Apr 23 4:48 pm
Back in November — which seems like a very long time ago — I noted that political scientists were having some trouble with the nomination process; the whole “party decides” framework led them, by and large, to expect convergence on a mainstream candidate like Jeb Bush or Marco Rubio, not a duel between Mussolini and Torquemada. At the time I put this down to “regime change”; at this point I’d be more specific, and say that the political science profession basically had a blind spot about the transformation of the GOP into an extremist party. That’s why Norman Ornstein, who did face up to that reality, was so much closer to the mark than most of his colleagues.
But while poli sci had a big miss in the fall, since the primary season got underway it has done very well, at least as compared with standard political punditry.
Put it this way: there have been two narratives of the campaign. One is full of ups and downs, momentum and stunning reversals. Trump is doomed! He’s inevitable! Bernie has won seven in a row — can he be stopped?
The other sees a fairly stable race, with state-by-state results mostly reflecting demographic differences. In this view, momentum is just a bad metaphor; it involves treating what is basically noise — e.g., a string of very white states with open primaries, which favored Sanders — as signal. As Alan Abramowitz noted yesterday, the Democratic race in particular is quite well explained by a model in which just three factors determine the Clinton vote share: whether it’s in the South, the percentage of African-Americans, and the share of Democrats (as opposed to independents) in the voting. Nate Cohn has what I believe to be a similar although slightly more complicated model, and has been trying to make the same point. Here’s what Abramowitz’s analysis looks like:
Thus, Clinton’s big win in New York wasn’t a shocking reversal of Sanders momentum; it was what you’d expect in a state whose demographics looked much more like the Democratic party as a whole than the states Sanders had won in the preceding weeks. (Notice that Clinton’s overall lead in the popular vote, 15 percent, is almost the same as her margin in New York.)
The point is that horserace punditry has been consistently, er, trumped by statistical analysis all along. Quantitative political science is looking pretty good.
Lo slancio ed il risarcimento della scienza politica
Nel passato novembre – sembra molto tempo fa – notai che gli scienziati della politica avevano qualche problema con l’evento della nomination: l’intero schema “il Partito decide [1]” li aveva condotti, in generale, ad aspettarsi convergenze su un candidato convenzionale come Jeb Bush o Marco Rubio, non un duello tra Mussolini e Torquemada. A quel tempo io segnalai un “cambiamento di programma”; oggi dovrei essere più preciso, e dire che la disciplina della scienza politica è finita in un punto cieco nella comprensione della trasformazione del Partito Repubblicano in un partito estremista. Quella è la ragione per la quale Norman Ornstein, che fece i conti con quella realtà, fu tanto più vicino al bersaglio della maggioranza dei suoi colleghi.
Ma se la scienza politica, in autunno, ha del tutto mancato il bersaglio, è stata efficace dal momento in cui è partita la stagione delle primarie, se non altro a confronto con i normali commentatori della politica.
Diciamo così: ci sono stati due racconti della campagna elettorale. Uno è stato pieno di alti e bassi, di momenti di accelerazione e di sorprendenti inversioni di tendenza. Trump è condannato! É invitabile! Bernie ha vinto sette Stati in fila – chi lo ferma più!
L’altro ha visto una competizione abbastanza stabile, con i risultati stato-per-stato che soprattutto riflettevano le diversità demografiche. In questa prospettiva, lo slancio era solo una cattiva metafora; si risolveva nel trattare quello che è fondamentalmente un caso di scalpore – ad esempio, una sequenza di Stati a grande maggioranza di bianchi con le primarie aperte [2], che favorivano Sanders – con un segnale. Come ha osservato ieri Alan Abramowitz, la competizione democratica in particolare è abbastanza bene spiegabile con un modello nel quale soltanto tre fattori determina la quota dei voti della Clinton: il fatto che il voto sia nel Sud, la percentuale di afro-americani e la percentuale di scritti ai democratici (anziché di indipendenti) nella votazione. Nate Cohen ha quello che credo sia un modello simile, sebbene leggermente più complicato, ed ha cercato di avanzare lo stesso argomento. Ecco a cosa assomiglia l’analisi di Abramowitz [3]:
Quindi, la grande vittoria della Clinton a New York non è stata quella stupefacente inversione dello slancio di Sanders; è stato quello che vi sareste aspettati in uno Stato nel quale i fattori demografici apparivano molto più simili al Partito Democratico nel suo complesso, degli Stati nei quali Sanders aveva vinto nelle settimane precedenti (si noti che il vantaggio complessivo della Clinton nel voto popolare [4], 15 per cento, è quasi lo stesso del suo margine in New York).
Il punto è che i commenti sul tipo della competizione serrata sono stati, per tutto il tempo, costantemente, diciamo così, surclassati dalla analisi statistica [5]. La scienza politica quantitativa sembra funzioni bene.
[1] Ovvero: ciò che conta sono gli orientamenti degli apparati di Partito, che era la linea di interpretazione della grande maggioranza di commentatori che di conseguenza si aspettavano un successo dei candidati più tradizionali come Bush e Rubio, e non degli estremisti come Trump e Cruz (il primo paragonato a Mussolini, suppongo per la sbruffoneria, il seconda a Torquemada, suppongo per il bigottismo religioso che, effettivamente, gli è valso il sostegno della componente degli ‘evangelici’).
[2] Ovvero, con primarie non riservate ai soli iscritti al Partito.
[3] La tabella del politologo Abramowitz è una grafico a dispersione, che sulla linea verticale misura la percentuale di voti andati alla Clinton e su quella orizzontale la percentuale di voti che erano previsti. Come si può notare, la corrispondenza tra previsioni e risultati è stata abbastanza regolare. Le discordanze maggiori sembrano essere: lo Stato del Massachusetts, per meno di una decina di punti e il Nord Carolina, per un decina di punti. Il risultato nello Stato di New York è praticamente identico alle previsioni.
[4] Ovvero, la somma dei voti attribuiti alla Clinton negli Stati nei quali c’erano primarie aperte e non riservate ai soli iscritti. Almeno credo.
[5] L’ironia (il “diciamo così”) dipende dal fatto che “sbaragliare, surclassare” è espresso con il verbo “to trump”.
By mm
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