DEC 26 12:26 PM
Analytics of Trade Deficits and Manufacturing Employment (Very Wonkish)
Serious critiques of one’s work can be thought-provoking, even when they mostly miss the point. So it is with this recent critique of my trade-and-jobs analysis by Tim Worstall. Worstall seems strangely unable to grasp that what EPI, Dean Baker, and yours truly are doing isn’t an analysis of the effects of trade deficits on overall employment, and even suggests that we are engaged in some kind of fallacy when asserting that trade deficits reduce manufacturing jobs. Hello — we’re talking about the sectoral mix of employment, about having fewer manufacturing and more service jobs.
Still, the critique inspired me to get a bit more formal about the analytics, and there is a small clarification I think I should make.
So here’s how I think about it (which is actually a fairly standard trade model approach): approximate the economy as consisting of two sectors, traded and nontraded, with traded goods being basically manufacturing. Assume full employment for the sake of argument; then production is always on the production possibility frontier, which is the downward-sloping line in the figure.
With balanced trade, production = consumption (plus investment, but lump them together); that’s point A. When the economy runs a trade deficit, however financed, consumption lies outside the PPF, at a point like B; this point normally involves moving out an expansion path along which consumption of both nontraded and traded goods rises. However, the increase in nontraded consumption must be met out of domestic production, which means that traded production falls.
So a trade deficit in manufacturing does correspond to a fall in manufacturing production.
Now, one slight twist is that because a trade deficit also corresponds to a rise in overall spending, part of that trade deficit reflects increased consumption of manufactures rather than reduced production; you can see this in the figure, where the fall in traded production is smaller than the deficit. Quantitatively, however, this effect should be fairly small, since value-added in manufacturing is less than 12 percent of GDP.
Bottom line: yes, trade deficits reduce manufacturing production and jobs. They played a significant although far from dominant role in manufacturing job losses after 2000.
Analitica dei deficit commerciali e dell’occupazione manifatturiera (per molto esperti)
Le critiche serie di un lavoro possono stimolare il pensiero, anche quando in buona parte ad esse sfugge la sostanza. È così nel caso della critica da parte di Tim Worstall [1] della mia recente analisi su commercio e i posti di lavoro. Stranamente Worstall sembra sia incapace di afferrare che l’analisi che l’Economic Policy Institute, Dean Baker e il sottoscritto stanno facendo non è un’analisi degli effetti dei deficit commerciali sull’occupazione complessiva, ed arriva a suggerire che saremmo caduti in una specie di equivoco asserendo che i deficit commerciali riducono i posti di lavoro manifatturieri. Tanti saluti – noi stiamo parlando del mix settoriale dell’occupazione, dell’avere minori posti di lavoro manifatturieri e maggiori posti di lavoro nei servizi.
Eppure, la critica mi ha sollecitato a raggiungere una analitica un po’ più formale, e c’è una piccola chiarificazione che penso dovrei avanzare.
Ecco dunque come io ragiono su questo tema (che effettivamente è un approccio abbastanza comune al modello del commercio): ci si riferisce in generale all’economia come consistente in due settori, quello che è oggetto di commerci (internazionali) e quello che non lo è, con i prodotti destinati al commercio che sono fondamentalmente manifatturieri. Per ipotesi si assumono condizioni di piena occupazione; inoltre la produzione è sempre entro il limite della possibilità di produzione [2], il che è rappresentato dalla linea che nella figura inclina verso il basso.
Questo è il punto A, nel caso di un commercio in equilibrio, di una produzione eguale ai consumi (più gli investimenti, ma teniamoli assieme). Quando l’economia gestisce un deficit commerciale, pur tuttavia finanziato, i consumi si collocano fuori del limite della possibilità di produzione, nella figura rappresentato col punto B; questo punto normalmente comporta lo spostarsi del percorso di espansione, lungo il quale cresce il consumo sia dei beni commerciati che di quelli non commerciati. Tuttavia l’incremento dei consumi non commerciati può collocarsi fuori della produzione interna, il che comporta che la produzione commerciata diminuisce.
Dunque, un deficit commerciale nel settore manifatturiero corrisponde davvero ad una caduta della produzione manifatturiera.
Ora, una leggera distorsione si determina perché il deficit commerciale corrisponde anche ad una crescita della spesa complessiva, parte di quel deficit commerciale riflette un incremento di consumi delle manifatture anziché una produzione ridotta: lo potete vedere nella figura, dove la caduta nella produzione dei beni per il commercio è più piccola del deficit [3]. Quantitativamente, tuttavia, questo effetto dovrebbe essere abbastanza modesto, dal momento che il valore aggiunto nel settore manifatturiero è inferiore al 12 per cento del PIL.
Morale della favola: è vero, i deficit commerciali riducono la produzione manifatturiera e i posti di lavoro (in quel settore). Essi giocano un ruolo significativo, sebbene non dominante, nella perdita dei posti di lavoro manifatturieri dopo il 2000.
[1] Tim Worstall è un giornalista americano che ha scritto un breve post su Forbes, avanzando critiche sul breve studio di Krugman, qua tradotto con il titolo: “Commercio ed occupazione manifatturiera: nessuna reale divergenza”, 4 dicembre 2016.
[2] Per “production-possibility frontier” si dovrebbe intendere un grafico che mostra le differenti quantità di due beni che un’economia potrebbe efficientemente produrre con limitate risorse produttive.
Successivamente è indicato nel testo inglese con l’acronimo PPF.
[3] Nella figura, l’entità della riduzione della produzione di beni per il commercio è indicata dalla parentesi graffa in basso, che come si vede è inferiore all’entità del deficit commerciale indicato dalla parentesi graffa in corrispondenza del punto B.
By mm
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