Paul Krugman APRIL 18, 2016
When Verizon workers went on strike last week, they were mainly protesting efforts to outsource work to low-wage, non-union contractors. But they were also angry about the company’s unwillingness to invest in its own business. In particular, Verizon has shown a remarkable lack of interest in expanding its Fios high-speed Internet network, despite strong demand.
But why doesn’t Verizon want to invest? Probably because it doesn’t have to: many customers have no place else to go, so the company can treat its broadband business as a cash cow, with no need to spend money on providing better service (or, speaking from personal experience, on maintaining existing service).
And Verizon’s case isn’t unique. In recent years many economists, including people like Larry Summers and yours truly, have come to the conclusion that growing monopoly power is a big problem for the U.S. economy — and not just because it raises profits at the expense of wages. Verizon-type stories, in which lack of competition reduces the incentive to invest, may contribute to persistent economic weakness.
The argument begins with a seeming paradox about overall corporate behavior. You see, profits are at near-record highs, thanks to a substantial decline in the percentage of G.D.P. going to workers. You might think that these high profits imply high rates of return to investment. But corporations themselves clearly don’t see it that way: their investment in plant, equipment, and technology (as opposed to mergers and acquisitions) hasn’t taken off, even though they can raise money, whether by issuing bonds or by selling stocks, more cheaply than ever before.
How can this paradox be resolved? Well, suppose that those high corporate profits don’t represent returns on investment, but instead mainly reflect growing monopoly power. In that case many corporations would be in the position I just described: able to milk their businesses for cash, but with little reason to spend money on expanding capacity or improving service. The result would be what we see: an economy with high profits but low investment, even in the face of very low interest rates and high stock prices.
And such an economy wouldn’t just be one in which workers don’t share the benefits of rising productivity; it would also tend to have trouble achieving or sustaining full employment. Why? Because when investment is weak despite low interest rates, the Federal Reserve will too often find its efforts to fight recessions coming up short. So lack of competition can contribute to “secular stagnation” — that awkwardly-named but serious condition in which an economy tends to be depressed much or even most of the time, feeling prosperous only when spending is boosted by unsustainable asset or credit bubbles. If that sounds to you like the story of the U.S. economy since the 1990s, join the club.
There are, then, good reasons to believe that reduced competition and increased monopoly power are very bad for the economy. But do we have direct evidence that such a decline in competition has actually happened? Yes, say a number of recent studies, including one just released by the White House. For example, in many industries the combined market share of the top four firms, a traditional measure used in many antitrust studies, has gone up over time.
The obvious next question is why competition has declined. The answer can be summed up in two words: Ronald Reagan.
For Reagan didn’t just cut taxes and deregulate banks; his administration also turned sharply away from the longstanding U.S. tradition of reining in companies that become too dominant in their industries. A new doctrine, emphasizing the supposed efficiency gains from corporate consolidation, led to what those who have studied the issue often describe as the virtual end of antitrust enforcement.
True, there was a limited revival of anti-monopoly efforts during the Clinton years, but these went away again under George W. Bush. The result was an economy with far too much concentration of economic power. And the Obama administration — preoccupied with the aftermath of financial crisis and the struggle with bitterly hostile Republicans — has only recently been in a position to grapple with competition policy.
Still, better late than never. On Friday the White House issued an executive order directing federal agencies to use whatever authority they have to “promote competition.” What this means in practice isn’t clear, at least to me. But it may mark a turning point in governing philosophy, which could have large consequences if Democrats hold the presidency.
For we aren’t just living in a second Gilded Age, we’re also living in a second robber baron era. And only one party seems bothered by either of those observations.
Le recessioni dei ‘padroni del vapore’ [1], di Paul Krugman
New York Times 18 aprile 2016
Quando i lavoratori di Verizon [2], la scorsa settimana, sono entrati in sciopero, essi stavano principalmente protestando contro i tentativi di dare all’esterno lavoro a bassi salari, a ditte in appalto non sindacalizzate. Ma erano anche arrabbiati per l’indisponibilità della società a investire nella sua attività. In particolare, Verizon ha dimostrato una rimarchevole mancanza di interesse ad espandere la sua rete Internet ad alta velocità Fios, nonostante una forte domanda.
Ma perché Verizon non intende investire? Probabilmente perché non ne ha necessità: molti clienti non hanno altri posti dove andare, dunque la società può trattare i suoi affari sulla banda larga come una mucca da mungere, senza bisogno di spendere soldi per fornire un servizio migliore (oppure, parlo per esperienza personale, per mantenere il servizio esistente).
E il caso di Verizon non è unico. Negli anni recenti molti economisti, incluse persone come Larry Summers e il sottoscritto, sono arrivati alla conclusione che il potere crescente dei monopoli è un grande problema per l’economia degli Stati Uniti – e non solo perché alza i profitti a spese dei salari. Storie del genere di quella di Verizon, nelle quali la mancanza di competizione riduce l’incentivo a investire, possono favorire una persistente debolezza economica.
La tesi prende le mosse da un apparente paradosso sul comportamento complessivo delle società. Si può constatare che i profitti sono prossimi a vette da record, grazie ad un sostanziale declino della percentuale del PIL che va ai lavoratori. Potreste pensare che questi profitti elevati comportino alti tassi di rendimento degli investimenti. Ma le stesse società chiaramente non la vedono in questo modo: i loro investimenti negli stabilimenti, nelle attrezzature e nelle tecnologie (anziché nelle fusioni e nelle acquisizioni) non sono decollati, anche se esse possono raccogliere capitali, sia emettendo bond che vendendo azioni, più convenientemente che mai in precedenza.
Come si può spiegare questo paradosso? Ebbene, supponete che questi alti profitti societari non rappresentino rendimenti degli investimenti, ma piuttosto riflettano principalmente un potere crescente dei monopoli. In quel caso molte società sarebbero nella posizione che ho appena descritto: capaci di spremere il loro affari quanto a contante, ma con poche ragioni per spendere soldi nella espansione della capacità produttiva o nel miglioramento del servizio. Il risultato sarebbe quello che vedete: una economia con alti profitti ma con investimenti bassi, persino a fronte di tassi di interesse bassissimi e di alti prezzi delle azioni.
E una economia del genere non soltanto sarebbe tale da non far partecipare i lavoratori ai benefici della crescente produttività; tenderebbe anche ad avere difficoltà nel realizzare o sostenere la piena occupazione. Perché? Perché quando l’investimento è debole nonostante i bassi tassi di interesse, la Federal Reserve troppo spesso scopre che i suoi sforzi non si dimostrano all’altezza di combattere le recessioni. Dunque la mancanza di competizione può contribuire alla “stagnazione secolare” – la condizione, definita in modo maldestro eppure seria, per la quale un’economia tende ad essere depressa per molto, persino per la parte prevalente del tempo, perché dà la sensazione di essere prospera soltanto quando la spesa è incoraggiata da bolle insostenibili degli asset o del credito. Se questo vi fa venire alla mente la storia dell’economia statunitense a partire dagli anni ’90, potete unirvi alla nostra associazione.
Ci sono, inoltre, buone ragioni per credere che la ridotta competizione e l’accresciuto potere dei monopoli, siano molto negativi per l’economia. Ma abbiamo prove dirette che un tale declino della competizione è realmente accaduto? Un certo numero di studi recenti lo conferma, incluso uno appena pubblicato a cura della Casa Bianca. Ad esempio, in molti settori industriali la quota congiunta di mercato delle quattro maggiori società, un tradizionale criterio di misurazione utilizzato in molti studi anti-trust, è cresciuto nel corso del tempo.
La ovvia domanda successiva è perché la competizione è calata. La risposta può essere riassunta in due parole: Ronald Reagan.
Perché Reagan non tagliò semplicemente le tasse e deregolamentò le banche: la sua Amministrazione voltò anche le spalle ad una tradizione di lunga data degli Stati Uniti nel tenere sotto controllo le società che diventano troppo dominanti nei loro settori industriali. Una nuova dottrina, che enfatizza i supposti vantaggi di efficienza derivanti dal consolidamento societario, ha portato a quella che coloro che hanno studiato la materia definiscono come la fine virtuale della applicazione della legislazione antitrust.
É vero, durante gli anni di Clinton ci fu una limitata ripresa degli sforzi antimonopolistici, ma questi vennero nuovamente liquidati sotto George W. Bush. Il risultato fu un’economia con una concentrazione di potere economico di gran lunga esagerata. E la Amministrazione Obama – preoccupata per le conseguenze della crisi finanziaria e per la battaglia contro l’aspra ostilità dei repubblicani – soltanto di recente si è misurata direttamente con la politica della competizione.
Tuttavia, meglio tardi che mai. Venerdì la Casa Bianca ha emesso una ordinanza esecutiva indirizzata alle agenzie federali perché utilizzino ogni autorità di cui dispongono per “promuovere la competizione”. Quello che significhi in pratica, almeno per me, non è chiaro. Ma può segnare un punto di svolta nella filosofia di governo, la qualcosa potrebbe avere vaste conseguenze se i democratici conserveranno la Presidenza.
Perché non stiamo solo vivendo in una seconda Età dell’Oro, stiamo anche vivendo in una seconda età dei ‘padroni delle ferriere’. E soltanto un partito sembra preoccuparsi di entrambe queste constatazioni.
[1] “Robber baron” significa letteralmente “baroni briganti”. Nella storia americana è riferito a quelle posizioni industriali di monopolio che consentivano (ai Carnegie, ai Rockfeller, ad Astor ed a Vanderbilt …) di praticare metodi disinvolti quando non criminali. Mi pare calzante una traduzione con la nostra ottocentesca espressione di ‘padroni del vapore’, che Ernesto Rossi riutilizzò per descrivere il potere dei monopoli durante il fascismo. Il dominio sulla energia, che oggi è dominio sulla ‘banda larga’.
Del resto, l’origine di quella espressione proviene dalla storia ancora più antica dei ‘baroni’ tedeschi lungo il corso del fiume Reno, che facevano pagare tangenti a chi utilizzava il fiume nei tratti del loro dominio.
[2] Verizon Communications è un fornitore di banda larga statunitense e di telecomunicazioni. Il gruppo si è formato nel 2000 quando Bell Atlantic, una delle società regionali di telefonia (Regional Bell Operating Companies), comprò GTE, precedentemente la più grande compagnia telefonica locale indipendente negli Stati Uniti. Inoltre si fuse con la divisione mobile negli USA del Vodafone Group Plc, che detiene il 45% delle quote della società. [2] Prima di attuare la trasformazione in Verizon, Bell Atlantic si fuse inoltre con NYNEX (un’altra Regional Bell Operating Companies) nel 1997. Il nome è un portmanteau di Veritas (dal latino verità) e Horizon (dall’inglese orizzonte). (Wikipedia)
By mm
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