Paul Krugman MAY 27, 2016
In general, you shouldn’t pay much attention to polls at this point, especially with Republicans unifying around Donald Trump while Bernie Sanders hasn’t conceded the inevitable. Still, I was struck by several recent polls showing Mr. Trump favored over Hillary Clinton on the question of who can best manage the economy.
This is pretty remarkable given the incoherence and wild irresponsibility of Mr. Trump’s policy pronouncements. Granted, most voters probably don’t know anything about that, in part thanks to substance-free news coverage. But if voters don’t know anything about Mr. Trump’s policies, why their favorable impression of his economic management skills?
The answer, I suspect, is that voters see Mr. Trump as a hugely successful businessman, and they believe that business success translates into economic expertise. They are, however, probably wrong about the first, and definitely wrong about the second: Even genuinely brilliant businesspeople are often clueless about economic policy.
An aside: In part this is surely a partisan thing. Over the years, polls have generally, although not universally, shown Republicans trusted over Democrats to manage the economy, even though the economy has consistently performed better under Democratic presidents. But Republicans are much better at promoting legends — for example, by constantly hyping economic and jobs growth under Ronald Reagan, even though the Reagan record was easily surpassed under Bill Clinton.
Back to Mr. Trump: One of the many peculiar things about his run for the White House is that it rests heavily on his claims of being a masterful businessman, yet it’s far from clear how good he really is at the “art of the deal.” Independent estimates suggest that he’s much less wealthy than he says he is, and probably has much lower income than he claims to have, too. But since he has broken with all precedents by refusing to release his tax returns, it’s impossible to resolve such disputes. (And maybe that’s why he won’t release those returns.)
Remember, too, that Mr. Trump is a clear case of someone born on third base who imagines that he hit a triple: He inherited a fortune, and it’s far from clear that he has expanded that fortune any more than he would have if he had simply parked the money in an index fund.
But leave questions about whether Mr. Trump is the business genius he claims to be on one side. Does business success carry with it the knowledge and instincts needed to make good economic policy? No, it doesn’t.
True, the historical record isn’t much of a guide, since only one modern president had a previous successful career in business. And maybe Herbert Hoover was an outlier.
But while we haven’t had many business leaders in the White House, we do know what kind of advice prominent businessmen give on economic policy. And it’s often startlingly bad, for two reasons. One is that wealthy, powerful people sometimes don’t know what they don’t know — and who’s going to tell them? The other is that a country is nothing like a corporation, and running a national economy is nothing like running a business.
Here’s a specific, and relevant, example of the difference. Last fall, the now-presumed Republican nominee declared: “Our wages are too high. We have to compete with other countries.” Then, as has happened often in this campaign, Mr. Trump denied that he had said what he had, in fact, said — straight talker, my toupee. But never mind.
The truth is that wage cuts are the last thing America needs right now: We sell most of what we produce to ourselves, and wage cuts would hurt domestic sales by reducing purchasing power and increasing the burden of private-sector debt. Lower wages probably wouldn’t even help the fraction of the U.S. economy that competes internationally, since they would normally lead to a stronger dollar, negating any competitive advantage.
The point, however, is that these feedback effects from wage cuts aren’t the sort of things even very smart business leaders need to take into account to run their companies. Businesses sell stuff to other people; they don’t need to worry about the effect of their cost-cutting measures on demand for their products. Managing national economic policy, on the other hand, is all about the feedback.
I’m not saying that business success is inherently disqualifying when it comes to policy making. A tycoon who has enough humility to realize that he doesn’t already know all the answers, and is willing to listen to other people even when they contradict him, could do fine as an economic manager. But does this describe anyone currently running for president?
The truth is that the idea that Donald Trump, of all people, knows how to run the U.S. economy is ludicrous. But will voters ever recognize that truth?
Le illusioni sulla competenza di Trump, di Paul Krugman
New York Times 27 maggio 2016
In generale, in questo momento non si dovrebbe prestare molta attenzione ai sondaggi, con i repubblicani che si unificano attorno a Donald Trump mentre Bernie Sanders non ammette ciò che è inevitabile. Eppure, sono rimasto sbigottito da alcuni recenti sondaggi che mostrano Trump avvantaggiato su Hillary sulla domanda di chi potrà gestire nel migliore dei modi l’economia.
Questo è abbastanza considerevole, data l’incoerenza e la sfrenata irresponsabilità dei pronunciamenti politici di Trump. Di certo, probabilmente la maggioranza degli elettori non conosce niente di tutto ciò, in parte grazie ai resoconti dell’informazione indifferenti alla sostanza. Ma se gli elettori non sanno niente sulle politiche di Trump, da dove viene la loro impressione favorevole sulle sue competenze nella gestione economica?
La risposta, suppongo, è che gli elettori considerano il signor Trump come un uomo di affari di grande successo, e credono che il successo negli affari si traduca in esperienza economica. Sennonché, probabilmente hanno torto sul primo aspetto, ed hanno completamente torto sul secondo: persino uomini d’affari effettivamente brillanti spesso non hanno la più pallida idea della politica economica.
Un inciso: in parte su questo incide una componente di faziosità. Nel corso degli anni, i sondaggi hanno in generale, sebbene non sempre, mostrato una maggiore fiducia nei repubblicani rispetto ai democratici nella gestione dell’economia, anche se l’economia ha stabilmente funzionato meglio con i Presidenti democratici. Ma i repubblicani sono molto più bravi nel raccontare favole – ad esempio, pubblicizzando costantemente la crescita dell’economia e dei posti di lavoro sotto Ronald Reagan, anche se il record di Reagan venne agevolmente superato sotto Bill Clinton.
Tornando a Trump: uno dei molti aspetti peculiari della sua corsa alla Casa Bianca è che essa si affida abbondantemente sulle sue pretese di essere un uomo d’affari magistrale, tuttavia è lungi dall’essere chiaro quanto sia effettivamente capace nell’ “arte del fare affari”. Valutazioni indipendenti indicano che egli è molto meno ricco di quanto dice di essere, e probabilmente ha anche un reddito molto più basso di quanto sostiene di avere. Ma dal momento che egli ha rotto con la tradizione di rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi, è impossibile risolvere tale disputa (e quello forse è il motivo per il quale non vuole rendere pubbliche quelle dichiarazioni).
Si ricordi che il caso del signor Trump è chiaramente quello di uno che, portato in terza base, si immagina di aver colpito una tripla [1]: egli ha ereditato una fortuna, ed è tutt’altro che chiaro che egli abbia accresciuto tale fortuna di niente di più di quello che avrebbe ottenuto semplicemente parcheggiando i soldi in un fondo indicizzato.
Ma lasciamo da parte la domanda se il signor Trump sia il genio affaristico che pretende di essere. Il successo negli affari si accompagna alla competenza ed alla abilità innata necessaria per fare una buona politica economica? No, non è così.
In realtà, la storia non ci aiuta molto, dal momento che solo un Presidente dell’era moderna ebbe una precedente carriera fortunata negli affari. E forse Herbert Hoover fu una eccezione.
Ma se non abbiamo avuto molti dirigenti di impresa alla Casa Bianca, sappiamo abbastanza bene il genere di consigli che gli eminenti uomini d’affari danno sulla politica economica. E spesso si tratta di consigli sorprendentemente negativi, per due ragioni. Una è che i ricchi, le persone potenti talvolta ignorano quello di cui non hanno esperienza – e chi glielo dirà? L’altra è che un paese non è niente di simile ad una società, e gestire una economia nazionale non è affatto simile a gestire una impresa.
Ecco un esempio preciso e rilevante di tale differenza. Lo scorso autunno, l’attuale presunto candidato repubblicano dichiarò: “I nostri salari sono troppo alti. Dobbiamo competere con gli altri paesi”. Poi, come è successo spesso in questa campagna elettorale, Trump negò di aver detto quello che, in realtà, aveva detto – un uomo che ha una parola sola, tanto di … parrucchino [2]. Ma lasciamo perdere.
La verità è che in questo momento il taglio ai salari è l’ultima cosa di cui l’America ha bisogno: noi vendiamo gran parte di quello che produciamo a noi stessi, e i tagli ai salari danneggerebbero le vendite interne, riducendo il potere di acquisto ed aumentando il debito del settore privato. Salari più bassi probabilmente non aiuterebbero neanche il segmento dell’economia americana che compete a livello internazionale, dal momento che essi normalmente portano ad un dollaro più forte, negando ogni vantaggio competitivo.
Il punto, tuttavia, è che questi effetti di ricaduta dei tagli salariali non sono il genere di cose che persino i dirigenti di impresa intelligenti hanno bisogno di mettere nel conto per gestire le loro società. Gli impresari vendono oggetti alla gente comune; non hanno bisogno di preoccuparsi dell’effetto delle loro misure di taglio dei costi sulla domanda per i loro prodotti. Di contro, gestire una politica economica nazionale, si basa tutto su tali ricadute.
Non sto sostenendo che il successo negli affari sia intrinsecamente negativo quando si tratta di fare politica. Un magnate che abbia sufficiente umiltà per comprendere che egli non conosce già tutte le risposte, e sia disponibile ad ascoltare gli altri anche quando lo contraddicono, potrebbe far bene come gestore dell’economia. Ma questa descrizione si adatta a qualcuno che attualmente è in corsa per la Presidenza?
La verità è che l’idea che Donald Trump, tra tutte le persone, sappia come gestire l’economia degli Stati Uniti è risibile. Ma gli elettori riconosceranno mai quella verità?
[1] Nel baseball il gioco fondamentalmente si basa sulla abilità di colpire la palla con la mazza in modo da avere il tempo, preferibilmente in sicurezza, di portarsi nella prima base, poi nella seconda e nella terza (la terza base è la più vicina alla conclusione del tracciato e dunque alla realizzazione del punto). In casi abbastanza rari si riesce a colpire la palla in modo da ottenere con un solo tiro lo spostamento in terza base. In quel caso di dice che si è colpito una “tripla”. Dunque, almeno così io intendo il “born” (più nel senso di ‘portato’ che nel senso di ‘nato’, che pure sarebbe una interpretazione ironica): se uno è finito in terza base e si immagina di esserci arrivato solo per suo merito e con un colpo soltanto, ha la stessa psicologia di Trump. La frase è attribuita al noto allenatore, ma di football americano, Barry Switzer.
In realtà è anche possibile spedire la palla fuori dal campo, in tribuna o addirittura fuori dallo stadio, come talora si vede in TV; ma allora il successo è incontestabile e non dipende da fantasia.
[2] Suppongo che l’ironia possa essere questa, parafrasando l’espressione “tanto di cappello”. Altrimenti: “il mio parrucchino”, più banale.
By mm
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