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L’antipatia per Boris mi basta (dal blog di Krugman, 23 aprile 2016)

 

Boris Is Bad Enough

April 23, 2016 8:58

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Thank you, Boris Johnson. You’ve finally given me the moral courage to weigh in on a subject I’ve been avoiding: Brexit, Britain’s possible exit from the European Union. It’s not as easy a case as I’d like – but Johnson’s intervention makes it clear: Britain should stay in, lest it empower people like him.

Let me start with the economics. There are a number of estimates of the economic impact of Brexit out there, from HM Treasury and independent analysts, but I like to have a quick-and-dirty calculation I understand; it’s not out of line with other, more detailed results.

Here it goes: before it joined the EU, Britain did only about a third of its trade with Europe. Now it’s about half, and it’s unlikely that much of that represents trade diversion. So unless Britain can negotiate something that looks like Norway’s deal – which would basically mean accepting EU policies in which it would no longer have a voice – we might expect Brexit to reduce the share of trade in British GDP from about 30 percent to about 25 percent.

What’s that worth? I’ve previously used the elegant Eaton-Kortum trade analysis as a benchmark for assessing globalization; it tells us that real income, for given technology, is (1-trade share)^(-1/theta), where theta is a parameter reflecting how much comparative advantage there is in the world (don’t ask). Eaton-Kortum suggest theta=4 fits best. In that case, Brexit would reduce British real income by 1.7 percent. Call it 2 percent, with the understanding that there are big error margins around all of this.

Should we, as some argue, multiply this by two or more to reflect dynamic gains? In general, I’m not fond of this practice – it smacks way too much of 101 boosterism, deriving a policy argument from basic economic models then invoking factors not in the models to make the argument seem much stronger than it is. Why tout the dynamic effects of trade as opposed to lots of other things?

But 2 percent is a lot! It’s very, very hard to come up with policies that will make a country 2 percent richer in perpetuity. You’d have to have very good reasons to leave the EU to be willing to make that big a sacrifice.

What about income distribution, which is a big issue in many trade agreements? In this case, it’s pretty much irrelevant: the EU is, on average, comparable in wages and per capita income to the UK, with much of the trade intraindustry specialization that has little distributional effect. So Trumpsandersism shouldn’t matter here.

So what’s this all about? In a word, governance. The case for Brexit is, basically, that EU membership ties Britain to a very badly run institution. And that case is, unfortunately, reasonably strong. Eurocrats have a lot to answer for: the huge mistake of the euro, the reckless and feckless promotion of austerity, the hapless response to the refugee crisis and in general the failure to take seriously the strains of internal migration. Oh, and Europe has been largely useless in dealing with the destruction of democracy in Hungary.

But to point to the EU’s failings as a reason to leave is, as George Stigler used to say, giving the prize in a singing contest to the second contestant because you’ve heard the first. If Britain does leave the EU, and escapes the grip of the Eurocrats, who will it be empowering instead?

You sometimes hear people saying that the attitudes and character of the pro-Brexit forces are not a valid argument for staying in. But that’s wrong: asking who would call the shots afterwards, who would be strengthened, is extremely relevant.

And that’s where Boris Johnson’s tirade against President Obama is so wonderfully clarifying. It tells us who the anti-EU wing of the Conservatives really are; it tells us not just that they are pretty close to UKIP, but that intellectually and emotionally they live in the same fever swamps as the American right. And they would, all too probably, take on a strong, even dominant role in British politics post-Brexit.

So Britain, don’t do this. You would pay a fairly large economic price, and in return you would get governance so bad that it would make the EU look good.

 

L’antipatia per Boris mi basta

Grazie, Boris Johnson. Mi hai dato finalmente il coraggio morale per intervenire su un tema che stavo evitando: la Brexit, la possibile uscita dell’Inghilterra dal Regno Unito. Non è un argomento così ovvio come preferirei – ma l’intervento di Boris lo chiarisce: il Regno Unito dovrebbe restare, per il timore di rafforzare individui come lui.

Consentitemi di partire dall’economia. Circola un certo numero di stime sull’impatto economico dell’uscita del Regno Unito, da HM Treasury ad analisti indipendenti, ma preferisco utilizzare un calcolo rapido e semplicistico che capisco; non è disallineato con gli altri risultati più dettagliati.

Ecco come procede: prima di aderire alla UE, il Regno Unito aveva solo un terzo del suo commercio con l’Europa. Ora è quasi la metà, ed è improbabile che molto di questo rappresenti una deviazione dal commercio. Dunque, se il Regno Unito può negoziare qualcosa che assomigli all’accordo della Norvegia – che fondamentalmente comporterebbe l’accettazione delle politiche dell’UE, nelle quali essa non avrebbe più voce in capitolo – ci potremmo aspettare che la Brexit riduca la quota del commercio sul PIL inglese da circa il 30 per cento a circa il 25 per cento.

Cosa rappresenta quel valore? In passato ho utilizzato l’elegante analisi di Eaton-Kortum come punto di riferimento per stimare la globalizzazione; esso ci dice che il reddito reale, per una tecnologia data, è: (1-trade share)^(-1/theta), dove theta è un parametro che riflette quanto vantaggio comparativo c’è nel mondo (non chiedetevi cosa significhi [1]).  Eaton-Kortum suggeriscono che la soluzione più calzante sia “theta=4”. In quel caso la Brexit ridurrebbe il reddito reale inglese dell’1,7 per cento. Diciamo del 2 per cento, tenendo conto che ci sono grandi margini di errore in tutto questo.

Dovremmo, come sostiene qualcuno, moltiplicare questo per due o più ancora, per riflettere i vantaggi dinamici? In generale, non sono molto affezionato a questa pratica – essa assomiglia troppo all’uso amplificato dei libri di testo, derivando un argomento politico da modelli economici di base e poi invocando fattori che non sono nei modelli per far sembrare l’argomento più forte di quello che è. Perché promuovere gli effetti dinamici del commercio anziché quelli di una quantità di altre cose?

Ma il 2 per cento è molto! É molto, molto difficile farsi venire in mente politiche che renderanno un paese in perpetuo del 2 per cento più ricco [2]. Dovreste avere ragioni molto buone a lasciare l’UE, per essere disponibili a fare un sacrificio del genere.

Che dire della distribuzione del reddito, che è una grande questione in molti accordi commerciali? In questo caso, essa è sostanzialmente irrilevante: l’UE è, in media comparabile per salari e reddito procapite con il Regno Unito, con molta della specializzazione commerciale all’interno del settore industriale che ha un piccolo effetto distributivo. Dunque, in questo caso gli argomenti usati da Trump e da Sanders non dovrebbero contare.

Dunque, tutto questo in cosa consiste? In un parola, nella governance. L’argomento per la Brexit è, fondamentalmente, che la partecipazione all’UE tiene il Regno Unito legato ad una istituzione dall’andamento molto negativo. E questo argomento, sfortunatamente, è ragionevolmente forte. Gli eurocrati devono dare una grande quantità di risposte, a questo proposito: l’enorme errore dell’euro, la spericolata e inconcludente promozione dell’austerità, l’infelice risposta alla crisi dei rifugiati e in generale il fallimento nel prendere sul serio le tensioni della emigrazione interna. Inoltre, l’Europa è stata ampiamente incapace di misurarsi con la distruzione della democrazia in Ungheria.

Ma indicare i fallimenti dell’UE come una ragione per lasciarla sarebbe, come era solito dire George Stigler [3], come dare il premio in una competizione canora al secondo partecipante, perché si è sentito il primo. Piuttosto, se il Regno Unito effettivamente lascia l’UE e sfugge alla presa degli eurocrati, chi ne risulterà rafforzato?

Talora si sentono persone che dicono che le inclinazioni e il carattere delle forze a favore dell’uscita dall’UE, non sono un valido argomento per restarci. Ma questo è sbagliato: chi condurrà successivamente le danze, chi sarà rafforzato, è estremamente rilevante.

Ed è qua che la tirata contro il Presidente Obama da parte di Boris Johnson è stupendamente chiarificatrice. Essa ci dice cosa è effettivamente l’ala anti-UE dei conservatori; ci dice non solo che sono abbastanza vicini all’UKIP, ma che intellettualmente ed emotivamente vivono nello stesso acquitrino febbricitante della destra americana. Ed essi, anche troppo probabilmente, assumerebbero un ruolo forte, persino dominante, nel Regno Unito dopo la Brexit.

Dunque, inglesi, non fatelo. Paghereste un prezzo economico abbastanza grande, e in cambio avreste una governance che farebbe sembrare buona quella dell’UE.

 

 

[1] La teoria dei vantaggi comparati (o modello ricardiano) è stata concepita a partire dai concetti essenziali dall’economista inglese David Ricardo e si inserisce nel contesto delle teorie riguardanti il commercio internazionale. L’assunto su cui si basa è che un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio comparato (cioè la cui produzione ha un costo opportunità, in termini di altri beni, minore che negli altri paesi). (Wikipedia)

Data questa definizione, parrebbe che la quantità a livello mondiale di ‘vantaggio comparativo’ sarebbe un sorta di somma dei livelli di specializzazione delle economie nazionali. Ironicamente, Krugman sconsiglia di approfondire nel dettaglio.

[2] Ovvero, nuove politiche di ribilanciamento dell’economia del Governo inglese, se il referendum decidesse un sacrificio del 2 per cento del reddito nazionale.

[3] George Joseph Stigler (Seattle, 17 gennaio 1911Chicago, 1º dicembre 1991) è stato un economista e sviluppatore di ricerca statunitense, figura di spicco della Scuola di economia di Chicago. (Wikipedia)

 

 

 

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