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Trump, il commercio ed i lavoratori, di Paul Krugman (New York Times 4 luglio 2016)

 

Trump, Trade and Workers

Paul Krugman JULY 4, 2016

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Donald Trump gave a speech on economic policy last week. Just about every factual assertion he made was wrong, but I’m not going to do a line-by-line critique. What I want to do, instead, is talk about the general thrust: the candidate’s claim to be on the side of American workers.

Of course, that’s what they all say. But Trumponomics goes beyond the usual Republican assertions that cutting taxes on corporations and the rich, ending environmental regulation and so on will conjure up the magic of the marketplace and make everyone prosper. It also involves posing as a populist, claiming that getting tough on foreigners and ripping up our trade agreements will bring back the well-paying jobs America has lost.

That’s a departure, although not as much as you may think — people forget that Mitt Romney similarly threatened a trade war with China during the 2012 campaign. Still, it was interesting to see a Republican presidential candidate name-check not just Bernie Sanders but the left-leaning Economic Policy Institute, which has long been critical of globalization.

But the institute is having none of it: Lawrence Mishel, the think tank’s president, put out a derisive reply to what he called the “Trump trade scam.” His point was that even if you think, as he does, that trade agreements have hurt American workers, they’re only part of a much broader set of anti-labor policies. And on everything else, Donald Trump is very much on the wrong side of the issues.

About globalization: There’s no question that rising imports, especially from China, have reduced the number of manufacturing jobs in America. One widely-cited paper estimates that China’s rise reduced U.S. manufacturing employment by around one million between 1999 and 2011. My own back-of-the-envelope calculation suggests that completely eliminating the U.S. trade deficit in manufactured goods would add about two million manufacturing jobs.

But America is a big place, and total employment exceeds 140 million. Shifting two million workers back into manufacturing would raise that sector’s share of employment back from around 10 percent to around 11.5 percent. To get some perspective: in 1979, on the eve of the great surge in inequality, manufacturing accounted for more than 20 percent of employment. In the 1960s it was more than 25 percent. I’m not sure when, exactly, Mr. Trump thinks America was great, but Trumponomics wouldn’t come close to bringing the old days back.

In any case, falling manufacturing employment is only one factor in the decline of the middle class. As Mr. Mishel says, there have been “many other intentional policies” driving wages down even as top incomes soar: union-bashing, the failure to raise the minimum wage with inflation, austerity, financial deregulation, the tax-cut obsession.

And Mr. Trump buys fully into the ideology that has driven these wage-destroying policies.

In fact, even as he tried to pose as a populist he repeated the same falsehoods usually used to justify anti-worker policies. We are, he declared, “one of the highest taxed nations in the world.” Actually, among 34 advanced countries, we’re No. 31. And, regulations are “an even greater impediment” to our competitiveness than taxes: Actually, we’re far less regulated than, say, Germany, which runs a gigantic trade surplus.

As Mr. Mishel wrote, “if is he so keen to help working people, why does he then steer the discussion back toward the traditional corporate agenda of tax cuts for corporations and the rich?” I think we know the answer.

But never mind Mr. Trump’s motivations. What’s important is that voters not mistake tough talk on trade for a pro-worker agenda.

No matter what we do on trade, America is going to be mainly a service economy for the foreseeable future. If we want to be a middle-class nation, we need policies that give service-sector workers the essentials of a middle-class life. This means guaranteed health insurance — Obamacare brought insurance to 20 million Americans, but Republicans want to repeal it and also take Medicare away from millions. It means the right of workers to organize and bargain for better wages — which all Republicans oppose. It means adequate support in retirement from Social Security — which Democrats want to expand, but Republicans want to cut and privatize.

Is Mr. Trump for any of these things? Not as far as anyone can tell. And it should go without saying that a populist agenda won’t be possible if we’re also pushing through a Trump-style tax plan, which would offer the top 1 percent huge tax cuts and add trillions to the national debt.

Sorry, but adding a bit of China-bashing to a fundamentally anti-labor agenda does no more to make you a friend of workers than eating a taco bowl does to make you a friend of Latinos.

 

Trump, il commercio ed i lavoratori, di Paul Krugman

New York Times 4 luglio 2016

Donald Trump ha tenuto la scorsa settimana un discorso sulla politica economica. Quasi tutti i giudizi attinenti a cose reali che ha avanzato erano sbagliati, ma non ho intenzione di procedere ad una critica frase per frase. Quello che invece voglio fare è parlare del succo generale: il candidato pretende di essere dalla parte dei lavoratori americani.

Ovviamente, quello è quanto dicono tutti. Ma l’economia di Trump va oltre le solite affermazioni dei repubblicani secondo le quali tagliare le tasse sulle società e sui ricchi, interrompere i regolamenti ambientali e via di seguito tirerebbe fuori dal cilindro la magia del libero mercato e renderebbe tutti prosperi. Nel suo caso si aggiunge un atteggiamento populista, secondo il quale mostrarsi duri con gli stranieri e fare a pezzi gli accordi commerciali ci restituirebbe i posti di lavoro ben retribuiti che l’America ha perso.

Si tratta di una deviazione, sebbene non così grande come potreste pensare – la gente dimentica che Mitt Romney minacciava in modo simile una guerra commerciale contro la Cina durante la campagna elettorale del 2012. Eppure, è stato interessante osservare un candidato repubblicano alla Presidenza citare apertamente non solo Bernie Sanders, ma l’Istituto di Politica Economica con orientamenti di sinistra, che è stato per molto tempo critico con la globalizzazione.

Ma l’Istituto non ci sta: Lawrence Mishel, il Presidente della associazione, ha pronunciato una replica ironica a quello che ha definito “l’imbroglio commerciale di Trump”. Il suo argomento è stato che, se anche si pensa, come lui pensa, che gli accordi commerciali abbiano danneggiato i lavoratori americani, essi sono solo una parte di un complesso molto più ampio di politiche contro il lavoro. E su tutti gli altri aspetti, Donald Trump è decisamente dalla parte sbagliata della discussione.

A proposito della globalizzazione: non c’è dubbio che la crescita delle importazioni, in particolare dalla Cina, abbia ridotto il numero dei posti di lavoro manifatturieri in America. Uno studio ampiamente citato stima che la crescita della Cina abbia ridotto l’occupazione manifatturiera negli Stati Uniti per circa un milione di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011. Un mio calcolo approssimativo indica che l’eliminazione completa del deficit commerciale nei beni manifatturieri degli Stati Uniti comporterebbe un aumento di due milioni di posti di lavoro nel settore.

Ma l’America è un gran paese, con una occupazione totale che supera i 140 milioni. Riportare due milioni di posti di lavoro nel manifatturiero accrescerebbe la quota di occupazione in quel settore da circa il 10 a circa l’11,5 per cento. Per avere qualche punto di riferimento: nel 1979, all’epoca della grande crescita dell’ineguaglianza, il manifatturiero realizzava più del 20 per cento dell’occupazione. Negli anni ’60 era più del 25 per cento. Non so quando, esattamente, il signor Trump pensi che l’America sia stata grande, ma la sua politica economica non ci riavvicinerebbe ai tempi andati.

In ogni caso, la caduta dell’occupazione manifatturiera è soltanto un fattore nel declino della classe media. Come dice Mishel, ci sono state “molte altre politiche deliberate” che hanno portato in basso i salari, anche mentre redditi dei più ricchi salivano alle stelle: i colpi sui sindacati, il non aver elevato i minimi salariali con l’inflazione, la deregolamentazione finanziaria, l’ossessione degli sgravi fiscali.

E il signor Trump attinge pienamente all’ideologia che ha condotto a queste politiche di distruzione dei salari.

In sostanza, anche se ha cercato di atteggiarsi a populista, egli ha ripetuto le stesse falsità che vengono di solito utilizzate per giustificare le politiche contro i lavoratori. Noi siamo, ha detto, “una delle nazioni maggiormente tassate al mondo”. Per la verità, tra 34 paesi avanzati, noi siamo al trentunesimo posto. Ed ha aggiunto che i regolamenti “sono un impedimento anche maggiore” alla competitività, rispetto alle tasse: per la verità siamo molto meno regolamentati, ad esempio, della Germania, che gestisce un surplus commerciale gigantesco.

Come ha scritto Mishel, “se è così ansioso di aiutare la gente che lavora, perché allora non riconduce il dibattito sul tradizionale programma delle imprese sui tagli fiscali a favore delle società e dei ricchi?”. Suppongo che la risposta sia ben nota.

Ma non contano gli argomenti di Trump. Quello che è importante è che gli elettori non confondano un linguaggio duro sul commercio con un programma favorevole ai lavoratori.

A prescindere da quello che facciamo sul commercio, l’America, per il futuro prevedibile, si avvia ad essere principalmente un’economia di servizi. Se vogliamo essere una nazione di classe media, abbiamo bisogno di politiche che diano ai lavoratori del settore dei servizi gli elementi essenziali di una vita da classe media. Questo comporta una assistenza sanitaria garantita – la riforma di Obama ha portato l’assicurazione sanitaria a 20 milioni di americani, ma i repubblicani vogliono abrogarla e vogliono anche togliere Medicare a milioni di cittadini. Comporta il diritto dei lavoratori ad organizzarsi ed a negoziare per salari migliori – al quale tutti i repubblicani si oppongono. Comporta un sostegno adeguato alle pensioni da parte del programma della Previdenza Sociale – che i democratici vogliono ampliare, ma i repubblicani vogliono tagliare e privatizzare.

Trump è a favore di qualcuna di queste cose? Per quanto si può capire, niente affatto. E non dovrebbe essere il caso di dire che un programma populista non sarà possibile se al tempo stesso si approverà un piano fiscale del genere di quello di Trump, che offrirebbe ampi sgravi fiscali all’1 per cento dei più ricchi e aumenterebbe per migliaia di miliardi il debito nazionale.

Spiacente, ma aggiungere un po’ di attacchi alla Cina ad un programma fondamentalmente ostile al lavoro non vi fa essere più amici dei lavoratori di quanto il mangiare una scodella di taco [1] non vi faccia essere amici degli ispanici.

 

 

 

[1] Donald Trump ha di recente twittato un messaggio con una foto che lo ritrae nel ristorante del Trump Tower mentre mangia un piatto di ‘taco’. Ha aggiunto che i migliori ‘taco’ sarebbero serviti nel suo ristorante, a conferma del suo amore verso gli ispanici.

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