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Non è tempo per il fondamentalismo del commercio, di Dani Rodrik (da Project Syndicate, 14 ottobre 2016)

 

OCT 14, 2016

No Time for Trade Fundamentalism

DANI RODRIK

z 900

CAMBRIDGE – “One of the crucial challenges” of our era “is to maintain an open and expanding international trade system.” Unfortunately, “the liberal principles” of the world trade system “are under increasing attack.” “Protectionism has become increasingly prevalent.” “There is great danger that the system will break down … or that it will collapse in a grim replay of the 1930s.”

You would be excused for thinking that these lines are culled from one of the recent outpourings of concern in the business and financial media about the current backlash against globalization. In fact, they were written 35 years ago, in 1981.

The problem then was stagflation in the advanced countries. And it was Japan, rather than China, that was the trade bogeyman, stalking – and taking over – global markets. The United States and Europe had responded by erecting trade barriers and imposing “voluntary export restrictions” (VERs) on Japanese cars and steel. Talk about the creeping “new protectionism” was rife.

What took place subsequently would belie such pessimism about the trade regime. Instead of heading south, global trade exploded in the 1990s and 2000s, driven by the creation of the World Trade Organization, the proliferation of bilateral and regional trade and investment agreements, and the rise of China. A new age of globalization – in fact something more like hyper-globalization – was launched.

In hindsight, the “new protectionism” of the 1980s was not a radical break with the past. It was more a case of regime maintenance than regime disruption, as the political scientist John Ruggie has written. The import “safeguards” and VERs of the time were ad hoc, but they were necessary responses to the distributional and adjustment challenges posed by the emergence of new trade relationships.

The economists and trade specialists who cried wolf at the time were wrong. Had governments listened to their advice and not responded to their constituents, they would have possibly made things worse. What looked to contemporaries like damaging protectionism was in fact a way of letting off steam to prevent an excessive buildup of political pressure.

Are observers being similarly alarmist about today’s globalization backlash? The International Monetary Fund, among others, has recently warned that slow growth and populism might lead to an outbreak of protectionism. “It is vitally important to defend the prospects for increasing trade integration,’’ according to the IMF’s chief economist, Maurice Obstfeld.

So far, however, there are few signs that governments are moving decidedly away from an open economy. The website globaltradealert.org maintains a database of protectionist measures and is a frequent source for claims of creeping protectionism. Click on its interactive map of protectionist measures, and you will see an explosion of fireworks – red circles all over the globe. It looks alarming until you click on liberalizing measures and discover a comparable number of green circles.

The difference this time is that populist political forces seem much more powerful and closer to winning elections – partly a response to the advanced stage of globalization achieved since the 1980s. Not so long ago, it would have been unimaginable to contemplate a British exit from the European Union, or a Republican presidential candidate in the United States promising to renege on trade agreements, build a wall against Mexican immigrants, and punish companies that move offshore. The nation-state seems intent on reasserting itself.

But the lesson from the 1980s is that some reversal from hyper-globalization need not be a bad thing, as long as it serves to maintain a reasonably open world economy. As I have frequently argued, we need a better balance between national autonomy and globalization. In particular, we need to place the requirements of liberal democracy ahead of those of international trade and investment. Such a rebalancing would leave plenty of room for an open global economy; in fact, it would enable and sustain it.

What makes a populist like Donald Trump dangerous is not his specific proposals on trade. It is that they don’t add up to a coherent vision of how the US and an open world economy can prosper side by side (it is also of course the nativist, illiberal platform on which he is campaigning and would likely govern).

The key challenge facing mainstream political parties in the advanced economies today is to devise such a vision, along with a narrative that steals the populists’ thunder. These center-right and center-left parties should not be asked to save hyper-globalization at all costs. Trade advocates should be understanding if they adopt unorthodox policies to buy political support.

We should look instead at whether their policies are driven by a desire for equity and social inclusion, or by nativist and racist impulses; whether they want to enhance or weaken the rule of law and democratic deliberation; and whether they are trying to save the open world economy – albeit with different ground rules – rather than undermine it.

 

Non è tempo per il fondamentalismo del commercio,

di Dani Rodrik

CAMBRIDGE – “Una delle sfide cruciali” della nostra epoca “è mantenere un sistema commerciale internazionale aperto e in espansione”. Sfortunatamente, “i principi liberali” del sistema commerciale mondiale “sono sottoposti ad un attacco crescente”. “Il protezionismo è diventato sempre più prevalente”. “C’è un grande pericolo che il sistema si incrini …. oppure che collassi in una cupa riedizione degli anni ‘30”.

Se pensaste che queste frasi siano state estratte da uno dei recenti sfoghi di ansia sui media economici e finanziari sugli attuali contraccolpi alla globalizzazione, sareste scusabili. Di fatto, furono scritte 35 anni fa, nel 1981 [1].

Il problema nei paesi avanzati era allora la stagflazione. E lo spauracchio che perseguitava e subentrava nei mercati globali era il Giappone, anziché la Cina. Gli Stati Uniti avevano risposto erigendo barriere commerciali ed imponendo “restrizioni volontarie all’esportazione” (VER) sulle auto e sull’acciaio giapponese. Si parlava in modo dilagante dello strisciante “nuovo protezionismo”.

Quello che successivamente si affermò avrebbe smentito tale pessimismo sul regime commerciale. Invece di andare a monte, negli anni ’90 e 2000 il commercio globale esplose, guidato dalla creazione della Organizzazione del Commercio Mondiale, dalla proliferazione di accordi bilaterali e regionali sul commercio e gli investimenti, e dall’ascesa della Cina. Venne inaugurata una nuova epoca di globalizzazione – di fatto qualcosa di più simile ad una iper globalizzazione.

Con il senno di poi, il “nuovo protezionismo” degli anni ’80 non fu una rottura radicale col passato. Fu più un caso di mantenimento che di distruzione di un regime, come ha scritto il politologo John Ruggie. Le ‘salvaguardie’ all’importazione e le restrizioni volontarie all’esportazione di quel tempo furono risposte ad hoc, eppure necessarie per le sfide distributive e di adeguamento costituite dall’emergenza delle nuove relazioni commerciali.

Gli economisti e gli specialisti di commercio che in quel periodo gridavano al lupo, avevano torto. Se i Governi avessero ascoltato i loro consigli anziché rispondere ai loro elettori, probabilmente avrebbero reso le cose peggiori. Quello che ai contemporanei sembrò un protezionismo dannoso era di fatto un modo per lasciar scaricare ed impedire un accumulo eccessivo di pressione politica.

Sono parimenti allarmisti gli osservatori dei nostri giorni, a proposito del contraccolpo alla globalizzazione? Tra gli altri, il Fondo Monetario Internazionale ha di recente messo in guardia che la crescita lenta e il populismo potrebbero condurre ad uno scoppio di protezionismo. Secondo il capo economista del FMI Maurice Obstfeld, “è vitalmente importante difendere le prospettive di una crescente integrazione commerciale”.

Sino ad ora, tuttavia, ci sono pochi segni di un deciso allontanamento dei Governi da una economia aperta. Il sito web globaltradealert.org contiene un archivio dati sulle misure protezionistiche, ed è un fonte abituale per le tesi di uno strisciante protezionismo. Cliccate sulla mappa interattiva delle misure protezionistiche e vedrete una esplosione di fuochi d’artificio – circoli rossi su tutto il globo. Pare allarmante, sinché non cliccate sulle misure di liberalizzazione e non scoprite un numero paragonabile di tondini verdi.

La differenza questa volta è che le forze politiche populiste sembrano molto più potenti e vicine a vincere le elezioni – in parte come risposta ad uno stadio avanzato di globalizzazione che si è realizzato dagli anni ’80. Sino a non molto tempo fa, sarebbe stato inimmaginabile assistere ad una uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, o a un candidato repubblicano alla Presidenza negli Stati Uniti promettere di rinnegare gli accordi commerciali, di costruire un muro contro gli immigranti messicani e di penalizzare le società che si spostano all’estero. Lo Stato-Nazione sembra intenzionato a riaffermarsi.

Ma la lezione degli anni ’80 è che una qualche inversione dalla iper globalizzazione non è necessariamente una cosa negativa, finché serve a mantenere un’economia mondiale ragionevolmente aperta. Come ho frequentemente sostenuto, abbiamo bisogno di un migliore equilibrio tra autonomia e globalizzazione. In particolare, abbiamo bisogno di collocare le esigenze della democrazia liberale davanti a quelle sul commercio e sugli investimenti internazionali. Un tale riequilibrio lascerebbe una grande quantità di spazio per una economia globale aperta; nei fatti, la consentirebbe e la sosterrebbe.

Quello che rende un populista come Donald Trump pericoloso non sono le sue specifiche proposte sul commercio. È che esse non si aggiungono ad una visione coerente su come gli Stati Uniti e un’economia mondiale aperta possono prosperare fianco a fianco (ed anche, naturalmente, la piattaforma ‘nativista’ [2] e illiberale sulla quale sta conducendo la campagna elettorale e probabilmente governerebbe).

Oggi, la sfida fondamentale per i partiti tradizionali nelle economie avanzate è concepire una tale visione, assieme ad una narrazione che sottragga l’arma dei populisti. A questi partiti di centro-destra e di centro-sinistra non si dovrebbe chiedere di salvare a tutti i costi la iper globalizzazione. I sostenitori del commercio dovrebbero essere compresi se adottano politiche non ortodosse per ottenere sostegno politico.

Dovremmo piuttosto guardare se le loro politiche sono guidate da un desiderio di equità e di inclusione sociale, oppure da impulsi nativisti e razzisti; se vogliono rafforzare o indebolire il ruolo delle leggi e delle scelte democratiche; e se stanno cercando di salvare l’economia aperta del mondo – sebbene con diverse regole di base – anziché distruggerla.

 

 

[1] Le frasi provengono da uno studio della primavera del 1981 di Carl J. Green, pubblicato sul Northwestern Journal of International Law & Business.

[2] Ovvero, sostanzialmente razzista verso tutti coloro che non sono nati negli Stati Uniti; o meglio, che non sono bianchi come i primi coloni.

 

 

 

 

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