Paul Krugman JUNE 10, 2016
I spent much of this politically momentous week at a workshop on inequality, where papers were presented on everything from the causes of wage disparities to the effects of inequality on happiness. As so often happens at conferences, however, what really got me thinking was a question during coffee break: “Why don’t you talk more about horizontal inequality?”
What? Horizontal inequality is the term of art for inequality measured, not between individuals, but between racially or culturally defined groups. (Of course, race itself is mainly a cultural construct rather than a fact of nature — Americans of Italian or even Irish extraction weren’t always considered white.) And it struck me that horizontal thinking is what you need to understand what went down in both parties’ nominating seasons: It’s what led to Donald Trump, and also why Hillary Clinton beat back Bernie Sanders. And like it or not, horizontal inequality, racial inequality above all, will define the general election.
You can argue that it shouldn’t be that way. One way to think about the Sanders campaign is that it was based on the premise that if only progressives were to make a clear enough case about the evils of inequality among individuals, they could win over the whole working class, regardless of race. In one interview Mr. Sanders declared that if the media was doing its job, Republicans would be a fringe party receiving only 5 or 10 percent of the vote.
But that’s a pipe dream. Defining oneself at least in part by membership in a group is part of human nature. Even if you try to step away from such definitions, other people won’t. A rueful old line from my own heritage says that if you should happen to forget that you’re Jewish, someone will remind you: a truth reconfirmed by the upsurge in vocal anti-Semitism unleashed by the Trump phenomenon.
So group identity is an unavoidable part of politics, especially in America with its history of slavery and its ethnic diversity. Racial and ethnic minorities know that very well, which is one reason they overwhelmingly supported Hillary Clinton, who gets it, over Mr. Sanders, with his exclusive focus on individual inequality. And politicians know it too.
Indeed, the road to Trumpism began with ideological conservatives cynically exploiting America’s racial divisions. The modern Republican Party’s central policy agenda of cutting taxes on the rich while slashing benefits has never been very popular, even among its own voters. It won elections nonetheless by getting working-class whites to think of themselves as a group under siege, and to see government programs as giveaways to Those People.
Or to put it another way, the G.O.P. was able to serve the interests of the 1 percent by posing as the defender of the 80 percent — for that was the white share of the electorate when Ronald Reagan was elected.
But demographic change — rapid growth in the Hispanic and Asian population — has brought the non-Hispanic white share of the electoratedown to 62 percent and falling. Republicans need to broaden their base; but the base wants candidates who will defend the old racial order. Hence Trumpism.
And race-based political mobilization cuts both ways. Black and Hispanic support for Democrats makes obvious sense, given the fact that these are relatively low-income groups that benefit disproportionately from progressive policies. They have, for example, seen very sharp reductions in the number of uninsured since Obamacare went into effect. But the overwhelming nature of that support reflects group identity.
Furthermore, some groups with relatively high income, like Jews and, increasingly,Asian-Americans, also vote strongly Democratic. Why? The answer in both cases, surely, is the suspicion that the same racial animus that drives many people to vote Republican could, all too easily, turn against other groups with a long history of persecution. And as I’ve already mentioned, we are indeed seeing a lot of right-wing anti-Semitism breaking out into the open. Does anyone doubt that a reservoir of anti-Asian prejudice is similarly lurking just under the surface?
So now comes the general election. I wish I could say that it will be a battle of ideas. But it mostly won’t, and not just because Mr. Trump doesn’t have any coherent policy ideas.
No, this is going to be mostly an election about identity. The Republican nominee represents little more than the rage of white men over a changing nation. And he’ll be facing a woman — yes, gender is another important dimension in this story — who owes her nomination to the very groups his base hates and fears.
The odds are that Mrs. Clinton will prevail, because the country has already moved a long way in her direction. But one thing is for sure: It’s going to be ugly.
Hillary e il fattore ‘orizzontale’, di Paul Krugman
New York Times 10 giugno 2016
Ho trascorso gran parte di questa politicamente importantissima settimana in un seminario sull’ineguaglianza, dove sono stati presentati ricerche su tutto, dalle cause della disparità nei salari agli effetti dell’ineguaglianza sulla felicità. Come spesso accade nelle conferenze, tuttavia, quello che mi ha fatto davvero riflettere è stata una domanda durante una pausa per il caffè: “Perché non parli di più dell’ineguaglianza orizzontale?”.
Cosa significa? L’ineguaglianza orizzontale è il termine specialistico per l’ineguaglianza misurata non in relazione agli individui, ma a specifici gruppi razziali o culturali (naturalmente, la razza stessa è principalmente un concetto culturale più che una condizione di natura – gli americani di estrazione italiana o persino irlandese non sono sempre stati considerati bianchi). E quello che mi ha colpito è che un ragionamento ‘orizzontale’ è quello di cui si ha bisogno per capire cosa è successo durante le primarie di entrambi i partiti: è lì quello che ha portato a Donald Trump, ed anche la ragione per la quale Hillary Clinton ha respinto Bernie Sanders. Che piaccia o no, l’ineguaglianza orizzontale, l’ineguaglianza razziale soprattutto, deciderà delle elezioni generali.
Si può sostenere che non dovrebbe essere così. Un modo per riflettere sulla campagna elettorale di Sanders è che essa era basata sulla premessa che se soltanto i progressisti avessero avanzato a sufficienza l’argomento dei mali dell’ineguaglianza tra gli individui, avrebbero conquistato l’intera classe operaia, a prescindere dalla razza. In una intervista, Sanders aveva dichiarato che se i media avessero fatto il loro lavoro, i repubblicani sarebbero stati un partito marginale, con il 5 o 10 per cento soltanto dei voti.
Ma questa è una illusione. È un aspetto della natura umana caratterizzarsi almeno in parte per la partecipazione ad un gruppo. Anche se voi cercate di prendere le distanze da definizioni del genere, le altre persone non vi seguiranno. Un triste antico detto della mia tradizione culturale dice che se vi dovesse accadere di dimenticare di essere ebrei, qualcuno ve lo ricorderà: una verità riconfermata dalla ripresa di un dichiarato antisemitismo, messo in libertà dal fenomeno Trump.
Dunque, l’identità di gruppo è un fenomeno inevitabile della politica, particolarmente in America con la sua storia di schiavitù e le sue diversità etniche. Le minoranze etniche e razziali lo sanno molto bene, e il fatto che Hillary Clinton lo comprenda, diversamente da Sanders, con l’esclusivo concentrarsi di quest’ultimo sull’ineguaglianza degli individui, è una ragione per la quale ella ha ricevuto il loro massiccio sostegno. Ed anche i politici lo sanno.
Infatti, la strada verso il trumpismo cominciò con il cinico sfruttamento ideologico da parte dei conservatori delle divisioni razziali in America. Il programma politico centrale dell’attuale partito repubblicano, il tagliare le tasse sui ricchi e assieme abbattere i sussidi sociali, non è mai stato molto popolare, neppure tra i suoi stessi elettori. Ciononostante, hanno ottenuto successi elettorali facendo in modo che i lavoratori bianchi si ritenessero un gruppo sotto assedio, e considerassero i programmi pubblici come regali a ‘Quella Gente’ [1].
Oppure, per dirla diversamente, il Partito Repubblicano è stato capace di servire gli interessi dell’1 per cento dei più ricchi atteggiandosi a difensore dell’80 per cento della popolazione – giacché era quella la quota di elettorato costituita da bianchi, quando Ronald Reagan venne eletto.
Ma il cambiamento demografico – la rapida crescita della popolazione ispanica ed asiatica – hanno portato la quota dei bianchi non ispanici dell’elettorato al 62 per cento, per giunta in calo. I repubblicani hanno bisogno di ampliare le loro base; ma la base vuole candidati che difendano il vecchio ordine razziale. Da qua il trumpismo.
La mobilitazione politica basata sulla razza taglia entrambe le strade. Il sostegno dei neri e degli ispanici ai democratici ha un significato evidente, se si considera il fatto che questi sono gruppi relativamente a basso reddito, che beneficiano in modo più che proporzionale delle politiche progressiste. Ad esempio, hanno conosciuto riduzioni molto nette nel numero dei non assicurati, dal momento in cui la riforma sanitaria di Obama è entrata in funzione. Ma la dimensione schiacciante di quel sostegno riflette una identità di gruppo.
Inoltre, anche gruppi sociali con redditi relativamente elevati, come gli ebrei e, sempre di più, gli americani di origine asiatica, votano in forte misura per i democratici. Perché? In entrambi i casi, la risposta sta certamente nel sospetto che il medesimo pregiudizio razziale che induce molti americani a votare repubblicano potrebbe, anche troppo facilmente, rivolgersi contro altri gruppi che hanno una lunga storia di discriminazione. E, come ho già ricordato, stiamo infatti constatando molto antisemitismo di destra che sta venendo allo scoperto. Si può dubitare che un serbatoio di pregiudizio anti asiatico sia in modi simili in agguato, sotto la superficie?
Dunque, adesso verranno le elezioni generali. Vorrei poter dire che sarà una battaglia di idee. Ma in gran parte non sarà così, e non soltanto perché il signor Trump non ha alcuna coerente idea politica.
No, questa è destinata ad essere fondamentalmente una elezione basata sull’identità. Il candidato repubblicano rappresenta poco di più che la rabbia degli uomini bianchi in una nazione che sta cambiando. Ed egli affronterà una donna – sì, il genere è un’altra importante dimensione di questo racconto – che deve la sua nomina proprio ai gruppi sociali che la sua base odia e teme.
È probabile che la signora Clinton prevarrà, perché il paese si è già indirizzato da lungo tempo nella sua stessa direzione. Ma una cosa è certa: sarà un passaggio sgradevole.
[1] Ovvero, nel linguaggio della destra americana, alle minoranze etniche ed alla gente di colore.
By mm
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