April 20, 2016 12:47 pm
I see that @drvox is writing a big piece on carbon pricing – and agonizing over length and time. I don’t want to step on his forthcoming message, but what he’s said so far helped crystallize something I’ve meant to write about for a while, a phenomenon I’ll call “101 boosterism.”
The name is a takeoff on Noah Smith’s clever writing about “101ism”, in which economics writers present Econ 101 stuff about supply, demand, and how great markets are as gospel, ignoring the many ways in which economists have learned to qualify those conclusions in the face of market imperfections. His point is that while Econ 101 can be a very useful guide, it is sometimes (often) misleading when applied to the real world.
My point is somewhat different: even when Econ 101 is right, that doesn’t always mean that it’s important – certainly not that it’s the most important thing about a situation. In particular, economists may delight in talking about issues where 101 refutes naïve intuition, but that doesn’t at all mean that these are the crucial policy issues we face.
The example I think of most is in my original home field of international trade. Comparative advantage says that countries are made richer by international trade, even if one trading partner is more productive than the other across the board, and the less productive country can only export thanks to low wages. Paul Samuelson once declared this the prime example of an economic insight that is true without being obvious – and to this day you get furious attempts to refute the concept. So comparative advantage has, for generations, been considered one of the crown jewels of economic analysis.
Now, there are a variety of reasons why, despite this big insight, free trade may not be the right policy – that’s Noah’s 101ism. But I want to make a different point: even if comparative advantage is a profound insight, does this make free trade versus protectionism a front-burner issue? How important is this insight, anyway?
And the answer – the answer that comes from standard trade models – is, not as important as many people seem to think. Yes, protectionism reduces world income. But if you want to make the case that trade liberalization has been the principal driver of growth, or anything along those lines, well, the models don’t say that. If you want enormous benefits to trade, you have to invoke things like technology transfer that aren’t in the very analysis that gives the case for free trade such prestige.
In fact, you see a lot of that. There’s a kind of bait and switch, in which people invoke Ricardo and the gains from trade to say “free trade good”, then tell scare stories about how protectionism would destroy millions of jobs and cause a global depression, which doesn’t make much sense – and in any case has nothing to do with the classical analysis of the gains from trade.
It seems to me that there’s something similar involved in discussions of carbon pricing.
Econ 101 tells us that if you want to reduce emissions of a pollutant, the most efficient way to do that is to put a price on emissions, so that all possible routes to reduction are taken, and the marginal cost is the same for all routes. It’s a real insight, and has had positive impacts on real-world policy — cap-and-trade has worked very well at reducing acid rain.
That said, there are reasons Econ 101 may not be right here. There is some evidence that consumers aren’t hyper rational when it comes to conservation, that they may pass up conservation opportunities even when it would save them money — and in that case rule rather than prices may be the right way to make them change. And to the extent that we’re talking about innovation, the Econ 101 case says nothing at all: the efficiency case for carbon pricing is about making best use of existing technology, not about providing incentives to develop better technology.
But leave all that aside, and ask: how *important* is it that our carbon-emissions strategy take the form of a universal or near-universal price on carbon?
The answer, in principle, is that it depends on the complexity of the required response. If reducing emissions really has to involve moving on many fronts, anything that looks like an administrative solution — telling, say, power companies what to do or not to do — is going to be much more costly than carbon pricing that exploits all the possibilities. But if a large part of the solution is going to involve a fairly limited set of measures — such as putting a quick end to the practice of burning coal to generate electricity — getting to broad-based carbon pricing is much less central.
And what I gather from reading various analyses of our prospects is that we’re closer to case #2 than to case #1: the problem of limiting climate change isn’t all that complex. End coal-burning and you’ve gone a significant way; a few other big things get you another substantial part of the way. Yes, comprehensive carbon pricing would be best, but it’s not the sine qua non of effective action.
The point is that just because Econ 101 makes a smart, counterintuitive point doesn’t make that point of central importance, here or elsewhere. People should know what’s in the textbook; above all, they should buy my book! But never imagine that it’s the be-all and end-all of what matters.
“L’amplificazionismo” dei libri di testo di economia[1]
Vedo che @drvox sta scrivendo un grosso articolo sulla politica dei prezzi del carbonio[2], ed è angosciato per la sua lunghezza e per il tempo [3]. Non voglio pestare i piedi al suo imminente messaggio, ma quello che lui ha detto sinora ha contribuito a consolidare qualcosa che da un po’ avevo intenzione di scrivere, un fenomeno che chiamerò “l’amplificazionismo dei libri di testo”.
Il termine è una parodia da un intelligente scritto di Noah Smith sull’ “uso dei libri di testo”, secondo il quale gli scrittori di economia presentano le cose dei libri di testo di economia sull’offerta, la domanda e su quanto i mercati funzionino ottimamente come un vangelo, ignorando i molti modi nei quali gli economisti hanno imparato a condizionare quelle conclusioni, a fronte delle imperfezioni dei mercati. La sua tesi è che mentre un libro di testo di economia può essere una guida molto utile, esso talvolta (spesso) è fuorviante quando viene applicato al mondo reale.
La mia accezione è un po’ diversa: anche quando un libro di testo di economia è nel giusto, questo non significa sempre che sia importante – certamente non la cosa più importante in relazione ad una situazione specifica. In particolare, gli economisti possono deliziarsi nel parlare di tematiche nelle quali i libri di testo confutano intuizioni ingenue, ma ciò non significa affatto che tali tematiche siano quelle fondamentali con le quali ci si misura.
L’esempio al quale soprattutto mi riferisco proviene dalla mia originaria disciplina del commercio internazionale. Il ‘vantaggio comparativo’ [4] dice che i paesi sono resi più ricchi dal commercio internazionale, persino se un partner complessivamente è più produttivo dell’altro, e il paese meno produttivo può esportare soltanto grazie ai bassi salari. Paul Samuelson una volta lo indicò come il principale esempio di una intuizione economica che è vera senza essere evidente – e si trovano tentativi frenetici di confutare il concetto sino ai nostri giorni. Dunque, il vantaggio comparativo è stato considerato per generazioni come un fiore all’occhiello.
Ora, ci sono una molteplicità di ragioni per le quali, nonostante questa grande intuizione, il libero commercio può non essere la politica giusta – è questo è quello a cui Noah si riferisce con la sua espressione sull’uso dei libri di testo. Ma io voglio avanzare un aspetto diverso: anche se il vantaggio comparativo è una intuizione profonda, questo rende il libero commercio a fronte del protezionismo una tema di primo piano?
E la risposta – la risposta che proviene dai modelli convenzionali sul commercio – è: no, non così importante come molte persone ritengono. É vero, il protezionismo riduce il reddito mondiale. Ma se volete avanzare l’argomento secondo il quale la liberalizzazione del commercio è stata il fattore principale della crescita, o qualcosa di simile, non è quello che dicono i modelli. Se volete sostenere gli enormi benefici del commercio, dovete invocare cose come i trasferimenti di tecnologia, che non sono propriamente nella analisi che dà un tale prestigio all’argomento del libero commercio.
Di fatto, potete constatare molte cose al proposito. C’è una sorta di gioco delle tre carte [5], per il quale le persone invocano Ricardo e i vantaggi del commercio per dire “il libero commercio è buono”, poi raccontano storie allarmanti su come il protezionismo distruggerebbe milioni di posti di lavoro e provocherebbe una depressione globale, il che non ha molto senso – e comunque non ha niente a che fare con l’analisi classica del vantaggi del commercio.
Nel dibattito implicito sulla politica dei prezzi del carbonio, mi pare ci sia qualcosa di simile.
Un libro di testo di economia ci dice che se si vogliono ridurre le emissioni di un inquinante, la cosa più efficace da fare è mettere un prezzo sulle emissioni, in modo tale che tutti i possibili indirizzi per la riduzione siano utilizzati, e il costo marginale sia lo stesso per tutti tali indirizzi. Si tratta di una intuizione vera, ed ha avuto impatti positivi sulla politica del mondo reale – il metodo del cap-and-trade [6] ha funzionato benissimo nella riduzione delle piogge acide.
Ciò detto, ecco le ragioni per le quali il libro di testo di economia può non essere giusto in questo caso. Ci sono alcune prove che i consumatori non siano iperrazionali quando si arriva al tema della conservazione, che possano rinunciare ad opportunità di conservazione anche quando risparmierebbero soldi – e il quel caso la legge, anziché i prezzi, può essere il modo giusto per farli cambiare. E nella misura in cui stiamo parlando di innovazione, l’argomento del libro di testo di economia non dice proprio niente: nella politica dei prezzi del carbonio l’argomento dell’efficacia riguarda il fare l’uso migliore delle tecnologie esistenti, non il fornire incentivi per sviluppare migliori tecnologie.
Ma lasciamo tutto questo da parte, e chiediamoci: quanto è importante che la nostra strategia sulle emissioni di carbonio prenda la forma di un costo universale, o quasi universale, sulle emissioni di carbonio?
In linea di principio, ciò dipende dalla complessità della risposta attesa. Se ridurre le emissioni comporta realmente muoversi su molti fronti, ogni cosa che assomigli ad una soluzione amministrativa – come il dire, ad esempio, alle società elettriche cosa devono o non devono fare – è destinato ad essere più costoso che un prezzo sulle emissioni di carbonio che sfrutta tutte le possibilità. Ma se una larga parte della soluzione è destinata a riguardare un complesso abbastanza limitato di misure – come stabilire un termine a breve entro il quale interrompere la pratica di bruciare carbone per produrre elettricità – impegnarsi in una generalizzata politica dei prezzi sulle emissioni di carbonio è molto meno rilevante.
E quello che raccolgo da una lettura di varie analisi sulle nostre prospettive è che siamo più vicini al secondo caso che non al primo: il problema del limitare il cambiamento climatico non è così complicato. Mettete un termine alla combustione del carbone e avrete fatto un pezzo di strada significativo; poche altre cose vi daranno un’altra parte sostanziale del percorso. É vero, una organica politica dei prezzi sulle emissioni di carbonio sarebbe la cosa migliore, ma essa non è il sine qua non di una iniziativa efficace.
Il punto è che soltanto perché un libro di testo di economia offre un argomento acuto, che sfida l’apparenza, non rende quell’argomento di importanza centrale, in questo come in tutti gli altri casi. Le persone dovrebbero conoscere cosa c’è nei libri di testo; soprattutto, dovrebbero acquistare il mio! Ma non dovrebbero mai immaginarsi che essi siano il massimo di quello che ha importanza.
[1] Giustifico la traduzione: Krugman prende a prestito, come spiega con le prime frasi, un termine di Noah Smith (“101ism”). Econ 101 è l’espressione che definisce – negli studi universitari – un libro di testo di economia; l’ “ismo” del 101, dunque, è una forma di uso, od anche di abuso, dei libri di testo di economia. “Booster” significa “sostenitore, amplificatore” – da “to boost” che significa “incoraggiare, spingere, promuovere, incrementare”; dunque il titolo di questo post indica l’uso ‘amplificante’, disinvolto dei libri di testo di economia. Ma la differenza della accezione di Krugman (peraltro autore di vari libri di testo di economia, uno dei quali – tradotto in italiano – in collaborazione con la moglie, Robin Wells), viene spiegata nello stesso post.
[2] Ovvero, dei costi imposti o da imporre alle emissioni di carbonio.
[3] E’ in effetti quanto risulta da alcuni tweet di David Roberts, che sembra sia stato costretto a ritirare un articolo e a riproporlo in due pezzi, per via della lunghezza.
[4] Una più ampia digressione sul concetto ricardiano di ‘vantaggio comparativo’ (e di ‘rendimenti crescenti’) – scritta proprio sulla base delle spiegazioni contenute nel libro di testo di Krugman e Wells – la si trova in una nota sul post del 22 ottobre 2013.
[5] La tattica del “bait and switch” è, in termini commerciali, la ‘tecnica dell’adescamento’ del commerciante verso il consumatore. Più in generale, far apparire qualcosa mettendo sullo sfondo la cosa reale.
[6] Letteralmente, del “mettere un limite e consentire gli scambi” in materia di inquinamento ambientale – ovvero mettere un limite all’inquinamento e premiare chi sta sotto quel limite, anche permettendogli di ‘vendere’ il proprio comportamento virtuoso a chi resta provvisoriamente sopra (l’acquisto di ‘punti’ dai più virtuosi – e talora anche di tecnologie – essendo un modo provvisorio per restare nella legalità).
In Italia, per un certo periodo, una soluzione del genere venne adottata sui limiti alle emissioni degli impianti di termocombustione dei rifiuti.
By mm
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