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Per una comprensione del Collegio elettorale americano, di Elizabeth Drew (da Project Syndicate, 8 agosto 2016)

 

AUG 8, 2016

Understanding America’s Electoral College

ELIZABETH DREW

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WASHINGTON, DC – Anyone watching the United States’ presidential race needs to understand that national opinion polls do not provide an accurate picture of how the election might turn out. Thanks to America’s Electoral College, it’s not who wins the most votes nationwide that matters in the end, but who wins in which states.

Each state is awarded a certain number of votes in the Electoral College, depending on the size of its population. The candidate who crosses the threshold of 270 electoral votes wins the presidency.

In almost every state, a candidate who wins 50.1% of the popular vote is awarded 100% of its electoral votes. (Only Maine and Nebraska don’t follow the winner-take-all rule; they divide the Electoral College vote by congressional district.) As a result, the votes of millions of people who cast their ballot end up not counting. If you’re a Republican in New York or California, which are dominated by the Democrats, or a Democrat in Wyoming or Mississippi, which are reliably Republican, you can forget about your vote for president mattering.

One peculiar result of this peculiar system is that a candidate can win a majority of the national popular vote but lose in the Electoral College, by losing narrowly in populous states and winning in some smaller states. It doesn’t happen often, but whenever it does, the US goes through a paroxysm of hand-wringing over this seemingly undemocratic mechanism. In the most recent case, Al Gore won a majority of the popular vote in 2000, but George W. Bush won the presidency.

Due to the Electoral College, voters cast their ballots not for a candidate but for a slate of electors – party activists, including friends and allies of the contender – who will support their choice. The role of the electors is a brief formality; they meet in their state capitol and cast the vote. But we already know how it’s going to turn out, because the presidential election results are reported at the time in terms of who won each state.

At this point, the national vote count is meaningless. Congress convenes and “counts” the electoral votes; but this, too, is a mere formality. (The Bush-Gore contest was unusual in that it wasn’t settled until December 12, more than a month after the election, when the Supreme Court, in a partisan and highly controversial decision, voted 5-4 to end the recount in Florida, handing the presidency to Bush.)

Now, here’s where it can get convoluted, and possibilities for mischief arise: if no one wins 270 Electoral College votes, the election goes to the House of Representatives, where each state delegation casts a single vote, regardless of how many voters the delegation represents. Wyoming (population 585,000) and California (population 39 million) each get one vote. And the delegations aren’t bound to vote for the candidate who won the most votes in their state.

Then, after the House elects the president, the Senate picks the vice president, with each senator getting one vote. It’s theoretically possible that Congress could elect a president and vice president from different parties.

This labyrinthine system for choosing the president reflects the ambivalence of America’s founders about popular democracy. They were suspicious of the rabble – the public – having its way on the basis of misinformation or a lack of understanding of the issues. The United Kingdom’s vote in June to leave the European Union – against the advice of experts and allies – appears to validate this concern.

From the outset, America’s founders were aware of the dangers of government by plebiscite. Alexander Hamilton worried about giving power to the people because “they seldom judge or determine right.” Fearing “an excess of democracy,” they interposed institutional buffers between the popular will and government decisions. Until 1913, senators were chosen by state legislatures, not directly elected by the voters. And they gave us the Electoral College.

This system has an enormous impact on the actual campaign for the presidency, because it determines where the candidates spend their time and money. Only about ten states are considered “swing” states that could go for either party; the rest are considered “safe” states for one party or the other.

Of course, sometimes the political wisdom can be wrong and a state bounces out of its category. But these ten “battleground” states are the ones to watch for clues as to how the election will turn out. They are much more indicative of the final result than national polls.

For example, California and New York are so routinely Democratic that the only reason candidates turn up in either one is to raise money. By contrast, Ohio – the jewel in the crown of swing states, because tradition has it that no Republican can win the presidency without winning there – is well trodden by the candidates. The other states considered most important to victory for either side are Florida and Pennsylvania.

Because such populous states, along with a handful of others, routinely go Democratic, the Democrats have a built-in advantage in the Electoral College. So Donald Trump is widely believed to have more limited options for accumulating 270 votes.

Maybe the Electoral College isn’t such a peculiar idea, after all.

 

Per una comprensione del Collegio elettorale americano,

di Elizabeth Drew

Washington, DC – Chiunque osservi la competizione presidenziale negli Stati Uniti, ha bisogno di comprendere che i sondaggi nazionali di opinione non forniscono un quadro adeguato dei possibili risultati elettorali. Grazie al Collegio Elettorale americano, quello che conta alla fine non è chi si aggiudica il maggior numero di voti in tutta la nazione, ma chi se li aggiudica in alcuni Stati.

Ciascuno Stato è premiato con un certo numero di voti nel Collegio Elettorale, in relazione alle dimensioni della sua popolazione. Il candidato che supera la soglia di 270 voti elettorali, si aggiudica la Presidenza.

In quasi tutti gli Stati, un candidato che si aggiudica il 50,1% del voto popolare è premiato con il 100% dei suoi voti elettorali (soltanto il Maine e il Nebraska non seguono la regola secondo la quale il vincitore-prende-tutto; essi dividono il Collegio Elettorale in distretti congressuali). Di conseguenza, i voti di milioni di votanti, finiscono per non contare. Se siete un repubblicano a New York o in California, che sono dominati dai democratici, o un democratico nel Wyoming o nel Mississippi, che sono fidati Stati repubblicani, potete scordarvi che il vostro voto per il Presidente abbia importanza.

Un risultato caratteristico di questo sistema peculiare è che un candidato può ottenere la maggioranza del voto popolare nazionale ma perdere nel Collegio Elettorale, perdendo di misura negli Stati popolosi e vincendo in alcuni Stati più piccoli. Non accade di frequente, ma quando accade gli Stati Uniti attraversano un periodo di preoccupazione parossistica per questo meccanismo apparentemente non democratico. Nel caso più recente, nel 2000 Al Gore ottenne la maggioranza del voto popolare, ma George W. Bush si aggiudicò la Presidenza.

Per effetto del Collegio Elettorale, gli elettori esprimono i loro voti non per un candidato ma per un elenco di elettori – attivisti di Partito, inclusi amici ed alleati del candidato – che sosterranno la loro scelta. Il ruolo degli elettori è una breve formalità; si incontrano nel palazzo congressuale dello Stato e votano. Ma si sa già come andrà a finire, perché i risultati delle elezioni presidenziali sono resocontati sul momento, esprimendo chi si aggiudicherà ciascun Stato.

A questo punto, il risultato del voto nazionale è privo di significato. Il Congresso si riunisce e “conta” i voti elettorali; ma anche questa è una mera formalità (la competizione tra Gore e Bush fu insolita, nel senso che non venne definita sino al 12 dicembre, più di un mese dopo le elezioni, quando la Corte Suprema, con una decisione partigiana ed altamente controversa, con un voto di cinque contro quattro decise di sospendere il riconteggio in Florida, consegnando la Presidenza a Bush).

Vediamo adesso dove la situazione può farsi intricata e le possibilità di qualche sotterfugio crescono: se nessuno si aggiudica i 270 voti del Collegio Elettorale, l’elezione passa alla Camera dei Rappresentanti, dove ciascuna delegazione degli Stati esprime un unico voto, a prescindere da quanti elettori la delegazione rappresenta. Il Wyoming (popolazione di 585.000) e la California (popolazione di 39 milioni) hanno ciascuno un voto. E le delegazioni non sono tenute a votare il candidato che si è aggiudicato il numero maggiore di voti nel loro Stato.

Successivamente, dopo che la Camera ha eletto il Presidente, il Senato sceglie il Vice Presidente, con un voto per ciascun Senatore. È teoricamente possibile che i due rami del Congresso eleggano un Presidente ed un Vice Presidente di diversi partiti.

Questo sistema labirintico per la scelta del Presidente riflette l’ambivalenza dei fondatori dell’America sulla democrazia popolare. Avevano il sospetto che il popolino – l’opinione pubblica – facesse le sue scelte sulla base della disinformazione o della mancanza di comprensione dei temi. Il voto del Regno Unito di giugno sull’abbandono dell’Unione Europea – contro il consiglio degli esperti e degli alleati – sembra convalidare quella preoccupazione.

I fondatori dell’America furono consapevoli sin dagli inizi dei pericoli dei governi plebiscitari. Alexander Hamilton si preoccupava di dare potere al popolo perché “raramente giudica o decide nel modo giusto”.

Per timore di un “eccesso di democrazia” interposero dei cuscinetti tra la volontà popolare e le decisioni del Governo. Fino al 1913 i senatori venivano eletti dagli organi legislativi degli Stati, non direttamente dagli elettori. Ed essi ci consegnarono il Collegio Elettorale.

Questo sistema ha un impatto enorme sulla attuale campagna elettorale presidenziale, giacché determina dove i candidati spendono il loro tempo ed il loro denaro. Soltanto dieci Stati sono considerati “Stati oscillanti” che possono andare ad entrambi i Partiti; il resto sono considerati Stati “sicuri” per l’uno o l’altro Partito.

Ovviamente, talora la saggezza politica può risultare sbagliata ed uno stato finisce fuori dalla sua categoria. Ma questi dieci Stati dove si decide la battaglia sono quelli da osservare come indizi su come andranno a finire le elezioni. Essi sono molto più indicativi del risultato finale dei sondaggi nazionali.

Per esempio, la California e New York sono democratici per tale consuetudine, che l’unica ragione per la quale i candidati sono presenti in entrambi è per raccogliere finanziamenti elettorali.  All’opposto, l’Ohio – il gioiello della corona degli Stati ‘oscillanti’, perché nessun repubblicano può vincere la Presidenza senza vincere in quello Stato – è battuto in lungo e in largo dai candidati. Gli altri Stati considerati più importanti da entrambi gli schieramenti sono la Florida e la Pennsylvania.

Poiché tali stati popolosi, assieme ad una manciata di altri, vanno ordinariamente ai democratici, essi hanno un vantaggio naturale nel Collegio Elettorale. Per questo si ritiene che Donald Trump abbia possibilità più limitate di mettere assieme 270 voti.

Dopo tutto, forse il Collegio Elettorale non è un’idea così bizzarra.

 

 

 

 

 

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