AUGUST 9, 2016 11:18 AM
With the result of the presidential election looking relatively clear — I know, chickens not hatched and all that, but, you know, polls have actually been fairly accurate — I’m thinking more about economics. And I realized something not too flattering about myself: I’m feeling nostalgic for 2011 or so.
Why? It was, of course, a terrible time for much of the world, and especially for anyone without a job. But for someone like me, an economist with secure personal finances, it was a time of wonderful intellectual clarity. Liquidity-trap macroeconomics — which I didn’t invent, but did play a role in bringing back into the mainstream — had become the story of the day. And the basic message of the models — that everything changes when you hit the zero lower bound — was being overwhelmingly confirmed by experience.
The thing is, it was all beautifully hard-edged: a crisp boundary at zero, a sharp change in the impact of monetary and fiscal policy when you hit that boundary. And the predictions we made came out consistently right.
But now things have gotten a bit, well, murky.
The zero lower bound is not, it turns out, quite as hard a boundary as we thought. True, there are limits — I’d be surprised if any central bank is willing to go much if at all below minus one percent — but it turns out to be a sort of a fuzzy no-man’s-land rather than a line that cannot be crossed.
More important, probably, is the fact that two of the major advanced economies — the US and, believe it or not, Japan — are arguably quite close to full employment. We don’t know how close, because we don’t know how much pent-up labor supply is still waiting on the sidelines. But you can no longer argue that supply limits are no longer relevant.
Correspondingly, you can also no longer argue with confidence that there can be no crowding out, because the Fed won’t raise rates. You can argue that it shouldn’t — and I would — but we are maybe, possibly, on our way out of the liquidity trap.
So we’re not in the simple, depressed-economy world of 2011 anymore. But here’s the thing: we’re not in what we used to call a normal macroeconomic situation either. Maybe we’re close to full employment, but maybe not, and that’s with near-zero interest rates; also, it’s all too easy to imagine adverse shocks in the near future, and not at all clear how the Fed could or would respond. We are, if you like, half-out of the liquidity trap, with one foot on dry land — but the other foot is still hanging over the edge, and it wouldn’t take much to topple us right back in.
What I would argue is that in this murky, fragile situation we should be conducting policy largely as if we were still in the trap — because we badly need to get both feet firmly on dry land with some distance between us and the quicksand. (And if I’m mixing metaphors — am I? — never mind. Throw the jackboot into the melting pot!) But it’s not the crystalline case we used to be able to make.
Still, we need to deal with this murky situation right, which means embracing the uncertainty as part of the argument. Make murkiness great again!
La macroeconomia nebulosa
Con i risultati delle elezioni presidenziali che appaiono relativamente chiari – lo so, i pulcini non sono ancora usciti dall’uovo e tutto il resto, ma, sapete, i sondaggi sono stati fatti abbastanza accuratamente [1] – sto pensando di più all’economia. Ed ho capito una cosa che non è troppo lunsinghiera per me: ho nostalgia per il 2011, o qualcosa di simile.
Perché? Fu, ovviamente, un periodo terribile per gan parte del mondo, e specialmente per chiunque non avesse un lavoro. Ma per gente come me, un economista con finanze personali certe, fu un periodo di meravigliosa chiarezza intellettuale. L’economia della trappola di liquidità – che non ho inventato io, ma per la quale ho avuto un ruolo nel ricondurla all’interno del pensiero economico – era diventata il racconto del giorno. E il messaggio di base dei modelli – secondo il quale tutto cambia quando si tocca il limite inferiore dello zero – riceveva conferme schiaccianti dall’esperienza.
Il punto è che era tutto stupendamente ben definito: un confine netto attorno allo zero, un brusco cambiamento nell’impatto della politica monetaria e della finanza pubblica quando si raggiunge quel confine. E le previsioni che facevamo si rivelavano costantemente giuste.
Ma adesso le cose sono diventate un po’, diciamolo, nebulose.
Si scopre che il limite inferiore (dello zero) non è un confine così netto come avevamo pensato. È vero, ci sono dei limiti – sarei sorpreso se qualsiasi banca centrale fosse disponibile ad andare molto al di sotto del meno uno per cento, o che fosse affatto disponibile anche per quel limite – ma si scopre di essere in una specie di terra di nessuno piuttosto che dinanzi ad una linea che non può essere otrepassata.
Probabilmente ancora più importante è il fatto che due delle importanti economie avanzate – gli Stati Uniti e, che ci crediate o meno, il Giappone – sono verosimilmente abbastanza vicine alla piena occupazione. Non sappiamo quanto vicine, perché non sappiamo quanta offerta repressa [2] di lavoro è ancora in attesa nelle retrovie. Ma non si può più sostenere che i limiti dell’offerta non siano più rilevanti.
Di conseguenza, non si può neanche più sostenere con tranquillità che non ci possa essere sottrazione di spazio per gli investimenti privati, perché la Fed non aumenterà i tassi. Si può sostenere che non dovrebbe farlo – è quello che faccio io – ma forse, probabilmente, siamo sulla strada di una uscita dalla trappola di liquidità.
Dunque non siamo più nel mondo semplice e caratterizzato da un’economia depressa del 2011. Ma qua è il punto: non siamo neppure in quella che eravamo soliti definire come una situazione macroeconomica normale. Forse siamo vicini alla piena occupazione, ma forse no, ed è caratterizzata da tassi di interesse vicini allo zero; inoltre, è anche troppo facile immaginare traumi negativi nel futuro prossimo, e non è affatto chiaro come la Fed potrebbe o vorrebbe rispondere. Siamo, se preferite, mezzo fuori la trappola di liquidità, con un piede sulla terra ferma – ma l’altro piede è ancora in sospeso sul bordo, e non ci vorrebbe molto per farci ricrollare indietro in un attimo.
Ciò che io direi è che in questa nebulosa e fragile situazione dovremmo in gran parte sviluppare una politica come se ancora fossimo in una trappola – perché abbiamo assolutamente bisogno di avere entrambi i piedi sulla terra ferma, con qualche distanza tra noi e le sabbie mobili (e se sto confondendo le metafore – forse lo sto facendo – non è importante. Provate a piantare gli stivali nella fanghiglia!). Non è comunque quella situazione cristallina che eravamo soliti esser capaci di determinare.
Eppure, abbiamo bisogno di misurarci con questa situazione nebulosa nel modo giusto, il che significa far nostra l’incertezza come parte del ragionamento. Facciamo diventare di nuovo grande la nebulosità! [3]
[1] La connessione è con un rapporto del New York Times di questi giorni, che fornisce un argomentatissimo sondaggio sulle previsioni elettorali, con un risultato complessivo dell’86 per centio a favore della Clinton.
[2] Suppongo, nel senso di ‘non libera’, perché desiderosa di una piena occupazione che non trova, essendo disponibili solo posti di lavoro a tampo parziale o non qualificati. Ed anche nel senso di non attivamente impegnata nella ricerca di un posto – e dunque non censita come occupata – perché scoraggiata.
[3] È evidente l’ispirazione ironica del trumpiano “Facciamo diventare di nuovo grande l’America!”.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"