JUL 27, 2016
BERKELEY – The Berkeley economist Barry Eichengreen recently gave a talk in Lisbon about inequality that demonstrated one of the virtues of being a scholar of economic history. Eichengreen, like me, glories in the complexities of every situation, avoiding oversimplification in the pursuit of conceptual clarity. This disposition stays the impulse to try to explain more about the world than we can possibly know with one simple model.
For his part, with respect to inequality, Eichengreen has identified six first-order processes at work over the past 250 years.
The first is the widening of Britain’s income distribution between 1750 and 1850, as the gains from the British Industrial Revolution went to the urban and rural middle class, but not to the urban and rural poor.
Second, between 1750 and 1975, income distribution also widened globally, as some parts of the world realized gains from industrial and post-industrial technologies, while others did not. For example, in 1800, American purchasing power parity was twice that of China; by 1975 it was 30 times that of China.
The third process is what is known as the First Age of Globalization, between 1850 and 1914, when living standards and labor productivity levels converged in the global north. During this time, 50 million people left an overcrowded agricultural Europe for resource-rich new settlements. They brought their institutions, technologies, and capital with them, and the wage differential between Europe and these new economies shrank from roughly 100% to 25%.
This mostly coincided with the Gilded Age between 1870 and 1914, when domestic inequality rose in the global north as entrepreneurship, industrialization, and financial manipulation channeled new gains mostly to the wealthiest families.
Gilded Age inequality was significantly reversed during the period of social democracy in the global north, between 1930 and 1980, when higher taxes on the wealthy helped pay for new government benefits and programs. But the subsequent and last stage brings us to the current moment, when economic policy choices have again resulted in a widening of the distribution of gains in the global north, ushering in a new Gilded Age.
Eichengreen’s six processes affecting inequality are a good starting point. But I would go further and add six more.
First, there is the stubborn persistence of absolute poverty in some places, despite the extraordinary overall reduction since 1980. As the UCLA scholar Ananya Roy points out, people in absolute poverty are deprived of both the opportunities and the means to change their status. They lack what the philosopher Isaiah Berlin called “positive liberty” – empowerment for self-actualization – as well as “negative liberty,” or freedom from obstacles in one’s path of action. Seen in this light, inequality is an uneven distribution not only of wealth, but also of liberty.
Second is the abolition of slavery in many parts of the world during the nineteenth century, followed by, third, the global loosening over time of other caste constraints – race, ethnicity, gender – which deprived even some people with wealth of the opportunities to use it.
The fourth process consists of two recent high-growth generations in China and one high-growth generation in India, which has been a significant factor underlying global wealth convergence since 1975.
Fifth is the dynamic of compound interest, which through favorable political arrangements allows the wealthy to profit from the economy without actually creating any new wealth. As the French economist Thomas Piketty has observed, this process may have played some role in our past, and will surely play an even bigger role in our future.
At this point, it should be clear why I began by noting the complexity of economic history. This complexity implies that any adjustments to our political economy should be based on sound social science and directed by elected leaders who are genuinely acting in the interest of the people.
Emphasizing complexity brings me to a final factor affecting inequality – perhaps the most important of all: populist mobilizations. Democracies are prone to populist uprisings, especially when inequality is on the rise. But the track record of such uprisings should give us pause.
In France, populist mobilizations installed an emperor – Napoleon III, who led a coup in 1851 – and overthrew democratically elected governments during the Third Republic. In the United States, they underpinned discrimination against immigrants and sustained the Jim Crow era of legal racial segregation.
In Central Europe, populist mobilizations have driven imperial conquests under the banner of proletarian internationalism. In the Soviet Union, they helped Vladimir Lenin consolidate power, with disastrous consequences that were surpassed only by the horrors of Nazism, which also came to power on a populist wave.
Constructive populist responses to inequality are fewer, but they should certainly be mentioned. In some cases, populism has helped in extending the franchise; enacting a progressive income tax and social insurance; building physical and human capital; opening economies; prioritizing full employment; and encouraging migration.
History teaches us that these latter responses to inequality have made the world a better place. Unfortunately – and at the risk of oversimplification – we usually fail to heed history’s lessons.
Una breve storia dell’(in)equaglianza,
di J. Bradford DeLong
BERKELEY – L’economista di Berkeley Barry Eichengreen ha di recente tenuto un discorso a Lisbona sull’ineguaglianza, che ha dimostrato uno dei vantaggi di essere uno studioso di storia economica. Eichengreen, come me, gioisce nelle complessità di ogni situazione, evitando le super semplificazioni nel perseguimento della chiarezza concettuale. Questa disposizione resta la molla per cercare di spiegare più cose del mondo di quello che probabilmente conosciamo attraverso un semplice modello.
Da parte sua, riguardo all’ineguaglianza, Eichengreen ha identificato sei processi di prima grandezza che hanno operato negli ultimi 250 anni.
Il primo è stato l’ampliamento della distribuzione del reddito in Inghilterra tra il 1750 ed il 1850, allorché i guadagni derivanti dalla Rivoluzione Industriale inglese andarono alle classi medie cittadine e rurali, ma non ai poveri delle città e delle campagne.
Il secondo, tra il 1750 ed il 1975, è stato l’ampliamento della distribuzione del reddito su scala globale, dato che alcune aree del mondo hanno realizzato guadagni dalle tecnologie industriali e post industriali, mentre altre non lo hanno fatto. Ad esempio, nel 1800, il potere di acquisto in America era doppio di quello della Cina; nel 1975 era trenta volte quello della Cina.
Il terzo processo è quello che è conosciuto come la Prima Età della Globalizzazione, tra il 1850 ed il 1914, quando gli standard di vita ed i livelli della produttività del lavoro si allinearono nel Nord del pianeta. Durante quest’epoca, 50 milioni di persone abbandonarono una agricoltura sovraffollata in Europa per nuovi insediamenti ricchi di risorse. Portarono con sé le loro istituzioni, le tecnologie ed i capitali, e il differenziale salariale tra l’Europa e queste nuove economie si ridusse da circa il 100% al 25%.
Tra il 1870 ed il 1914, tutto questo in gran parte coincise con l’Età Dorata, quando l’ineguaglianza interna crebbe nel Nord del pianeta mentre l’imprenditoria, l’industrializzazione e la gestione delle finanze veicolava nuovi profitti, principalmente alle famiglie più ricche.
L’ineguaglianza dell’Età Dorata conobbe una significativa inversione durante il periodo della socialdemocrazia nel Nord del pianeta, tra il 1930 ed il 1980, quando tasse più elevate sui ricchi contribuirono a finanziare nuovi sussidi e nuovi programmi governativi. Ma il successivo ed ultimo stadio ci porta al momento attuale, quando le scelte di politica economica si sono ancora una volta tradotte in più grandi differenze nella distribuzione del reddito nel Nord del pianeta, inaugurando una nuova Età Dorata.
I sei processi di Eichengreen che influenzano l’ineguaglianza sono un buon punto di partenza. Ma io vorrei andare oltre ed aggiungerne altri sei.
Il primo, c’è una ostinata persistenza della povertà assoluta in alcune aree, nonostante la complessiva straordinaria riduzione a partire dal 1980. Come la studiosa dell’UCLA [1] Ananya Roy mette in evidenza, le persone in povertà assoluta sono private sia delle opportunità che dei mezzi per cambiare la loro condizione. Mancano di quella che il filosofo Isaiah Berlin definiva la “libertà positiva” – il potere della realizzazione di sé stessi – come della “libertà negativa”, l’essere liberi da ostacoli nel proprio sentiero di iniziativa. Considerata alla luce di questo, l’ineguaglianza è una distribuzione ineguale non solo della ricchezza, ma anche della libertà.
Il secondo processo è l’abolizione della schiavitù in molte parti del mondo durante il diciannovesimo secolo, seguita, in terzo luogo, dall’allentamento globale nel corso del tempo di altre limitazioni di casta – razza, etnie, genere – che ha privato persino alcune persone che possiedono ricchezza della possibilità di utilizzarla.
Il quarto processo riguarda la recente elevata crescita della durata di due generazioni in Cina e di una generazione in India, che è stata, a partire dal 1975, un significativo fattore di convergenza nella ricchezza globale di base. Come l’economista francese Thomas Picketty ha osservato, questo processo può aver giocato un qualche ruolo nel nostro passato, e giocherà sicuramente un ruolo anche più grande nel nostro futuro.
A questo punto, dovrebbe essere chiaro perché ho preso le mosse dall’osservazione sulla complessità della storia economica. Questa complessità implica che ogni correzione alla nostra politica economica dovrebbe essere basata su una solida scienza sociale e dovrebbe essere diretta da persone che agiscono genuinamente negli interessi delle popolazioni.
Enfatizzare la complessità mi porta ad un fattore finale che influisce sull’ineguaglianza – forse il più importante di tutti: i movimenti populisti. Le democrazie sono inclini alle sollevazioni populiste, in particolare quando l’ineguaglianza è in crescita. Ma l’esperienza storica di tali rivolte dovrebbe darci qualche motivo di esitazione.
Il Francia, la mobilitazione populista mise al potere un imperatore – Napoleone III, che guidò un colpo di Stato nel 1851 – e rovesciò i governi democraticamente eletti durante la Terza Repubblica. Negli Stati Uniti, essa sorresse le discriminazioni contro gli emigranti e promosse l’epoca della segregazione razziale delle cosiddette leggi di Jim Crow [2].
Nell’Europa Centrale, la mobilitazione populista guidò conquiste imperiali sotto la bandiera dell’internazionalismo proletario. Nell’Unione Sovietica, aiutarono Vladimir Lenin a consolidare il potere, con conseguenze disastrose che furono superate soltanto dagli orrori del Nazismo, che anch’esso andò al potere su una ondata populista.
Le risposte costruttive all’ineguaglianza di tipo populista sono minori, ma devono certamente essere menzionate. In alcuni casi, il populismo contribuì ad estendere il diritto di voto; a fare leggi su una tassazione progressiva dei redditi e sulla assicurazione sociale; ad aumentare il capitale fisico e umano; ad aprire le economie; a dare priorità alla piena occupazione e ad incoraggiare l’emigrazione.
La storia ci insegna che queste ultime risposte all’ineguaglianza hanno reso il mondo migliore. Sfortunatamente – e a rischio di una eccessiva semplificazione – normalmente non prestiamo attenzione alle lezioni della storia.
[1] Università della California, Los Angeles.
[2] Le leggi Jim Crow furono delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America emanate tra il 1876 e il 1965. Di fatto servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi (…)
Durante il periodo della Ricostruzione, tra il 1865 e il 1877, nel sud uscito sconfitto dalla guerra, la legge federale protesse i diritti civili dei freedmen, ovvero gli schiavi di origine africana liberati. Nel decennio del 1870 idemocratici bianchi ripresero gradualmente il potere negli stati del sud, spesso grazie ad elezioni durante le quali gruppi paramilitari intimidivano gli avversari, attaccavano i neri o impedivano loro di votare. Per vari anni inLouisiana le elezioni per il governatore furono sospese o contestate per l’estrema violenza che si scatenava durante la campagna elettorale. Nel 1877 un accordo nazionale fatto per ottenere l’appoggio del sud nelle elezioni presidenziale si tradusse nel ritiro delle truppe federali dagli stati del sud. I democratici bianchi ormai avevano ripreso il controllo di tutti gli stati[3]. Il governi bianchi e democratici guidati dai Redeemers che vennero dopo il ritiro dell’esercito emanarono le leggi Jim Crow, separando gli afroamericani dalla popolazione bianca degli stati.
Alcuni neri continuarono ad essere eletti in cariche locali fino al decennio del 1880, ma poi i democratici approvarono leggi che rendevano più difficili la registrazione nelle liste elettorali e la partecipazione alle elezioni, con il risultato che la partecipazione della maggioranza dei neri e di molti bianchi poveri iniziò a calare. A partire dal Mississippi nel 1890, fino al 1910 gli ex stati confederati approvarono nuove costituzioni o emendamenti che di fatto privarono nuovamente del diritto di voto la maggioranza dei neri e decine di migliaia di bianchi poveri grazie ad una combinazione di tasse da pagare per votare, test di alfabetizzazione e di comprensione di testi scritti, e requisiti di residenza e registrazione all’anagrafe. La Clausola del nonno permise temporaneamente ad alcuni analfabeti bianchi di continuare a votare, ma complessivamente a seguito di tali leggi il numero dei votanti in tutto il sud si ridusse drasticamente. (Wikipedia)
By mm
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