri. Ora come allora, l’argomento si basa su casi specifici nei quali ampie modiche nei prezzi relativi non sembrano aver prodotto grandi cambiamenti nel commercio (le esportazioni della Grecia restano indietro) o, di converso, grandi cambiamenti nel commercio sembrano essere accaduti senza ampi mutamenti nel prezzi relativi (la ripresa, forse, delle esportazioni in Spagna).

La differenza è che negli ultimi anni ’40 questo genere di argomenti venivano utilizzati a sostegno di un maggiore intervento pubblico – tenete in funzione quei controlli sui cambi, perché la svalutazione non funziona – mentre oggi vengono utilizzati come un argomento contro l’attivismo pubblico – non si tratta dell’euro, sono tutte rigidità che debbono essere curate con riforme strutturali.

Ma se gli scopi possono essere diversi, i temi sostanziali restano. Quale è l’argomento contro il pessimismo dell’elasticità?

Penso di dover avanzare alcune risposte.

La prima, merita di riflettere da dove siano venuti quei grandi squilibri esterni. I grandi flussi di capitali verso la periferia europea hanno portato all’inflazione e a tassi di cambio reali crescenti, e questo è stato associato con grandi squilibri commerciali. Come è accaduto, se i tassi reali di cambio non sono importanti?

La seconda, la mia sensazione è che almeno alcune analisi non stiano mettendo sufficientemente in conto i fattori ciclici. La svalutazione che ha luogo assieme ad una ripresa economica può non essere associata con un deficit commerciale in caduta, perché una domanda crescente sta bilanciando la competitività migliorata – penso che nel caso dell’Islanda questo sia rilevante. É anche importante per la comprensione della ragione per la quale i ‘blocchi improvvisi’ [1] producono ampie contrazioni nelle importazioni persino con tassi fissi.

La terza, ci sono una quantità di altri fattori, tale che si deve evitare di estrarre e scegliere troppo i nostri racconti. Un modo per farlo è come nello studio recente del FMI: ci si concentri soltanto su ampi cambiamenti nei tassi di cambio reali; si stimino le elasticità per un buon numero di paesi e si mettano assieme i risultati. La differenza è che si riduce il frastuono, sia per l’eliminazione di piccole variazioni che possono essere illusioni statistiche, sia per lo sfruttamento del potere dei grandi numeri.

Oltre a tutto questo, tuttavia, probabilmente abbiamo bisogno di rivisitare la classica analisi del 1950 di Orcutt, sulla probabilità di pregiudizi nelle stime delle risposte del commercio ai prezzi.

Suppongo in questo modo di mostrare una buona dose di preconcetti – ovvero che, fatta una analisi corretta, essa dimostrerà che le elasticità commerciali restano piuttosto ampie. Sono certamente disponibile ad ammettere di aver torto – ma abbiamo bisogno di fare questo in modo scrupoloso, perché ciò è realmente importante per la politica del futuro.

 

 

[2] Per un comprensione migliore del concetto di ‘blocco improvviso’ – che si riferisce al carattere subitaneo di blocco nei flussi dei capitali, quale quello che avvenne per i flussi di capitali dalla Germania e dalla Francia in Grecia-Spagna-Portogallo-Irlanda, dopo la crisi finanziaria del 2008 –  si veda il secondo paragrafo della comunicazione di Krugman alla Conferenza del FMI del 27 ottobre 2013 “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”, qua tradotta.

 

 

 

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