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Commercio e occupazione manifatturiera: nessuna reale divergenza, di Paul Krugman (dal blog di Krugman, 4 dicembre 2016)

 

Trade and Manufacturing Employment: No Real Disagreement

Paul Krugman 12/4/16

 

America used to be a nation where a lot of people worked in manufacturing. Today, we basically work in office parks and services. But people aren’t reconciled to the change; and 🍌 (I’m using that symbol for the man who will use the Oval Office to turn us into a banana republic) is promising to bring the jobs back by punishing companies who move jobs abroad.

Most economists will tell you that this is completely unrealistic. But in conversations with various fairly sophisticated people, I’ve realized that there’s a widespread impression of major disagreement within the field. The notion – fed, it has to be said, by some misleading statements by economists themselves – seems to be that new work on the impacts of trade refutes the notion that the decline of manufacturing is basically about productivity.

So I’ve been sitting down with recent work, and realized that there’s actually very little disagreement about either the facts or the counterfactuals – that is, what might have happened with different trade policies. What looks like disagreement is actually a difference in the questions being asked; once you take that into account, there’s more or less a consensus about the historical record.

Basically, it comes down to which of these two questions you’re trying to answer:

  1. How much of a role did trade play in the long-term decline in the manufacturing share of total employment, which fell from around a quarter of the work force in 1970 to 9 percent in 2015? The answer is, something, but not much.
  2. How much of a role did trade play in the absolute decline in manufacturing employment, down about 5 million since 2000? Here the role is bigger, basically because you’re comparing the same effect with a much smaller denominator; even so, trade is less than half the story, but by no means trivial.

Start with a chart showing two versions of the decline of manufacturing:
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The blue line, left scale, shows the manufacturing share of the total, which has been falling steadily since the 1950s. The red line, right scale, shows absolute employment, which was roughly stable from 1970 to 2000, because it was a smaller share of a larger total, but began a major decline thereafter.

So what’s the overall role of trade in all of this? Via EPI [http://www.epi.org/publication/manufacturing-job-loss-trade-not-productivity-is-the-culprit/], below is the manufacturing trade deficit as a share of GDP, around 3 percent in recent years, roughly twice what it was in the mid-1990s. That is a subtraction from the demand for U.S.-produced manufactured goods, although not all of it represents a subtraction from value-added – some of it comes out of service inputs instead. Absent that trade deficit, U.S. manufacturing would probably be about 2 percent of GDP higher, and the manufacturing share of employment would also be about 2 percentage points higher.

Or to put it another way, absent the trade deficit manufacturing would be maybe a fifth bigger than it is – which is actually what EPI estimates too (Exhibit D in the linked paper). That wouldn’t make much difference to the long-run downward trend, but looms larger relative to the absolute decline since 2000.

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But what about the now-famous Autor-Dorn-Hanson paper on the “China shock”? http://www.ddorn.net/papers/Autor-Dorn-Hanson-ChinaShock.pdf It’s actually consistent with these numbers. Autor et al only estimate the effects of the, um, China shock, which they suggest led to the loss of 985,000 manufacturing jobs between 1999 and 2011. That’s less than a fifth of the absolute loss of manufacturing jobs over that period, and a quite small share of the long-term manufacturing decline.

I’m not saying that the effects were trivial: Autor and co-Autors show that the adverse effects on regional economies were large and long-lasting. But there’s no contradiction between that result and the general assertion that America’s shift away from manufacturing doesn’t have much to do with trade, and even less to do with trade policy.

 

Commercio e occupazione manifatturiera: nessuna reale divergenza, di Paul Krugman

L’America era abituata ad essere una nazione nella quale una grande quantità di persone lavoravano nel settore manifatturiero. Oggi, fondamentalmente lavoriamo nei complessi per uffici e nei servizi. Ma le persone non si sono adattate al cambiamento: e 🍌 (utilizzo il simbolo della banana per l’individuo che userà l’Ufficio Ovale per trasformarci in una Repubblica delle banane) sta promettendo di restituirci i posti di lavoro punendo le società che li spostano all’estero.

La maggioranza degli economisti vi dirà che ciò è completamente irrealistico. Ma in conversazioni con varie persone abbastanza sofisticate, ho compreso che c’è una impressione generale di un importante disaccordo all’interno della disciplina. Il concetto – alimentato, va detto, da alcuni fuorvianti pronunciamenti degli economisti stessi – sembra essere che nuove ricerche sugli impatti del commercio confutino l’idea che il declino del settore manifatturiero dipenda fondamentalmente dalla produttività.

Mi sono dunque confrontato con le recenti ricerche, e ho compreso che effettivamente ci sono poche divergenze sia sui fatti che sulle ipotesi basate su storie ipotetiche – vale a dire, cosa sarebbe potuto accadere con diverse politiche del commercio. Quella che sembra una divergenza è in realtà una differenza nelle domande che vengono avanzate; una volta che mettiate questo nel conto, c’è più o meno un consenso sugli andamenti storici.

Fondamentalmente, ciò deriva da quale tra queste due domande si sta cercando di rispondere:

1 – Quanta parte ha giocato il commercio nel declino nel lungo termine della quota del settore manifatturiero sul totale dell’occupazione, che è caduta da circa un quarto della forza lavoro nel 1970 al 9 per cento del 2015? La risposta è un po’, ma non molto.

2 – Quanta parte ha giocato il commercio nel declino assoluto della occupazione manifatturiera, calata di 5 milioni a partire dal 2000? In questo caso si tratta di una parte maggiore, fondamentalmente perché si sta confrontando lo stesso effetto con un denominatore molto più piccolo; persino così il commercio è meno della metà della storia, anche se non è affatto banale.

Cominciamo con una tabella che mostra le due versioni del declino manifatturiero:

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La linea blu, misure sulla sinistra [1], mostra la quota manifatturiera sul totale dell’occupazione, che è venuta diminuendo regolarmente dagli anni ’50. La linea rossa, misure sulla destra, mostra l’occupazione in termini assoluti, che è rimasta grosso modo stabile dal 1970 al 2000, perché rappresentava una quota più piccola di un totale più ampio, ma conobbe in seguito un importante declino.

Quale è dunque in tutto questo il ruolo del commercio? Nella tabella in basso, fonte EPI [2] [http://www.epi.org/publication/manufacturing-job-loss-trade-not-productivity-is-the-culprit/] compare il deficit commerciale manifatturiero, circa il 3 per cento negli anni recenti, all’incirca il doppio di quello che era alla metà degli anni ’90. Si tratta di una sottrazione dalla domanda di beni manifatturieri prodotti negli Stati Uniti, sebbene non tutto di esso rappresenti una sottrazione dal valore aggiunto – una parte di esso deriva piuttosto dal contributo dei servizi. Senza quel deficit commerciale, il settore manifatturiero statunitense sarebbe probabilmente più alto di circa il 2 per cento del PIL, ed anche la quota di occupazione del settore manifatturiero sarebbe più alta di circa 2 punti percentuali.

Oppure, per dirla diversamente, senza il deficit commerciale il settore manifatturiero sarebbe forse più grande di un quinto di quello che è –  che è effettivamente quello che anche l’EPI stima (reperto D nello studio in connessione). Ciò non farebbe molta differenza sulla tendenza al declino nel lungo periodo, ma in relazione al calo in cifre assolute a partire dal 2000 si profila più ampio.

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Ma che dire dello studio oggi alla ribalta di Autor– Dorn–Hanson sullo ‘shock cinese’ [http://www.ddorn.net/papers/Autor-Dorn-Hanson-ChinaShock.pdf]? Per la verità, esso è coerente con questi numeri. Autor e gli altri effettivamente stimano soltanto gli effetti, appunto, dello shock cinese, che secondo le loro stime ha portato ad una perdita di 985 mila posti di lavoro tra il 1999 e il 2011. Questo è meno di un quinto della perdita in cifre assolute di posti di lavoro nel manifatturiero in quel periodo, ed una quota abbastanza piccola del declino manifatturiero nel lungo termine.

Non sto dicendo che gli effetti siano stati banali: Autor e gli altri autori mostrano che gli effetti negativi sulle economie regionali sono stati ampi e di lunga durata. Ma non c’è contraddizione tra quel risultato e il giudizio generale secondo il quale l’allontanamento dell’America dal manifatturiero non ha molto a che fare con il commercio, e meno ancora con la politica commerciale.

 

 

[1] A sinistra della tabella ci sono le misure relative all’occupazione totale nel settore manifatturiero, divise per l’occupazione totale, espresse entrambe in migliaia di persone (ovvero, gli organici totali nel settore non agricolo). A destra, valide per la linea rossa, ci sono le misure assolute nel settore manifatturiero.

[2] EPI sta per Economic Policy Institute, un centro di ricerca di orientamento liberal che dovrebbe avere qualche forma di collegamento con il mondo sindacale americano. Lo studio al quale ci di riferisce nella successiva connessione è a cura di Robert E. Scott.

 

 

 

 

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