JULY 3, 2016 4:12
Given Trump’s economic policy speech – well, “policy” speech – it seems time to brush up on trade and jobs, an issue I used to write a lot about. The big story in the academia/policy space lately has been the work of Autor et al, who in two papers have estimated large losses from Chinese import penetration. I basically agree with this conclusion, at least when we’re talking about manufacturing employment. But I’m troubled by some conceptual issues, which I think are important for interpreting the results.
Maybe the best way to explain all of this is to start by talking about how I would do this – in fact, the way I’ve been doing it on the backs of various envelopes over the years. I would begin by posing a counterfactual: what would U.S. employment look like if we had pursued policies such as Trump tariffs that prevented the large trade deficits in manufacturing we actually have?
I’d start by arguing that a balanced expansion of imports and imports would have, to a first approximation, no effect on manufacturing value added, and an effect on employment only to the extent that import-competing industry is more labor-intensive than exports. Leave that on one side. Then what matters is the manufacturing trade deficit, which according to the WTO was approximately $600 billion in 2014.
How much manufacturing did that deficit displace? It doesn’t all come out of manufacturing value added, because a fair bit of a dollar spent on manufactured goods eventually shows up in purchases of non-manufactured imports. I need to do this more carefully (on deadline right now), but a rough number would be 60 percent for manufactured content; so we’re talking about $360 billion.
Then, employment: value added per worker in manufacturing is approximately $175,000. So this should translate into a bit over 2 million jobs.
OK, what about the effect on overall employment? In general, you can’t answer that with a similar computation, because it all depends on offsetting policies. If monetary and fiscal policy are used to achieve a target level of employment – as they generally were prior to the 2008 crisis – then a first cut at the impact on overall employment is zero. That is, trade deficits meant 2 million fewer manufacturing jobs and 2 million more in the service sector.
Since 2008, of course, we’ve been in a liquidity trap, with the Fed either unable or unwilling to hit its targets and fiscal policy paralyzed by ideology, so trade deficits are in practice a major drag on overall employment. But this is a bit different from the usual “trade costs jobs” argument.
So, how big a deal is displacement of 2 million manufacturing jobs? Not trivial, to say the least. But if you want to place it in the context of deindustrialization: we’re talking about 1.5 percent of the work force. So absent the trade deficit – that is, again, imagining some policy that prevents deficits from emerging – we would have roughly 11.5 percent of the work force in manufacturing, rather than the actual 10. Compare this with the realities of the past: more than 20 percent in manufacturing in the late 1970s, more than 25 percent in the 1960s.
OK, now for Autor and various co-authors, who do something very different: a bottom-up approach. They start with an empirical analysis, using cross-section data, of the impact of the China shock on employment, wages, and so on at the regional level – which is perfectly fine, and in fact beautiful work.
But what they do next is to apply the implied coefficient from this analysis to the aggregate effects of the China shock. And that’s much more dubious – especially when, in the second paper, they purport to estimate the effects on overall employment. In general, you can’t do that: applying estimates of partial regional effects to the overall aggregate exposes you to huge possible fallacies of composition.
And in this case the crucial issue is monetary and fiscal response. Up through 2007 we basically had a Fed which raised rates whenever it thought the economy was overheating; in the absence of the China shock it would have raised rates sooner and faster, so you just can’t use the results of the cross-section regression – which doesn’t reflect monetary policy, which was the same for everyone – to predict how things would have turned out.
Now, it so happens that my alternative procedure yields results for manufacturing alone that aren’t too much out of line with those papers. But this should be seen as jobs shifted out of manufacturing to other sectors, not total job loss, at least pre-crisis.
Commercio e posti di lavoro: una nota
Visto il discorso di politica economica di Trump – o meglio il discorso di “politica” tra virgolette – sembra il momento di dare una ripassata al tema del commercio e dei posti di lavoro, sul quale argomento un tempo scrivevo molto. Negli ambienti accademici e della politica il grande fatto recente è stato il lavoro di Autor ed altri [1], che in due saggi hanno stimato ampie perdite per effetto della penetrazione delle importazioni dalla Cina. Fondamentalmente concordo con questa conclusione, almeno se si sta parlando di occupazione manifatturiera. Sono però dubbioso su qualche tematica concettuale, che penso sia importante per interpretare i risultati.
Forse il modo migliore per spiegare tutto questo è partire col parlare di come io avrei fatto questa analisi – che in sostanza è il modo in cui lo sono venuto facendo nel corso degli anni con i miei calcoli improvvisati. Io avrei cominciato col chiedermi cosa sarebbe accaduto se la storia fosse andata diversamente: cosa sarebbe l’occupazione negli Stati Uniti se avessimo perseguito politiche come le tariffe di Trump, che avessero impedito gli ampi defici commerciali nel manifatturiero che abbiamo attualmente?
Io sarei partito sostenendo che una equilibrata espansione delle esportazioni e delle importazioni [2] non avrebbe avuto, ad una prima approssimazione, alcun effetto sul valore aggiunto del manifatturiero, ed un effetto sull’occupazione soltanto nella misura in cui l’industria che compete sulle importazioni ha maggiore intensità di lavoro di quella delle esportazioni. Lasciamo questo aspetto da una parte. Poi, quello che conta è il deficit commerciale del manifatturiero, che secondo il WTO è stato approssimativamente di 600 miliardi di dollari nel 2014. Quanti posti di lavoro il settore manifatturiero ha messo in mobilità di quel deficit? Esso non viene tutto dal valore aggiunto del settore manifatturiero, perché un bel po’ di ogni dollaro speso su beni manifatturieri si manifesta in acquisti di importazioni non manifatturiere. Devo fare questo calcolo in modo più scrupoloso (che adesso sto terminando), ma un numero approssimativo sarebbe il 60 per cento del contenuto manifatturiero; dunque stiamo parlando di circa 360 miliardi di dollari.
Poi, l’occupazione: il valore aggiunto per lavoratore nel settore manifatturiero è approssimativamente di 175.000 dollari. Dunque, questo si dovrebbe tradurre in un dato un po’ superiore a 2 milioni di posti di lavoro. Se è così, che dire dell’effetto sull’occupazione complessiva? In generale, non si può rispondere altrimenti che con un calcolo simile, perché tutto dipende da un bilanciamento delle politiche. Se la politica monetaria e della finanza pubblica sono usate per ottenere un certo livello di occupazione – come in generale era prima della crisi del 2008 – allora una prima osservazione sull’impatto sull’occupazione complessiva è pari a zero. Ovvero, i deficit commerciali comportano due milioni di posti di lavoro manifatturieri in meno e due milioni di posti di lavoro in più nei servizi.
A partire dal 2008, ovviamente, siamo stati in una trappola di liquidità, con la Fed sia impossibilitata che non desiderosa di raggiungere i suoi obbiettivi e la politica della finanza pubblica paralizzata dall’ideologia, cosicchè i deficit commerciali hanno costituito una detrazione importante sull’occupazione complessiva. Ma questo è un po’ diverso dal consueto argomento dei “costi in posti di lavoro derivati dal commercio”. Dunque, quanto è stata grande la messa in mobilità di due milioni di posti di lavoro dal settore manifatturiero? Per dire il minimo, non è stata banale. Ma se volete collocare quel dato nel contesto della deindustralizzazione: stiamo parlando di circa l’1,5 per cento della forza lavoro. Dunque, in assenza di deficit commerciale – vale a dire, di nuovo, immaginando una qualche politica che inpedisca che i deficit emergano – avremmo avuto grosso modo l’11,5 per cento della forza lavoro nel settore manifatturiero, piuttosto dell’attuale 10 per cento. Confrontiamo questo con le realtà del passato: più del 20 per cento nel manifatturiero sulla fine degli anni ’70, più del 25 per cento negli anni ’60.
Veniamo adesso ad Autor e ai vari coautori, che seguono un procedimento assai diverso: un approccio dal basso in alto. Essi partono da una analisi empirica, utilizzando dati da vari spaccati, sull’impatto dello shock cinese sull’occupazione, i salari e tutto il resto ai livelli regionali – il che va benissimo, e di fatto funziona nel migliore dei modi. Ma quello che fanno successivamente è applicare in coefficiente implicito in questa analisi sugli effetti aggregati dello shock cinese. E ciò è molto più dubbio – in particolare quando, nel secondo studio, essi si propongono di stimare gli effetti sull’occupazione complessiva. In generale, è una cosa che non si può fare: applicare le stime di effetti regionali parziali all’aggregato complessivo espone a grandi errori possibili di composizione.
E in questo caso la questione cruciale è la risposta monetaria e della politica della finanza pubblica. Sino al 2007, fondamentalmente, abbiamo avuto la Fed che ha innalzato i tassi qualsiasi cosa pensasse del surriscaldamento dell’economia; in assenza dello shock cinese essa avrebbe innalzato i tassi più presto e più velocemente, dunque non si possono usare i risultati di una regressione trasversale – che non riflette la politica monetaria, che era la stessa per tutti – per stabilire come le cose sarebbero risultate. Ora, si dà il caso che la mia procedure alternativa produca risultati per il solo settore manifatturiero che non sono troppo dissimili da quelli di questi studi. Ma questo dovrebbe essere considerato come uno spostamento di posti di lavoro dal settore manifatturiero ad altri settori, non come una perdita totale di posti di lavoro, almeno prima della crisi.
[1] Uno studio, pubblicato il 18 dicembre del 2015, a cura di Daron Acemoglu, del Massachusetts Institute of Technology e del National Bureau of Economic Research; di David Autor, Massachusetts dell’Institute of Technology e del National Bureau of Economic Research; di David Dorn, della Università of Zurich and del Centre for Economic Policy Research; Gordon H. Hanson, della Università della California, San Diego, e del National Bureau of Economic Research; di Brendan Price, del Massachusetts Institute of Technology
[2] Correggo quello che mi pare un errore nel testo inglese, che ripete due volte “importazioni”.
By mm
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