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La verità e il trumpismo, di Paul Krugman (New York Times 6 maggio 2016)

 

Truth and Trumpism

Paul Krugman MAY 6, 2016

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How will the news media handle the battle between Hillary Clinton and Donald Trump? I suspect I know the answer — and it’s going to be deeply frustrating. But maybe, just maybe, flagging some common journalistic sins in advance can limit the damage. So let’s talk about what can and probably will go wrong in coverage — but doesn’t have to.

First, and least harmful, will be the urge to make the election seem closer than it is, if only because a close race makes a better story. You can already see this tendency in suggestions that the startling outcome of the fight for the Republican nomination somehow means that polls and other conventional indicators of electoral strength are meaningless.

The truth, however, is that polls have been pretty good indicators all along. Pundits who dismissed the chances of a Trump nomination did so despite, not because of, the polls, which have been showing a large Trump lead for more than eight months.

Oh, and let’s not make too much of any one poll. When many polls are taken, there are bound to be a few outliers, both because of random sampling error and the biases that can creep into survey design. If the average of recent polls shows a strong lead for one candidate — as it does right now for Mrs. Clinton — any individual poll that disagrees with that average should be taken with large helpings of salt.

A more important vice in political coverage, which we’ve seen all too often in previous elections — but will be far more damaging if it happens this time — is false equivalence.

You might think that this would be impossible on substantive policy issues, where the asymmetry between the candidates is almost ridiculously obvious. To take the most striking comparison, Mr. Trump has proposed huge tax cuts with no plausible offsetting spending cuts, yet has also promised to pay down U.S. debt; meanwhile, Mrs. Clinton has proposed modest spending increases paid for by specific tax hikes.

That is, one candidate is engaged in wildly irresponsible fantasy while the other is being quite careful with her numbers. But beware of news analyses that, in the name of “balance,” downplay this contrast.

This isn’t a new phenomenon: Many years ago, when George W. Bush was obviously lying about his budget arithmetic but nobody would report it, I suggested that if a candidate declared that the earth was flat, headlines would read, “Shape of the Planet: Both Sides Have a Point.” But this year it could be much, much worse.

And what about less quantifiable questions about behavior? I’ve already seen pundits suggest that both presumptive nominees fight dirty, that both have taken the “low road” in their campaigns. For the record, Mr. Trump has impugned his rivals’ manhood, called them liars and suggested that Ted Cruz’s father was associated with J.F.K.’s killer. On her side, Mrs. Clinton has suggested that Bernie Sanders hasn’t done his homework on some policy issues. These things are not the same.

Finally, I can almost guarantee that we’ll see attempts to sanitize the positions and motives of Trump supporters, to downplay the racism that is at the heart of the movement and pretend that what voters really care about are the priorities of D.C. insiders — a process I think of as “centrification.”

That is, after all, what happened after the rise of the Tea Party. I’ve seen claims that Tea Partiers were motivated by Wall Street bailouts, or even that the movement was largely about fiscal responsibility, driven by voters upset about budget deficits.

In fact, there was never a hint that any of these things mattered; if you followed the actual progress of the movement, it was always about white voters angry at the thought that their taxes might be used to help Those People, whether via mortgage relief for distressed minority homeowners or health care for low-income families.

Now I’m seeing suggestions that Trumpism is driven by concerns about political gridlock. No, it isn’t. It isn’t even mainly about “economic anxiety.”

Trump support in the primaries was strongly correlated with racial resentment: We’re looking at a movement of white men angry that they no longer dominate American society the way they used to. And to pretend otherwise is to give both the movement and the man who leads it a free pass.

In the end, bad reporting probably won’t change the election’s outcome, because the truth is that those angry white men are right about their declining role. America is increasingly becoming a racially diverse, socially tolerant society, not at all like the Republican base, let alone the plurality of that base that chose Donald Trump.

Still, the public has a right to be properly informed. The news media should do all it can to resist false equivalence and centrification, and report what’s really going on.

 

La verità e il trumpismo, di Paul Krugman

New York Times 6 maggio 2016

Come tratteranno gli organi dell’informazione la battaglia tra Hillary Clinton e Donald Trump? Sospetto di conoscere la risposta, destinata ad essere profondamente frustrante. Ma forse, solo forse, evidenziare in anticipo alcuni consueti peccati del giornalismo, potrà limitare i danni. Lasciatemi dunque discorrere di cosa può andare e probabilmente andrà in modo negativo in quei resoconti – pur non essendo necessario.

In primo luogo, l’aspetto meno dannoso, ci sarà la spinta a far sembrare la competizione elettorale più serrata di quanto non sia, per il solo motivo che una competizione serrata rende la storia più avvincente. Potete già osservare questa tendenza nelle suggestioni secondo le quali lo stupefacente risultato della battaglia per la nomination repubblicana, in qualche modo comporta che i sondaggi e gli altri consueti indicatori della forza elettorale sono insignificanti.

La verità, tuttavia, è che i sondaggi sono stati sin dall’inizio un indicatore piuttosto buono. I commentatori che hanno rimosso le possibilità di una nomina di Trump lo hanno fatto nonostante, e non a causa dei sondaggi, che venivano mostrando un ampio vantaggio di Trump da più di otto mesi.

Inoltre, non è il caso di dare troppa importanza a ciascun sondaggio. Quando ne vengono raccolti molti, ce ne sono alcuni destinati ad essere eccezioni, sia a causa di errori casuali nella campionatura, sia per la tendenziosità che può annidarsi nel progetto di indagine. Se la media dei recenti sondaggi mostra un forte vantaggio per un candidato – e così è in questo momento per la signora Clinton – ogni singolo sondaggio in disaccordo con quella media dovrebbe essere preso con beneficio di inventario.

Un vizio più importante nella copertura giornalistica, che abbiamo constatato anche troppo spesso in precedenti elezioni – ma che farà maggiore danno se avviene anche questa volta – è la falsa equivalenza.

Si potrebbe pensare che questo non sia possibile su temi politici di sostanza, dove l’asimmetria tra i candidati è evidente in modo quasi spropositato. Per prendere il confronto più impressionante, Trump ha proposto grandi sgravi fiscali senza alcun plausibile bilanciamento nei tagli alla spesa, tuttavia ha anche promesso di abbattere il debito degli Stati Uniti; di contro, la Clinton ha proposto modesti aumenti della spesa coperti da specifici incrementi fiscali.

Vale a dire, un candidato è impegnato in fantasie irresponsabili che hanno del grottesco, mentre l’altra è abbastanza scrupolosa con i suoi numeri. Ma guardatevi dalle analisi giornalistiche che, in nome del “bilanciamento”, minimizzano questo contrasto.

Non si tratta di un fenomeno nuovo: molti anni fa, quando George W. Bush stava evidentemente mentendo con la sua aritmetica di bilancio ma nessuno ne dava notizia, io suggerii che se un candidato avesse dichiarato che la terra era piatta, i titoli dei giornali avrebbero recitato: “La forma del Pianeta: entrambi gli schieramenti hanno una tesi”. Ma quest’anno sarebbe molto, molto peggio.

E che dire degli aspetti meno quantificabili relativi ai comportamenti? Ho già notato commentatori che indicano che entrambi i presunti candidati combattono in modo poco pulito, che entrambi hanno assunto nelle loro campagne strategie di basso profilo. Per la cronaca, Trump ha sollevato dubbi sulla virilità dei suoi rivali, li ha chiamati bugiardi ed ha suggerito che il padre di Ted Cruz fosse associato con l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. Per parte sua, la Clinton ha suggerito che Bernie Sanders non fosse preparato su alcune tematiche politiche. Non si può dire che sia la stessa cosa.

In fine, posso quasi dare per certo che vedremo tentativi di sterilizzare le posizioni e le motivazioni dei sostenitori di Trump, per minimizzare il razzismo che è al cuore del movimento e far finta che quello di cui gli elettori realmente si preoccupano sono le priorità di quelli che stanno a Washington – un processo che definirei di “centrificazione” [1].

É quello che, dopo tutto, è successo dopo l’ascesa del Tea Party. Ho visto argomentare che i membri del Tea Party erano motivati dal salvataggi di Wall Street, o persino che il movimento  riguardava in buona parte la responsabilità nella finanza pubblica, guidato da elettori indignati per i deficit di bilancio.

Di fatto, non ci fu mai il minimo indizio che niente del genere avesse importanza; se avete seguito il progresso effettivo del movimento, esso ha sempre riguardato elettori bianchi arrabbiati al pensiero che le loro tasse potessero essere usate per aiutare la povera gente, che fosse per via di una attenuazione dei mutui per una minoranza di proprietari di abitazioni in difficoltà o della assistenza sanitaria alle famiglie a basso reddito.

Ora si assiste a suggestioni per le quali il trumpismo sarebbe guidato da preoccupazioni sul punto morto della politica. No, non è così. E non riguarda nemmeno principalmente “l’ansietà economica”.

Il sostegno a Trump nelle primarie è stato in forte correlazione con il rancore razziale: siamo dinanzi ad un movimento di uomini bianchi indignati perché non dominano più la società americana come erano abituati. E fingere una cosa diversa è come dare al movimento e all’uomo che lo guida un ingresso gratuito.

Alla fine, probabilmente una cattiva informazione non cambierà il risultato elettorale, perché la verità è che quegli uomini bianchi indignati hanno ragione sul loro ruolo declinante. L’America sta gradualmente diventando una società diversa, socialmente tollerante, del tutto diversa dalla base repubblicana, per non dire dalla maggioranza di quella base che ha scelto Donald Trump.

Eppure, l’opinione pubblica ha diritto ad essere informata correttamente. I media dell’informazione dovrebbero fare tutto quello che possono per resistere alle false equivalenze ed alla ‘centrificazione’,  e riferire quello che sta realmente andando avanti.

 

[1] É un termine che non esiste, che forse sfrutta l’analogia fonetica con “gentrificazione”, che indica i processi di espulsione da un quartiere dei cittadini con redditi bassi e di contestuale occupazione da parte di cittadini benestanti. La “gentry” era la piccola nobiltà, oggi potremmo anche dirlo con “imborghesimento”. In questo caso, mi pare, al posto della “gentry” compare il “center”, ovvero il centro della politica, che espelle, o vorrebbe far apparire marginali le posizioni estreme. In pratica, sterilizzando il razzismo.

 

 

 

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