OCTOBER 11, 2016 8:35
The much-hyped severe Brexit recession does not, so far, seem to be materializing – which really shouldn’t be that much of a surprise, because as I warned, the actual economic case for such a recession was surprisingly weak. (Ouch! I just pulled a muscle while patting myself on the back!) But we are seeing a large drop in the pound, which has steepened as it becomes likely that this will indeed be a very hard Brexit. How should we think about this?
Originally, stories about a pound plunge were tied to that recession prediction: domestic investment demand would collapse, leading to sustained very low interest rates, hence capital flight. But the demand collapse doesn’t seem to be happening. So what is the story?
For now, at least, I’m coming at it from the trade side – especially trade in financial services. It seems to me that one way to think about this is in terms of the “home market effect,” an old story in trade but one that only got formalized in 1980.
Here’s an informal version: imagine a good or service subject to large economies of scale in production, sufficient that if it’s consumed in two countries, you want to produce it in only one, and export to the other, even if there are costs of shipping it. Where will this production be located? Other things equal, you would choose the larger market, so as to minimize total shipping costs. Other things may not, of course, be equal, but this market-size effect will always be a factor, depending on how high those shipping costs are.
In one of the models I laid out in that old paper, the way this worked out was not that all production left the smaller economy, but rather that the smaller economy paid lower wages and therefore made up in competitiveness what it lacked in market access. In effect, it used a weaker currency to make up for its smaller market.
In Britain’s case, I’d suggest that we think of financial services as the industry in question. Such services are subject to both internal and external economies of scale, which tends to concentrate them in a handful of huge financial centers around the world, one of which is, of course, the City of London. But now we face the prospect of seriously increased transaction costs between Britain and the rest of Europe, which creates an incentive to move those services away from the smaller economy (Britain) and into the larger (Europe). Britain therefore needs a weaker currency to offset this adverse impact.
Does this make Britain poorer? Yes. It’s not just the efficiency effect of barriers to trade, there’s also a terms-of-trade effect as the real exchange rate depreciates.
But it’s important to be aware that not everyone in Britain is equally affected. Pre-Brexit, Britain was obviously experiencing a version of the so-called Dutch disease. In its traditional form, this referred to the way natural resource exports crowd out manufacturing by keeping the currency strong. In the UK case, the City’s financial exports play the same role. So their weakening helps British manufacturing – and, maybe, the incomes of people who live far from the City and still depend directly or indirectly on manufacturing for their incomes. It’s not completely incidental that these were the parts of England (not Scotland!) that voted for Brexit.
Is there a policy moral here? Basically it is that a weaker pound shouldn’t be viewed as an additional cost from Brexit, it’s just part of the adjustment. And it would be a big mistake to prop up the pound: old notions of an equilibrium exchange rate no longer apply.
Note sulla Brexit e sulla sterlina
La molto strombazzata grave recessione della Brexit, sinora, non sembra materializzarsi – la qual cosa non dovrebbe essere una gran sorpresa, giacché, come avevo messo in guardia, gli effettivi argomenti economici a favore di una recessione erano sorprendentemente deboli (Ahia! Mi si è appena stirato un muscolo nel darmi una pacca sulla spalla!). Ma stiamo assistendo ad una ampia caduta della sterlina, che è in discesa come se diventasse probabile che la Brexit sia destinata ad avere effetti molto seri. Cosa ne dovremmo pensare?
All’origine, i racconti su un crollo della sterlina erano collegati a quella previsione di recessione: la domanda di investimenti interni sarebbe collassata, portando a prolungati tassi di interesse molto bassi, dal che una fuga di capitali. Ma non sembra in atto alcun collasso della domanda. Di che storia si tratta, dunque?
Almeno per adesso, il mio approccio alla questione è dal lato del commercio – in particolare degli scambi nei servizi finanziari. Mi sembra che un modo per ragionarne sia nei termini dell’ “effetto del mercato interno”, una vecchia tesi in materia di commercio, che però venne formalizzata soltanto nel 1980 [1].
Ecco una versione semplificata: si immagini un bene o un servizio soggetto a larghe economie di scala nella produzione, tali che se esso viene consumato in due paesi, si preferisce produrlo in uno soltanto, ed esportarlo nell’altro, pur essendoci i costi della spedizione. Dove sarà collocata questa produzione? A parità degli altri fattori, si sceglierà il mercato più ampio, in modo da minimizzare i costi di spedizione complessivi. Naturalmente, gli altri fattori possono non essere uguali, ma questo effetto delle dimensioni di un mercato sarà sempre un fattore, dipendente da quanto i costi di spedizione sono elevati.
In uno di questi modelli che predisposi in quel vecchio articolo, il modo in cui tutto questo funzionava non era che tutta la produzione lasciava l’economia più piccola, ma piuttosto che l’economia più piccola pagava salari più bassi e di conseguenza metteva assieme quanto a competitività quello di cui difettava nell’accesso al mercato. In sostanza, utilizzava una valuta più debole per compensare il suo mercato più debole.
Nel caso dell’Inghilterra, direi che possiamo pensare ai servizi finanziari come all’industria in questione. Tali servizi sono soggetti ad economie di scala sia interne che esterne, la qual cosa tende a concentrarle in una manciata di grandi centri finanziari sparsi nel mondo, uno dei quali, ovviamente, è la City di Londra. Ma adesso ci troviamo di fronte alla prospettiva di costi di transazione tra l’Inghilterra e il resto dell’Europa in seria crescita, la qual cosa crea un incentivo a spostare ad allontanare questi servizi dall’economia più piccola (Regno Unito), verso quella più grande (Europa). Di conseguenza l’Inghilterra ha bisogno di una valuta più debole per bilanciare questo impatto negativo.
Questo rende l’Inghilterra più povera? Sì. Non si tratta solo dell’effetto dell’efficacia delle barriere commerciali, c’è anche l’effetto dei termini di scambio quando il tasso di cambio reale si svaluta.
Ma è importante essere consapevoli che non tutto in Inghilterra ne viene influenzato nello stesso modo. Prima della Brexit, l’Inghilterra stava evidentemente facendo i conti con una versione della cosiddetta ‘malattia olandese’ [2]. Nella sua forma tradizionale, questo si riferiva al modo in cui l’esportazione di risorse naturali spiazza il settore manifatturiero tenendo forte la valuta. Nel caso del Regno Unito, le esportazioni finanziarie della City giocano lo stesso ruolo. In tal modo il loro indebolimento aiuta il settore manifatturiero britannico – e forse i redditi delle persone che vivono lontane dalla City e dipendono ancora, direttamente o indirettamente, dal settore manifatturiero per i loro redditi. Non è del tutto accidentale che queste siano state le parti dell’Inghilterra (non la Scozia!) che hanno votato a favore della Brexit.
C’è una morale politica in questo? Fondamentalmente essa è che una sterlina più debole non dovrebbe essere considerata come un costo aggiuntivo derivante dalla Brexit, essa è solo una parte della correzione. E sarebbe un grande errore sostenere la sterlina: i vecchi concetti del tasso di cambio in equilibrio non si applicano più.
[1] Nel 1980 venne pubblicato un articolo dello stesso Krugman, secondo il quale l’ “effetto del mercato interno” deriva da modelli sui ‘rendimenti di scala’ e sui costi di trasporto. Quando è più economico per un’industria operare in un singolo paese, a causa dei rendimenti di scala, essa sceglierà come base quel paese nel quale la maggioranza dei suoi prodotti sono consumati, allo scopo di minimizzare i costi di trasporto. La tesi sull’ “effetto del mercato interno” comporta una connessione tra le dimensioni di un mercato e le esportazioni che non era considerata nei modelli basati unicamente sul vantaggio comparativo di ricardiana memoria. (Wikipedia)
[2] Il termine ‘malattia olandese’ indica in economia quel fenomeno per il quale la forza di un settore economico – ad esempio collegato con le risorse naturali – indebolisce altri settori, come il manifatturiero o l’agricolo, per effetto di un rafforzamento della valuta. La connessione nel testo inglese è con un interessante articolo di Ambrose Evans-Pritchard su The Telegraph che mostra, attraverso una intervista all’economista Ashoka Mody, come il settore bancario inglese avesse prodotto un effetto di rafforzamento della sterlina negli anni passati, con gravi conseguenze per il settore manifatturiero britannico.
By mm
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