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Il disastro democratico del Regno Unito, di Kenneth Rogoff (da Project Syndicate, 24 giugno 2016)

 

JUN 24, 2016

Britain’s Democratic Failure

KENNETH ROGOFF

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CAMBRIDGE – The real lunacy of the United Kingdom’s vote to leave the European Union was not that British leaders dared to ask their populace to weigh the benefits of membership against the immigration pressures it presents. Rather, it was the absurdly low bar for exit, requiring only a simple majority. Given voter turnout of 70%, this meant that the leave campaign won with only 36% of eligible voters backing it.

This isn’t democracy; it is Russian roulette for republics. A decision of enormous consequence – far greater even than amending a country’s constitution (of course, the United Kingdom lacks a written one) – has been made without any appropriate checks and balances.

Does the vote have to be repeated after a year to be sure? No. Does a majority in Parliament have to support Brexit? Apparently not. Did the UK’s population really know what they were voting on? Absolutely not. Indeed, no one has any idea of the consequences, both for the UK in the global trading system, or the effect on domestic political stability. I am afraid it is not going to be a pretty picture.

Mind you, citizens of the West are blessed to live in a time of peace: changing circumstances and priorities can be addressed through democratic processes instead of foreign and civil wars. But what, exactly, is a fair, democratic process for making irreversible, nation-defining decisions? Is it really enough to get 52% to vote for breakup on a rainy day?

In terms of durability and conviction of preferences, most societies place greater hurdles in the way of a couple seeking a divorce than Prime Minister David Cameron’s government did on the decision to leave the EU. Brexiteers did not invent this game; there is ample precedent, including Scotland in 2014 and Quebec in 1995. But, until now, the gun’s cylinder never stopped on the bullet. Now that it has, it is time to rethink the rules of the game.

The idea that somehow any decision reached anytime by majority rule is necessarily “democratic” is a perversion of the term. Modern democracies have evolved systems of checks and balances to protect the interests of minorities and to avoid making uninformed decisions with catastrophic consequences. The greater and more lasting the decision, the higher the hurdles.

That’s why enacting, say, a constitutional amendment generally requires clearing far higher hurdles than passing a spending bill. Yet the current international standard for breaking up a country is arguably less demanding than a vote for lowering the drinking age.

With Europe now facing the risk of a slew of further breakup votes, an urgent question is whether there is a better way to make these decisions. I polled several leading political scientists to see whether there is any academic consensus; unfortunately, the short answer is no.

For one thing, the Brexit decision may have looked simple on the ballot, but in truth no one knows what comes next after a leave vote. What we do know is that, in practice, most countries require a “supermajority” for nation-defining decisions, not a mere 51%. There is no universal figure like 60%, but the general principle is that, at a bare minimum, the majority ought to be demonstrably stable. A country should not be making fundamental, irreversible changes based on a razor-thin minority that might prevail only during a brief window of emotion. Even if the UK economy does not fall into outright recession after this vote (the pound’s decline might cushion the initial blow), there is every chance that the resulting economic and political disorder will give some who voted to leave “buyers’ remorse.”

Since ancient times, philosophers have tried to devise systems to try to balance the strengths of majority rule against the need to ensure that informed parties get a larger say in critical decisions, not to mention that minority voices are heard. In the Spartan assemblies of ancient Greece, votes were cast by acclamation. People could modulate their voice to reflect the intensity of their preferences, with a presiding officer carefully listening and then declaring the outcome. It was imperfect, but maybe better than what just happened in the UK.

By some accounts, Sparta’s sister state, Athens, had implemented the purest historical example of democracy. All classes were given equal votes (albeit only males). Ultimately, though, after some catastrophic war decisions, Athenians saw a need to give more power to independent bodies.

What should the UK have done if the question of EU membership had to be asked (which by the way, it didn’t)? Surely, the hurdle should have been a lot higher; for example, Brexit should have required, say, two popular votes spaced out over at least two years, followed by a 60% vote in the House of Commons. If Brexit still prevailed, at least we could know it was not just a one-time snapshot of a fragment of the population.

The UK vote has thrown Europe into turmoil. A lot will depend on how the world reacts and how the UK government manages to reconstitute itself. It is important to take stock not just of the outcome, though, but of the process. Any action to redefine a long-standing arrangement on a country’s borders ought to require a lot more than a simple majority in a one-time vote. The current international norm of simple majority rule is, as we have just seen, a formula for chaos.

 

Il disastro democratico del Regno Unito,

di Kenneth Rogoff

CAMBRIDGE – La vera follia del voto del Regno Unito per l’abbandono dell’Unione Europea non è stata che i dirigenti britannici abbiano rischiato di chiedere alla popolazione di valutare i benefici della partecipazione, di contro alle spinte migratorie che essa comporta. Piuttosto è stato l’assurdamente basso livello di voti richiesto per l’uscita, soltanto una maggioranza semplice. Data una partecipazione degli elettori del 70%, questo ha comportato che la campagna per l’uscita ha vinto soltanto con un 36% dei voti degli aventi diritto.

Questa non è democrazia: è una roulette russa a disposizione delle repubbliche. Una decisione di enormi conseguenze – di gran lunga più importante persino delle modifiche alla Costituzione di un paese (come si sa, il Regno Unito non ne ha una scritta) – è stata presa senza alcuni appropriati pesi e contrappesi.

Per esser certi, il voto dovrà essere ripetuto dopo un anno? No. Dovrà essere sostenuto da una maggioranza in Parlamento? In apparenza, no. La popolazione del Regno Unito doveva effettivamente conoscere su cosa stava votando? Assolutamente no. In effetti, nessuno ha un’idea delle conseguenze, sia per il Regno Unito nel sistema commerciale globale, sia per gli effetti sulla stabilità politica interna. Temo che non sia destinato ad essere un quadro rassicurante.

Tenete a mente, i cittadini dell’Occidente hanno la fortuna di vivere in un periodo di pace: il mutamento delle circostanze e le priorità possono essere affrontati attraverso processi democratici, anziché attraverso guerre con l’esterno o civili. Ma cosa è esattamente un giusto processo democratico per rendere irreversibili decisioni che caratterizzano una nazione? È davvero sufficiente ottenere il 52% dei voti per votare, in un giorno di pioggia, a favore di una dissoluzione?

In termini di durabilità e di sicurezza delle preferenze, la maggioranza delle società definiscono ostacoli più grandi nelle modalità di divorzio per una coppia, di quelli che il Primo Ministro David Cameron aveva posto a proposito della decisione di lasciare l’UE. Questo gioco non era stato escogitato dai favorevoli all’uscita; c’erano numerosi precedenti, inclusi la Scozia nel 2014 e il Québec nel 1995. Ma sinora il cilindro della pistola non si era mai fermato sulla pallottola. Adesso che è accaduto, è il momento di ripensare alle regole del gioco.

L’idea che in qualche modo qualsiasi decisione assunta in qualche momento sulla base di una regola maggioritaria sia necessariamente “democratica” è una perversione del termine. Le democrazie moderne hanno sistemi evoluti di pesi e contrappesi per proteggere gli interessi delle minoranze e per evitare di prendere decisioni inconsapevoli con conseguenze catastrofiche. Più importanti e più durature sono le decisioni, più alti sono gli ostacoli.

Con l’Europa che adesso fronteggia il rischio di un buon numero di ulteriori votazioni di separazione, diventa urgente la domanda se ci siano modi migliori di prendere decisioni del genere. Ho girato la domanda a vari eminenti scienziati della politica per vedere se ci fosse un consenso negli ambienti accademici; sfortunatamente, la risposta in breve è che non c’è.

Per un aspetto, la decisione della Brexit può essere apparsa semplice nella votazione, ma la verità è che nessuno sa cosa verrà dopo un voto per uscire. Quello che sappiamo è che, in pratica, gran parte dei paesi richiedono una “super maggioranza” per le decisioni fondamentali di una nazione, non un semplice 51 per cento. Non c’è un dato universale come il 60 per cento, ma il principio generale è che, come minimo, la maggioranza dovrebbe essere dimostrabilmente stabile. Un paese non dovrebbe operare cambiamenti di fondo e irreversibili basati su maggioranze sul filo del rasoio [1] che potrebbero prevalere soltanto durante lo stato d’animo di un breve periodo. Persino se dopo questo voto l’economia del Regno Unito non cadrà in una completa recessione (il declino della sterlina dovrebbe attutire il colpo iniziale), ci sono tutte le possibilità perché il conseguente disordine economico e politico provochino, in alcuni che hanno votato per l’abbandono, il cosiddetto “pentimento del compratore”.

Sin dai tempi antichi, i filosofi hanno cercato di individuare sistemi per cercare di bilanciare i punti di forza della regola maggioritaria a fronte della necessità di assicurare che i partiti consapevoli abbiano una maggiore voce in capitolo sulle decisioni fondamentali, per non dire che le voci delle minoranze siano percepibili. Nelle assemblee spartane dell’antica Grecia, i voti venivano espressi per acclamazione. Le persone potevano modulare il tono della loro voce per riflettere l’intensità delle loro preferenze, con il funzionario che presiedeva che ascoltava attentamente e poi dichiarava il risultato. Non era un sistema perfetto, ma era forse migliore di quello che è successo nel Regno Unito.

Da alcuni punti di vista, lo Stato gemello [2] di Sparta, Atene, aveva realizzato l’esempio più puro di democrazia. Ad ogni classe venivano dati uguali voti (sebbene soltanto ai maschi). Tuttavia, da ultimo, dopo alcune catastrofiche decisioni di guerra, gli ateniesi ravvisarono la necessità di dare maggiore potere ad organi indipendenti.

Cosa avrebbe dovuto fare il Regno Unito se fosse stato posto il quesito della partecipazione all’Unione Europea (la qualcosa, per inciso, non avvenne [3])? Certamente, l’ostacolo avrebbe dovuto essere un bel po’ più elevato; ad esempio, la Brexit avrebbe dovuto richiedere due votazioni popolari separate da almeno due anni, seguite da una votazione di almeno il 60 per cento nella Camera dei Comuni. Se la Brexit avesse ancora prevalso, almeno di poteva capire che non si era trattato soltanto di una immagine istantanea di un frammento della popolazione.

Il voto del Regno Unito ha gettato l’Europa nel caos. Molto ora dipende da come il mondo reagirà e da come il Governo del Regno Unito opererà per riorganizzarsi. Tuttavia, è importante fare un bilancio non solo del risultato, ma anche del procedimento. Ogni iniziativa per ridefinire gli assetti di lungo periodo sui confini di un paese dovrebbe richiedere molto di più di una maggioranza semplice in una unica votazione. L’attuale norma internazionale basata sulla regola della maggioranza semplice, come ci siamo accorti, è una formula per il caos.

 

 

 

[1] Il testo dice “su minoranze”, forse intendendo che nel caso inglese si è trattato in effetti di una minoranza degli elettori.

[2] Il termine “sister state” è una variante del termine “sister cities”, che si usa appunto nel caso delle ‘città gemellate’.

[3] Suppongo che intenda dire “se l’adesione alla UE fosse stata – a suo tempo – oggetto di una consultazione popolare”. Giacché in quel caso – in presenza di un precedente referendum di adesione – non sarebbe stato sufficiente, evidentemente, contraddirlo con un referendum successivo; sarebbe stata evidente la necessità di una procedura più impegnativa di cambiamento di un pronunciamento popolare già effettuato.

 

 

 

 

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