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Il colpo della Brexit alla globalizzazione, di Carmen Reinhart (da Project Syndicate, 29 giugno 2016)

JUN 29, 2016

Brexit’s Blow To Globalization

BY CARMEN REINHART

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CAMBRIDGE – The United Kingdom’s Brexit referendum has shaken equity and financial markets around the world. As in prior episodes of contagious financial turmoil, the victory of the “Leave” vote sent skittish global investors toward the usual safe havens. US Treasury bonds rose, and the dollar, Swiss franc, and yen appreciated, most markedly against sterling.

When it became clear that the “Remain” camp had lost, the pound’s slide seemed to be on track to match the historic 14% depreciation of the 1967 sterling crisis. But the rollercoaster outcomes that we’re now seeing in global capital markets are not unique to the Brexit episode.

What is unique, and particularly far-reaching, is the precedent Brexit sets for other countries (or regions) to “exit” from their respective political and economic arrangements – whether it is Scotland and Northern Ireland in the UK, or Catalonia in Spain. The borders of existing nation-states could be redrawn, or fenced off entirely if disgruntled member states submit to internal nationalist impulses and give up on the multi-decade experiment in European unification. (And, as Donald Trump’s presidential campaign in the United States shows, this impulse extends beyond Europe.)

With its systemic negative effects on finance, trade, and labor mobility, Brexit marks a major setback for globalization. The fallout from Brexit probably won’t spread as quickly as in outright financial crises, such as the 2008 financial meltdown or the 1997 and 1998 Asian episodes. But the aftereffects also won’t subside anytime soon.

The UK’s trade, finance, and immigration arrangements are far too complex and entrenched to be renegotiated quickly. In the meantime, many cross-border transactions in goods, services, and financial assets are likely to be placed on hold. Even if there are no other “exit” moments elsewhere in Europe, a protracted period of uncertainty in global capital markets seems likely.

It’s worth recalling that globalization did not begin with the current generation. The latter part of the nineteenth century, despite its technological limitations, was an era of rising global trade. Major waves of immigration radically diversified the demographic makeup of the US and other parts of North and South America. London was host to a rapidly growing global financial industry, as it had been since the time Britain emerged victorious from the Napoleonic Wars.

World War I ended this earlier wave of globalization; and, even with the return to peace, the world never really recovered. The economic depression of the 1920s in Britain, and of the 1930s in the rest of the world, ushered in a global wave of protectionist, inward-looking policies and beggar-thy-neighbor competitive devaluations. The last nail had been hammered into the coffin of globalization even before the outbreak of World War II. While not the original or singular cause of the worldwide slump, there is widespread agreement among economists and historians that policymakers at the time made a bad situation significantly worse.

After WWII, global integration finally began anew, first in trade and then, since the 1980s, in finance. During this time, London’s financial center awoke from its long slumber and helped the UK become one of the pillars of a new, deeply integrated international political economy. Prior to the 2008-2009 global financial crisis, most indicators of global trade and finance had reached new peaks, and European unification contributed significantly this. But, with the onset of the crisis, cross-border finance in Europe shrank as highly leveraged eurozone economies began to lose access to international capital markets, and concerns about private and public insolvency took center stage.

The financial crisis resulted in the steepest synchronous drop in world trade since the Great Depression of the 1930s. And global trade still has not recovered its earlier trajectory: since 2008, export volumes have risen at only about half the average annual rate of the pre-crisis period (3.1%, see figure below). Europe itself has experienced an even sharper slowdown.

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The global financial crisis dealt a significant blow to globalization, especially in terms of trade and finance. Now Brexit has dealt another blow, adding labor mobility to the list.

Financial markets do not handle uncertainty well. With the world already facing anemic growth and low levels of investment, any adequate damage-control plan must include prompt resolution of the new rules of the game for Britain and its relationship with the EU. Any delay will cause further frustration and increase the odds of retaliatory policies from EU members. The last thing anyone needs is a tit-for-tat process of political divorce that only serves to deepen the global economy’s already-widening fault lines.

 

Il colpo della Brexit alla globalizzazione,

di Carmen Reinhart

CAMBRIDGE – Il referendum sulla Brexit nel Regno Unito ha scosso i mercati azionari e finanziari in tutto il mondo. Come in precedenti episodi di contagioso tumulto finanziario, la vittoria del voto del Leave ha fatto diventare iperattivi gli investitori globali nella direzione dei consueti rifugi. I bond del Tesoro degli Stati Uniti sono saliti e il dollaro, il franco svizzero e lo yen si sono apprezzati, in modo particolarmente pronunciato nei confronti della sterlina.
Quando è diventato chiaro che lo schieramento del Remain aveva perso, lo scivolamento della sterlina è sembrato essere prossimo ad eguagliare la svalutazione del 14% della crisi di quella valuta del 1967. Ma gli effetti da montagne russe cui stiamo adesso assistendo non sono una caratteristica del solo episodio della Brexit.

Quello che è unico, e soprattutto di vasta portata, è che il precedente della Brexit prepara altri paesi (o regioni) ad ‘uscite’ dai loro rispettivi assetti politici ed economici – che si tratti della Scozia e dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito, o della Catalogna in Spagna. I confini degli Stati nazionali esistenti potrebbero essere ridisegnati, oppure interamente recintati se Stati membri scontenti sottostanno agli impulsi nazionalistici interni e desistono dall’esperimento multi decennale di unificazione europea (e, come mostra la campagna presidenziale di Donald Trump negli Stati Uniti, questi impulsi si estendono oltre l’Europa). Con i suoi effetti di sistema negativi sulla finanza, sul commercio e sulla mobilità del lavoro, la Brexit segna una importante battuta di arresto nella globalizzazione. La ricaduta della Brexit probabilmente non si diffonderà così rapidamente come nelle autentiche crisi finanziarie, quali il collasso finanziario del 2008 e gli episodi asiatici del 1997 e 1998. Ma anche gli effetti postumi non diminuiranno in breve tempo.

Gli assetti finanziari, commerciali e migratori sono troppo complessi e profondi per essere rinegoziati rapidamente. Nel frattempo, è probabile che molte transazioni transnazionali in beni, servizi ed asset siano messe in sospeso. Persino se non ci saranno altri episodi di uscita nell’Unione Europea, sembra probabile un prolungato periodo di incertezza nei mercati globali dei capitali.

È il caso di ricordare che la globalizzazione non ebbe inizio con la generazione attuale. L’ultima parte del diciannovesimo secolo, nonostante i suoi limiti tecnologici, fu un’epoca di crescente commercio globale. Importanti ondate migratorie diversificarono la composizione demografica degli Stati Uniti e di altre parti dell’America del Sud e del Nord. Londra ospitò una attività finanziaria globale in rapida crescita, per quanto essa era esistita sin dal momento in cui l’Inghilterra uscì vittoriosa dalle guerre napoleoniche.

La Prima Guerra mondiale pose un termine a questa precedente ondata di globalizzazione e, persino con il ritorno alla pace, il mondo non si è mai pienamente ripreso. La depressione economica degli anni ’20 in Inghilterra, e degli anni ’30 nel resto del mondo, inaugurò un’ondata globale di politiche protezionistiche ed autoreferenziali, e di svalutazioni competitive mirate a scaricare le difficoltà economiche sulle nazioni vicine. L’ultimo chiodo venne conficcato sulla bara della globalizzazione persino prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Per quanto non fosse l’unica causa originaria della crisi mondiale, c’è un ampio accordo tra gli economisti e gli storici sul fatto che la autorità di quel tempo crearono una situazione negativa significativamente peggiore. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’integrazione finanziaria finalmente riprese, anzitutto nel commercio e poi, a partire dagli anni ’80, nella finanza. Durante questo periodo, il centro finanziario di Londra si svegliò dal suo lungo torpore e contribuì a far diventare il Regno Unito uno dei pilastri della nuova, profondamente integrata, politica economica internazionale. Prima della crisi finanziaria globale del 2008-2009, gran parte degli indicatori del commercio e della finanza globale avevano raggiunto nuove vette, con un contributo significativo della integrazione europea. Ma con l’avvio della crisi, la finanza transnazionale in Europa si contrasse nel mentre le economie con un alto rapporto di indebitamento dell’eurozona perdevano l’accesso al mercato internazionale dei capitali, e le preoccupazioni sulla insolvenza privata e pubblica si collocavano al centro della scena. La crisi finanziaria si risolse nella più ripida simultanea caduta del commercio mondiale a partire dalla Grande Depressione degli anni ’30.  E il commercio mondiale non si è ancora ripreso dalla sua iniziale traiettoria: a partire dal 2008, i volumi dell’export sono cresciuti soltanto di circa la metà del tasso medio annuale del periodo precedente alla crisi (del 3,1%, vedi la tabella [1]). Per suo conto, l’Europa ha conosciuto un rallentamento persino più brusco.

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La crisi finanziaria globale ha comportato un colpo significativo alla globalizzazione, in particolare in rapporto al commercio ed alla finanza. Adesso la Brexit ha comportato un altro colpo, aggiungendo alla lista la mobilità del lavoro.

I mercati finanziari non sopportano bene l’incertezza. Con il mondo che già si misura con una crescita anemica e con bassi livelli di investimenti, qualsiasi programma di controllo dei danni significativo non può non includere una pronta ridefinizione delle nuove regole del gioco per il Regno Unito e le sue relazioni con l’UE. Ogni ritardo provocherà nuova frustrazione e aumenterà le probabilità di politiche di rappresaglia da parte dei membri dell’UE. L’ultima cosa di cui tutti hanno bisogno è un percorso del divorzio politico nello stile del restituire colpo su colpo, che servirebbe soltanto ad approfondire le linee di frattura dell’economia globale che già si stanno allargando.

 

 

 

[1] Nella Tabella, la linea rossa a trattini indica il valore medio dell’incremento dei volumi dei beni e servizi esportati. Come si vede – con un po’ di zoom – quel valore era attorno al 6% nel periodo dal 1980 al 2008, mentre è stato attorno al 3% dal 2008 ad oggi.

 

 

 

 

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