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É il Partito di Trump, di Paul Krugman (New York Times 24 ottobre 2016)

 

It’s Trump’s Party

Paul Krugman OCT. 24, 2016

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The presidential campaign is entering its final weeks, and unless the polls are completely off, Donald Trump has very little chance of winning — only 7 percent, according to the Times’s Upshot model. Meanwhile, the candidate continues to say disgusting things, and analysts are asking whether down-ballot Republicans will finally repudiate their party’s nominee.

The answer should be, who cares? Everyone who endorsed Mr. Trump in the past owns him now; it’s far too late to get a refund. And voters should realize that voting for any Trump endorser is, in effect, a vote for Trumpism, whatever happens at the top of the ticket.

First of all, nobody who was paying attention can honestly claim to have learned anything new about Mr. Trump in the last few weeks. It was obvious from the beginning that he was a “con artist” — so declared Marco Rubio, who has nonetheless endorsed his candidacy. His racism and sexism were apparent from the beginning of his campaign; his vindictiveness and lack of self-discipline were on full display in his tirades against Judge Gonzalo Curiel and Khizr Khan.

So any politicians who try after the election to distance themselves from the Trump phenomenon — or even unendorse in these remaining few days — have already failed the character test. They knew who he was anche se l’Arancione all along, they knew that this was a man who should never, ever hold any kind of responsible position, let alone become president. Yet they refused to speak out against his candidacy as long as he had a chance of winning — that is, they supported him when it mattered, and only distanced themselves when it didn’t. That’s a huge moral failure, and deserves to be remembered as such.

Of course, we know why the great majority of Republican politicians supported Mr. Trump despite his evident awfulness: They feared retribution from the party’s base if they didn’t. But that’s not an excuse. On the contrary, it’s reason to trust these people even less. We already know that they lack any moral backbone, that they will do whatever it takes to guarantee their own political survival.

And what this means in practice is that they will remain Trumpists after the election, even if the Orange One himself vanishes from the scene.

After all, what we learned during the Republican primary was that the party’s base doesn’t care at all about what the party establishment says: Jeb Bush (remember him?), the initial insider choice, got nowhere despite a giant war chest, and Mr. Rubio, who succeeded him as the establishment favorite, did hardly better. Nor does the base care at all about supposed conservative principles like small government.

What Republican voters wanted, instead, were candidates who channeled their anger and fear, who demonized nonwhites and played into dark conspiracy theories. (Even establishment candidates did that — never forget that Mr. Rubio accused President Obama of deliberately hurting America.)

Just in case you had any doubts about that political reality, a Bloomberg poll recently asked Republicans whose view better matched their own view of what the party should stand for: Paul Ryan or Donald Trump. The answer was Mr. Trump, by a wide margin.

This lesson hasn’t been lost on Republican politicians. Even if Mr. Trump loses bigly, they’ll know that their personal fortunes will depend on maintaining an essentially Trumpist line. Otherwise they will face serious primary challenges and/or be at risk of losing future elections when base voters stay home.

So you can ignore all the efforts to portray Mr. Trump as a deviation from the G.O.P.’s true path: Trumpism is what the party is all about. Maybe they’ll find future standard-bearers with better impulse control and fewer personal skeletons in their closets, but the underlying nastiness is now part of Republican DNA.

And the immediate consequences will be very ugly. Assuming that Hillary Clinton wins, she will face an opposing party that demonizes her and denies her legitimacy no matter how large her margin of victory. It may be hard to think of any way Republicans could be even more obstructionist and destructive than they were during the Obama years, but they’ll find a way, believe me.

In fact, it’s likely to be so bad that America’s governability may hang in the balance. A Democratic recapture of the Senate would be a very big deal, but they are unlikely to take the House, thanks to the clustering of their voters. So how will basic business like budgeting get done? Some observers are already speculating about a regime in which the House is effectively run by Democrats in cooperation with a small rump of rational Republicans. Let’s hope so — but it’s no way to manage a great nation.

Still, it’s hard to see an alternative. For the modern G.O.P. is Mr. Trump’s party, with or without the man himself.

 

É il Partito di Trump, di Paul Krugman

New York Times 24 ottobre 2016

La campagna per le presidenziali sta entrando nelle sue settimane finali e, a meno che i sondaggi siano completamente sbagliati, Donald Trump ha una possibilità di vittoria molto piccola – solo il 7 per cento, secondo il modello Upshot [1] del Times. Nel frattempo il candidato continua con le sue affermazioni disgustose e gli analisti si stanno chiedendo se i repubblicani con possibilità così scarse alla fine ripudieranno il candidato del loro partito.

La risposta dovrebbe essere, a chi mai può interessare? Tutti coloro che hanno sostenuto Trump nel passato adesso l’hanno in carico; è ormai troppo tardi per avere un risarcimento. E gli elettori dovrebbero capire che votare per un qualsiasi sostenitore di Trump, in sostanza, è votare per il trumpismo, qualsiasi cosa accada in cima alla lista dei candidati.

Prima di tutto, chi prestava attenzione non può onestamente sostenere di avere imparato qualcosa di nuovo sul signor Trump nel corso delle ultime settimane. Era evidente sin dall’inizio che egli era un ‘genio della truffa’ – così dichiarò Marco Rubio, che nondimeno appoggiò la sua candidatura. Il suo razzismo e sessismo erano evidenti dall’inizio della sua campagna elettorale; il suo desiderio di rivalsa e la mancanza di auto disciplina furono ostentate nelle sue sparate contro il giudice Gonzalo Curiel e contro Khizr Khan [2].

Dunque, qualsiasi politico che cercasse dopo le elezioni di prendere le distanze dal fenomeno Trump – o persino, in questi pochi giorni che restano, che cercasse di ritirare il proprio appoggio – avrebbe già dato una pessima prova di carattere.  Sapevano da sempre chi fosse, sapevano che era un soggetto che non avrebbe mai tenuto una posizione responsabile, per non dire che non sarebbe mai diventato Presidente. Tuttavia si rifiutarono di parlare contro la sua candidatura finché aveva una possibilità di vittoria – ovvero, lo sostenevano quando aveva un peso e ne prenderebbero le distanze ora che la cosa è divenuta irrilevante. La qual cosa, sul piano morale, è un fallimento completo, e come tale merita di essere ricordata.

Ovviamente, noi sappiamo perché la grande maggioranza degli uomini politici repubblicani ha sostenuto Trump nonostante la sua evidente impresentabilità: avevano paura di essere castigati dalla base del loro partito se non l’avessero fatto. Ma questa non è una scusante. Al contrario, è una ragione per credere ancora meno in questi individui. Sappiamo già che difettano di spina dorsale, che farebbero qualsiasi cosa che serva per garantire la loro sopravvivenza politica.

E, in pratica, ciò che questo significa è che resteranno con Trump dopo le elezioni, anche se l’Arancione Numero Uno [3] stesso uscisse di scena.

Dopo tutto, quello che abbiamo compreso durante le primarie repubblicane è che la base del Partito non si cura affatto di quello che dice il gruppo dirigente: Jeb Bush (lo ricordate?), l’iniziale scelta degli addetti ai lavori, non è andato da nessuna parte nonostante giganteschi finanziamenti elettorali, e il signor Rubio, che gli succedette come il favorito del gruppo dirigente, non andò meglio. La base non si cura affatto neanche dei presunti principi conservatori, come quello della riduzione delle funzioni dello Stato.

Quello che, invece, volevano gli elettori repubblicani erano candidati che esprimessero la loro rabbia e le loro paure, che demonizzassero i non-bianchi e avvalorassero le cupe teorie della cospirazione (persino i candidati del gruppo dirigente si sono comportati in questo modo – non si dimentichi mai che Rubio accusò il Presidente Obama di danneggiare deliberatamente l’America).

Nel caso aveste ancora qualche dubbio su quella realtà politica, un sondaggio di Bloomberg ha recentemente chiesto ai repubblicani quale punto di vista corrispondesse meglio al loro su cosa dovrebbe sostenere il Partito: se quello di Paul Ryan o quello di Donald Trump. La risposta è stata quello di Trump, con ampio margine.

Gli uomini politici repubblicani tengono bene a mente questa lezione. Persino se Trump perdesse alla grande, essi saprebbero che le loro personali fortune dipendono dal mantenersi su una linea sostanzialmente trumpiana.  Altrimenti dovranno fronteggiare serie sfide alle primarie e/o essere al rischio di perdere elezioni future, quando gli elettori della base resteranno a casa.

Potete dunque ignorare tutti gli sforzi per dipingere Trump come una deviazione dal sentiero autentico del Partito Repubblicano: è nel Trumpismo che il Partito Repubblicano si risolve. Può darsi che nel futuro trovino migliori portabandiera, più capaci di controllare i propri impulsi e con meno scheletri negli armadi, ma la loro implicita nefandezza è adesso una parte del DNA repubblicano.

E le conseguenze immediate saranno pessime. Ammessa la vittoria della Clinton, ella dovrà far fronte ad un Partito di opposizione che la demonizzerà e negherà la sua legittimazione, a prescindere da quanto sarà ampio il margine della sua vittoria. Può darsi che sia difficile pensare a un qualche modo nel quale i repubblicani possano essere persino più ostruzionisti e distruttivi di quanto non siano stati durante gli anni di Obama, ma lo troveranno, credetemi.

Di fatto, è probabile che le cose diventino così negative che la governabilità dell’America resti in bilico. Una riconquista democratica del Senato sarebbe molto importante, ma per effetto del modo in cui gli elettori democratici sono raggruppati [4], è improbabile che essi si aggiudichino anche la Camera. Dunque, come si potranno governare aspetti fondamentali come le politiche di bilancio? Alcuni osservatori stanno già riflettendo su un regime nel quale la Camera sia effettivamente governata dai democratici in cooperazione con un gruppo superstite di repubblicani razionali. Speriamo che vada così – ma non è un modo per governare una grande nazione.

Eppure, è difficile vedere una alternativa. Perché il Partito Repubblicano odierno è il Partito di Trump, con lui o senza di lui.

 

 

[1] È una rubrica del giornale; significa “risultati, esiti”.

[2] Il primo è un giudice che è impegnato in alcune inchieste su Trump; il secondo è il padre di un militare americano di religione islamica deceduto, che protestò contro le dichiarazioni anti islamiche del candidato. Entrambi trattati da Trump in modo insultante.

[3] ‘Orange One’ è un ennesimo nomignolo che il candidato reazionario si sta guadagnando, a seguito di un abbondante dibattito sul colore della sua pelle. Che quando era più giovane non aveva quella intonazione arancione, ma ora ce l’ha, forse per effetto di una alimentazione particolare (troppe carote?), o forse per una frequenza troppo assidua di saloni abbronzanti.

[4] Ovvero, per effetto della loro concentrazione nelle aree urbane e dell’attuale disegno dei distretti elettorali, che potranno comportare una minoranza di eletti anche con una maggioranza di voti.

 

 

 

 

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