JUL 13, 2016
PORTO – One thing is now certain about the upcoming presidential election in the United States: the next president will not be a committed free trader. The presumptive Democratic nominee, Hillary Clinton, is at best a lukewarm supporter of freer trade, and of the Trans-Pacific Partnership in particular. Her Republican counterpart, Donald Trump, is downright hostile to trade deals that would throw open US markets. Breaking with modern Republican tradition, Trump envisages a 35% tariff on imported cars and parts produced by Ford plants in Mexico and a 45% tariff on imports from China.
Economists are all but unanimous in arguing that the macroeconomic effects of Trump’s plan would be disastrous. Repudiation of free and open trade would devastate confidence and depress investment. Other countries would retaliate by imposing tariffs of their own, flattening US exports. The consequences would resemble those of the Smoot-Hawley Tariff, enacted by the US Congress in 1930 and signed by an earlier, disgraced Republican president, Herbert Hoover – a measure that exacerbated the Great Depression.
But just because economists agree doesn’t mean they’re right. When the economy is in a liquidity trap – when demand is deficient, prices are stagnant or falling, and interest rates approach zero – normal macroeconomic logic goes out the window. That conclusion applies to the macroeconomic effects of tariff protection in general, and to the Smoot-Hawley Tariff in particular. This is a point I demonstrated in an academic paper written – I hesitate to admit – fully 30 years ago.
Consider the following thought experiment. President Trump signs a bill slapping a tariff on imports from China. This shifts US spending toward goods produced by domestic firms. It puts upward pressure on US prices, which is helpful when there is a risk of deflation.
But then President Xi Jinping retaliates with a Chinese tariff, which shifts demand away from US goods. From the standpoint of American consumers, the only effect is that imports from China (now subject to tax) and their US-produced substitutes are both more costly than before.
Under normal circumstances, this would be an undesirable outcome. But when deflation looms, upward pressure on prices is just what the doctor ordered. Higher prices encourage firms to raise production and households to increase their spending. They also reduce the burden of debts. And because inflation is still too low, owing to depressed macroeconomic conditions, there is no need for the Fed to raise interest rates and offset any inflationary effects of the increase in spending.
To prevent this thought experiment from being misconstrued, I want to be clear: there are other, better ways of raising prices and stimulating economic activity in liquidity-trap conditions. The obvious alternative to import tariffs is plain-vanilla fiscal policy – tax cuts and increases in public spending.
Still, the point about tariffs is important. Just as tariff protection is not a macroeconomic problem in deflationary, liquidity-trap-like conditions, freer trade, the economist’s familiar nostrum, is not a solution. Those seeking a cure for the current malaise of “secular stagnation” – slow growth and sub-2% inflation – shouldn’t claim too much for the beneficial macroeconomic effects of trade agreements. And they shouldn’t invoke the old saw that Smoot-Hawley caused the Great Depression, because it didn’t. False claims, even when made in pursuit of good causes, do no one any good.
But Smoot-Hawley did have a variety of other damaging consequences. First, it disrupted the operation of the international financial system. Free trade and free international capital flows go together. Countries that borrow abroad must export in order to service their debts. Smoot-Hawley and foreign retaliation made exporting more difficult. The result was widespread defaults on foreign debts, financial distress, and the collapse of international capital flows.
Second, trade wars fanned geopolitical tensions. The French Chamber of Deputies was outraged by American taxation of French specialty exports and urged an economic war against the US. The UK taxed imports from the US while giving special preferences to its Commonwealth and Empire, angering Hoover and his successor, Franklin Delano Roosevelt. Canadian Prime Minister Mackenzie King warned of an outbreak of “border warfare,” diplomacy-speak for deteriorating political relations. Efforts to stabilize the international monetary system and end the global slump were set back by these diplomatic conflicts.
Worse, US, British, French, and Canadian leaders were at one another’s throats at a time when they should have been working together to advance other common goals. After all, economic policy aside, there was an even greater threat in the 1930s, namely the rise of Hitler and German re-militarization. Unilateral resort to trade restrictions, by making diplomatic cooperation more difficult, complicated efforts to mobilize a coalition of the willing to contain the Nazi threat.
Tariff protection may not be bad macroeconomic policy in a liquidity trap. But this doesn’t make it good foreign policy – for Trump or anyone else.
di Barry Eichengreen
PORTO – Adesso una cosa è certa nelle imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti: il prossimo Presidente non sarà un devoto del libero commercio. La probabile candidata democratica, Hillary Clinton, nel migliore dei casi è una sostenitrice non entusiasta di un commercio più libero, e in particolare dell’accordo della Cooperazione del Trans Pacifico. Il suo omologo repubblicano, Donald Trump, è completamente ostile agli accordi commerciali che aprirebbero i mercati statunitensi. Rompendo con le moderne tradizioni repubblicane, Trump pensa a tariffe del 35% sulle automobili e sulle componenti importate prodotte negli stabilimenti Ford in Messico e del 45% sulle importazioni dalla Cina.
Gli economisti sono quasi tutti unanimi nel sostenere che gli effetti macroeconomici del piano di Trump sarebbero disastrosi. Il rigetto del commercio libero e aperto devasterebbe la fiducia e deprimerebbe gli investimenti. Gli altri paesi reagirebbero imponendo a loro volte dazi e schiacciando le esportazioni degli Stati Uniti. Le conseguenze somiglierebbero a quelle delle tariffe Smoot-Hawley, approvate nel 1930 dal Congresso degli Stati Uniti e sottoscritte da un passato Presidente repubblicano caduto in disgrazia, Herbert Hoover – una misura che esacerbò la Grande Depressione.
Ma il fatto che gli economisti non siano d’accordo, di per sé non significa che abbiano ragione. Quando l’economia è in una trappola di liquidità – quando la domanda è scarsa, i prezzi sono stagnanti o in caduta e i tassi di interesse si avvicinano allo zero – la normale logica macroeconomica esce di scena. Quella conclusione vale in generale per gli effetti macroeconomici delle tariffe protettive, e in particolare per le tariffe della legge Smoot-Hawley. Questo è un aspetto che dimostrai in uno studio accademico scritto – faccio fatica ad ammetterlo – ben trenta anni orsono.
Si consideri il seguente esperimento logico. Il Presidente Trump sottoscrive una proposta di legge che di schianto impone una tariffa sulle importazioni cinesi. Questo sposta la spesa degli Stati Uniti verso i beni prodotti da imprese nazionali. Il che provoca una spinta verso l’alto sui prezzi statunitensi, che in presenza di un rischio di deflazione è utile.
Ma a quel punto il Presidente Xi Jinping contraccambia con una tariffa cinese, che allontana la domanda dai beni statunitensi. Dal punto di vista dei consumatori americani, l’unico effetto è che le importazioni dalla Cina (adesso soggette ad una tassa) ed i loro sostituti prodotti negli Stati Uniti divengono entrambi più costosi di prima. Ma quando incombe la deflazione, una spinta verso l’alto dei prezzi è esattamente la cura più opportuna. I prezzi più alti incoraggiano le imprese ad elevare la produzione e le famiglie ad accrescere la loro spesa. Essi riducono anche il peso dei debiti. E poiché l’inflazione è ancora molto bassa, a seguito delle condizioni depresse dell’economia, non c’è alcun bisogno che la Fed alzi i tassi di interesse e bilanci qualsiasi effetto inflazionistico provocato dall’incremento della spesa. Voglio essere chiaro, per evitare che questa simulazione logica sia fraintesa: ci sono modi diversi e migliori per elevare i prezzi e stimolare l’attività economica nelle condizioni di una trappola di liquidità. L’alternativa ovvia alle tariffe sulle importazioni è una ordinaria politica della finanza pubblica – sgravi fiscali ed aumenti della spesa pubblica.
Ciononostante, l’aspetto delle tariffe è importante. Nello stesso modo in cui una protezione tariffaria non è un problema macroeconomico in condizioni di deflazione e di trappola di liquidità, un commercio più libero, la panacea familiare degli economisti, non è una soluzione. Coloro che sono alla ricerca di una cura per la presente malattia della “stagnazione secolare” – lenta crescita ed inflazione sotto il 2% – non dovrebbero troppo sostenere gli effetti benefici degli accordi commerciali. E non dovrebbero invocare il vecchio giudizio secondo il quale la Smoot-Hawley provocò la Grande Depressione, perché non fu così. Falsi argomenti, persino se detti a fin di bene, non rendono le cose migliori. Inoltre, la Smoot-Hawley ebbe varie altre conseguenze dannose. Anzitutto, interruppe il processo in corso nel sistema finanziario internazionale. Il libero commercio ed il libero flusso internazionale dei capitali vanno di pari passo. I paesi che ricevono crediti all’estero devono esportare al servizio dei loro debiti. La Smoot-Hawley e le rivalse internazionali resero l’esportazione molto più difficile. Il risultato fu un generalizzato default sui debiti esteri, il disordine finanziario e il collasso dei flussi internazionali dei capitali.
In secondo luogo, le guerre commerciali fomentarono le tensioni geopolitiche. La Camera dei Deputati francese si indignò per le tasse americane sulle specialità francesi dell’esportazione e spinse verso una guerra commerciale nei confronti degli Stati Uniti. Il Regno Unito tassò le importazioni dagli Stati Uniti nel mentre offriva particolari preferenze al suo Commonwealth e all’Impero, irritando Hoover e il suo successore, Franklin Delano Roosevelt. Il Primo Ministro canadese Mackenzie King mise in guardia dalla esplosione di una “guerra di confine”, l’equivalente nel linguaggio diplomatico di un deterioramento delle relazioni politiche. Gli sforzi per stabilizzare il sistema monetario internazionale furono ostacolati da questi conflitti diplomatici. Peggio ancora, i leader statunitensi, inglesi, francesi e canadesi si presero per la gola l’uno con l’altro in un’epoca nella quale avrebbero dovuto lavorare assieme per promuovere altri obbiettivi comuni. Dopo tutto, a parte la politica economica, c’era una minaccia anche più grande negli anni ’30, ovvero l’ascesa di Hitler e la rimilitarizzazione tedesca. L’affidamento unilaterale alle restrizioni commerciali, rendendo la cooperazione diplomatica più difficile, complicò gli sforzi per mobilitare una coalizione di coloro che erano disponibili a contenere la minaccia nazista.
La protezione tariffaria può non essere una politica macroeconomica negativa, in una trappola di liquidità. Ma questo non produce una buona politica estera – per Trump come per nessun altro.
By mm
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