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Come finiscono le repubbliche, di Paul Krugman (New York Times 19 dicembre 2016)

 

How Republics End

Paul Krugman DEC. 19, 2016

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Many people are reacting to the rise of Trumpism and nativist movements in Europe by reading history — specifically, the history of the 1930s. And they are right to do so. It takes willful blindness not to see the parallels between the rise of fascism and our current political nightmare.

But the ’30s isn’t the only era with lessons to teach us. Lately I’ve been reading a lot about the ancient world. Initially, I have to admit, I was doing it for entertainment and as a refuge from news that gets worse with each passing day. But I couldn’t help noticing the contemporary resonances of some Roman history — specifically, the tale of how the Roman Republic fell.

Here’s what I learned: Republican institutions don’t protect against tyranny when powerful people start defying political norms. And tyranny, when it comes, can flourish even while maintaining a republican facade.

On the first point: Roman politics involved fierce competition among ambitious men. But for centuries that competition was constrained by some seemingly unbreakable rules. Here’s what Adrian Goldsworthy’s “In the Name of Rome” says: “However important it was for an individual to win fame and add to his and his family’s reputation, this should always be subordinated to the good of the Republic … no disappointed Roman politician sought the aid of a foreign power.”

America used to be like that, with prominent senators declaring that we must stop “partisan politics at the water’s edge.” But now we have a president-elect who openly asked Russia to help smear his opponent, and all indications are that the bulk of his party was and is just fine with that. (A new poll shows that Republican approval of Vladimir Putin has surged even though — or, more likely, precisely because — it has become clear that Russian intervention played an important role in the U.S. election.) Winning domestic political struggles is all that matters, the good of the republic be damned.

And what happens to the republic as a result? Famously, on paper the transformation of Rome from republic to empire never happened. Officially, imperial Rome was still ruled by a Senate that just happened to defer to the emperor, whose title originally just meant “commander,” on everything that mattered. We may not go down exactly the same route — although are we even sure of that? — but the process of destroying democratic substance while preserving forms is already underway.

Consider what just happened in North Carolina. The voters made a clear choice, electing a Democratic governor. The Republican legislature didn’t openly overturn the result — not this time, anyway — but it effectively stripped the governor’s office of power, ensuring that the will of the voters wouldn’t actually matter.

Combine this sort of thing with continuing efforts to disenfranchise or at least discourage voting by minority groups, and you have the potential making of a de facto one-party state: one that maintains the fiction of democracy, but has rigged the game so that the other side can never win.

Why is this happening? I’m not asking why white working-class voters support politicians whose policies will hurt them — I’ll be coming back to that issue in future columns. My question, instead, is why one party’s politicians and officials no longer seem to care about what we used to think were essential American values. And let’s be clear: This is a Republican story, not a case of “both sides do it.”

So what’s driving this story? I don’t think it’s truly ideological. Supposedly free-market politicians are already discovering that crony capitalism is fine as long as it involves the right cronies. It does have to do with class warfare — redistribution from the poor and the middle class to the wealthy is a consistent theme of all modern Republican policies. But what directly drives the attack on democracy, I’d argue, is simple careerism on the part of people who are apparatchiks within a system insulated from outside pressures by gerrymandered districts, unshakable partisan loyalty, and lots and lots of plutocratic financial support.

For such people, toeing the party line and defending the party’s rule are all that matters. And if they sometimes seem consumed with rage at anyone who challenges their actions, well, that’s how hacks always respond when called on their hackery.

One thing all of this makes clear is that the sickness of American politics didn’t begin with Donald Trump, any more than the sickness of the Roman Republic began with Caesar. The erosion of democratic foundations has been underway for decades, and there’s no guarantee that we will ever be able to recover.

But if there is any hope of redemption, it will have to begin with a clear recognition of how bad things are. American democracy is very much on the edge.

 

Come finiscono le repubbliche, di Paul Krugman

New York Times 19 dicembre 2016

Molte persone, in Europa, stanno reagendo all’ascesa del trumpismo e dei movimenti basati sul primato delle popolazioni indigene rileggendo la storia – in particolare la storia degli anni ’30. Ed hanno ragione di farlo. Occorre un cieco ottimismo per non vedere i paralleli tra la nascita del fascismo e il nostro attuale incubo politico.

Ma gli anni ’30 non sono l’unica epoca che ci offre lezioni. Di recente, sto leggendo molto sul mondo antico. All’inizio, devo ammetterlo, lo facevo come passatempo e come un rifugio dalle notizie che diventano sempre peggiori ogni giorno che passa. Ma non potevo fare a meno di notare le somiglianze odierne con aspetti della storia romana – in particolare, con la storia del crollo della Repubblica Romana.

Ecco cosa ho imparato: le istituzioni repubblicane non si salvaguardano dalla tirannia quando persone potenti cominciano a sfidare le regole della politica.  E la tirannia, quando arriva, può prosperare anche mantenendo una facciata repubblicana.

Sul primo punto: la politica romana consisteva in una feroce competizione tra individui ambiziosi. Ma per secoli tale competizione fu limitata da regole apparentemente indistruttibili. Ecco quello che scrive Adrian Goldsworthy ne “Nel nome di Roma”: “Per quanto fosse importante per un individuo ottenere fama e aggiungerla alla reputazione propria e della sua gente, questo doveva essere subordinato al bene della Repubblica … nessun amareggiato uomo politico romano avrebbe cercato l’aiuto di una potenza straniera.”

L’America era simile, con eminenti Senatori che dichiaravano che dobbiamo fermare “le politiche di parte sull’orlo degli Oceani”. Ma adesso abbiamo un Presidente eletto che ha chiesto apertamente alla Russia di aiutarlo a imbrattare il suo avversario, e tutte le indicazioni mostrano che il grosso del suo Partito era ed è d’accordo con questo (un nuovo sondaggio mostra che l’approvazione dei repubblicani verso Vladimir Putin è salita anche se – o, più probabilmente, precisamente perché – è diventato chiaro che l’intervento russo ha giocato un ruolo importante nelle elezioni degli Stati Uniti). Vincere le battaglie politiche interne è quello che conta, il bene della Repubblica può andare a farsi benedire.

E di conseguenza cosa accade alla Repubblica? È noto che, sulla carta, la trasformazione di Roma da Repubblica a Impero non avvenne mai. Ufficialmente, Roma imperiale fu ancora governata da un Senato che semplicemente e quasi impercettibilmente trasferì, su ogni cosa che aveva importanza, il potere all’Imperatore, il cui titolo originariamente significava soltanto “Comandante”. Possiamo non seguire esattamente lo stesso indirizzo – ma ne siamo certi? – eppure il processo di distruggere la sostanza democratica mantenendone le forme è già in atto.

Si consideri cosa è appena accaduto nel Nord Carolina. Eleggendo un Governatore democratico, gli elettori hanno fatto una scelta chiara. I legislatori repubblicani non hanno apertamente rovesciato il risultato – non sinora, in ogni modo – ma in sostanza hanno spogliato la carica di Governatore del potere, facendo in modo che la volontà degli elettori in pratica non contasse.

Mettete assieme una cosa del genere con gli sforzi incessanti per togliere il diritto di voto o almeno scoraggiare i gruppi delle minoranze etniche, ed avrete di fatto la potenziale costruzione dello Stato di un solo Partito: qualcosa che mantiene l’apparenza di una democrazia, ma che ha manipolato il gioco in modo tale che l’altro schieramento non possa mai vincere.

Cosa sta accadendo? Non sto chiedendo perché gli elettori bianchi della classe lavoratrice abbiano sostenuto individui le cui politiche li danneggeranno – tornerò su questo tema in articoli successivi. La mia domanda, invece, è perché gli uomini politici e i dirigenti di un partito non sembrano preoccuparsi più di quelli che sembrava fossero essenziali valori americani. E diciamolo chiaramente: questa è una vicenda repubblicana, non è un argomento che possa valere per entrambi gli schieramenti.

Dunque, cosa sta determinando una storia del genere? Non penso che sia una motivazione realmente ideologica. Uomini politici che si pensava fossero sostenitori del libero mercato stanno già scoprendo che il capitalismo clientelare va bene finché riguarda gli amici giusti [1]. Deve avere a che fare con la guerra delle classi – la redistribuzione dai poveri e dalla classe media ai ricchi è un tema costante di tutte le moderne politiche repubblicane. Ma quello che guida direttamente l’attacco alla democrazia, direi, è il semplice carrierismo da parte di persone di apparato all’interno di un sistema isolato dalle pressioni esterne da distretti elettorali disegnati ad arte, di una irremovibile fedeltà faziosa, e di grandi quantità di sostegno finanziario da parte di gente molto ricca.

Per tali persone, seguire la linea del Partito e difendere le regole del Partito è quello che conta. E se talvolta sembrano ossessionati dalla rabbia verso chiunque sfidi le loro azioni, ebbene, quello è il modo in cui i falchi reagiscono sempre quando viene messo in discussione il loro estremismo.

Di tutto questo una cosa è chiara: la malattia della politica americana non è cominciata con Donald Trump, non più della malattia della Repubblica Romana che non cominciò con Cesare. L’erosione dei fondamenti democratici è stata sotto traccia per decenni, e non c’è alcuna garanzia che saremo mai capaci di riprenderci.

Ma se c’è una qualche speranza di salvezza, essa dovrà prendere le mosse da un chiaro riconoscimento di come le cose siano messe male. La democrazia americana è davvero seriamente sull’orlo di un precipizio.

 

 

[1] Il riferimento è ad un articolo apparso su Quartz, che illumina alcuni episodi che mostrano il crescente scetticismo repubblicano sulle ideologie particolarmente care a Reagan dei liberi mercati. Oggi pare che facilitare le imprese amiche sia spesso più conveniente, al punto che il Vice Presidente Mike Pence ha dichiarato, in un’intervista al New York Times: “Il libero mercato si sta ristrutturando, e l’America sta perdendo”.

 

 

 

 

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