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Costruire un muro di ignoranza, di Paul Krugman (New York Times 30 gennaio 2017)

 

Building a Wall of Ignorance

Paul Krugman JAN. 30, 2017

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We’re just over a week into the Trump-Putin regime, and it’s already getting hard to keep track of the disasters. Remember the president’s temper tantrum over his embarrassingly small inauguration crowd? It already seems like ancient history.

But I want to hold on, just for a minute, to the story that dominated the news on Thursday, before it was, er, trumped by the uproar over the refugee ban. As you may recall — or maybe you don’t, with the crazy coming so thick and fast — the White House first seemed to say that it would impose a 20 percent tariff on Mexico, but may have been talking about a tax plan, proposed by Republicans in the House, that would do no such thing; then said that it was just an idea; then dropped the subject, at least for now.

For sheer viciousness, loose talk about tariffs isn’t going to match slamming the door on refugees, on Holocaust Remembrance Day, no less. But the tariff tale nonetheless epitomizes the pattern we’re already seeing in this shambolic administration — a pattern of dysfunction, ignorance, incompetence, and betrayal of trust.

The story seems, like so much that’s happened lately, to have started with President Trump’s insecure ego: People were making fun of him because Mexico will not, as he promised during the campaign, pay for that useless wall along the border. So his spokesman, Sean Spicer, went out and declared that a border tax on Mexican products would, in fact, pay for the wall. So there!

As economists quickly pointed out, however, tariffs aren’t paid by the exporter. With some minor qualifications, basically they’re paid for by the buyers — that is, a tariff on Mexican goods would be a tax on U.S. consumers. America, not Mexico, would therefore end up paying for the wall.

Oops. But that wasn’t the only problem. America is part of a system of agreements — a system we built — that sets rules for trade policy, and one of the key rules is that you can’t just unilaterally hike tariffs that were reduced in previous negotiations.

If America were to casually break that rule, the consequences would be severe. The risk wouldn’t so much be one of retaliation — although that, too — as of emulation: If we treat the rules with contempt, so will everyone else. The whole trading system would start to unravel, with hugely disruptive effects everywhere, very much including U.S. manufacturing.

So is the White House actually planning to go down that route? By focusing on imports from Mexico, Mr. Spicer conveyed that impression; but he also said that he was talking about “comprehensive tax reform as a means to tax imports from countries that we have a trade deficit from.” That seemed to be a reference to a proposed overhaul of corporate taxes, which would include “adjustable border taxes.”

But here’s the thing: that overhaul wouldn’t at all have the effects he was suggesting. It wouldn’t target countries with which we run deficits, let alone Mexico; it would apply to all trade. And it wouldn’t really be a tax on imports.

To be fair, this is a widely misunderstood point. Many people who should know better believe that value-added taxes, which many countries impose, discourage imports and subsidize exports. Mr. Spicer echoed that misperception. In fact, however, value-added taxes are basically national sales taxes, which neither discourage nor encourage imports. (Yes, imports pay the tax, but so do domestic products.)

And the proposed change in corporate taxes, while differing from value-added taxation in some ways, would similarly be neutral in its effects on trade. What this means, in particular, is that it would do nothing whatsoever to make Mexico pay for the wall.

Some of this is a bit technical — see my blog for more details. But isn’t the U.S. government supposed to get stuff right before floating what sounds like a declaration of trade war?

So let’s sum it up: The White House press secretary created a diplomatic crisis while trying to protect the president from ridicule over his foolish boasting. In the process he demonstrated that nobody in authority understands basic economics. Then he tried to walk the whole thing back.

All of this should be placed in the larger context of America’s quickly collapsing credibility.

Our government hasn’t always done the right thing. But it has kept its promises, to nations and individuals alike.

Now all of that is in question. Everyone, from small nations who thought they were protected against Russian aggression, to Mexican entrepreneurs who thought they had guaranteed access to our markets, to Iraqi interpreters who thought their service with the U.S. meant an assurance of sanctuary, now has to wonder whether they’ll be treated like stiffed contractors at a Trump hotel.

That’s a very big loss. And it’s probably irreversible.

 

Costruire un muro di ignoranza, di Paul Krugman

New York Times 30 gennaio 2017

Siamo solo da una settimana nel regime Trump-Putin e sta già diventando difficile tener nota dei disastri. Vi ricordate lo scatto d’ira del Presidente a proposito della imbarazzante piccola folla il giorno dell’inaugurazione? Sembra già storia antica.

Ma io voglio, solo per un attimo, restare su quel racconto che ha dominato i notiziari di giovedì, prima che fosse, diciamo così, surclassato [1] dal putiferio sulla messa al bando dei rifugiati. Come forse ricordate – o forse no, dato l’ingresso pazzesco, così fitto e veloce, della Amministrazione nelle sue funzioni – la Casa Bianca alluse al fatto che avrebbe imposto una tariffa del 20 per cento sul Messico, ma stava forse riferendosi a un programma fiscale che i repubblicani hanno proposto alla Camera dei Rappresentanti, che non sarebbe affatto la stessa cosa; poi disse che era soltanto un’idea; dopodiché fece cadere quel tema, almeno per il momento.

Quanto a pura e semplice cattiveria, parlare in modo approssimativo di tariffe non è destinato ad eguagliare lo sbattere la porta in faccia ai rifugiati, nientedimeno che il Giorno del Ricordo dell’Olocausto. Nondimeno il racconto sulle tariffe incarna lo schema che stiamo già constatando in questa amministrazione dai gesti simbolici – uno schema di malfunzionamento, di ignoranza, di incompetenza e di totale mancanza di rispetto della verità.

Il racconto sembra, come gran parte di quello che è avvenuto successivamente, essere partito dall’ego insicuro del Presidente Trump: la gente si stava prendendosi gioco di lui perché il Messico non pagherà, come aveva promesso durante la campagna elettorale, per quell’inutile muro lungo il confine. Dunque il suo portavoce, Sean Spicer, se n’è venuto fuori dichiarando che sarebbe stata, in sostanza, una tassa di confine sui prodotti messicani a ripagare il muto. Detto fatto!

Tuttavia, come gli economisti hanno subito messo in evidenza, le tariffe non sono pagate dagli esportatori. A parte qualche aspetto secondario, esse sono fondamentalmente pagate degli acquirenti – vale a dire, una tariffa sui beni messicani sarebbe una tassa sui consumatori statunitensi. Di conseguenza, sarebbe stata l’America, non il Messico, che avrebbe finito col pagare il muro.

Cavolo! E quello non era l’unico problema. L’America fa parte di un sistema di accordi – un sistema da noi costruito – che stabilisce regole per la politica commerciale, e una delle regole chiave è che non si possono rialzare unilateralmente le tariffe che sono state ridotte in precedenti negoziati.

Se l’America dovesse casualmente violare quella regola, le conseguenze sarebbero gravi. Il rischio non sarebbe tanto quello delle ritorsioni – sebbene anche quello – ma della emulazione: se trattiamo le regole con disprezzo, lo stesso faranno gli altri. L’intero sistema commerciale comincerebbe a disfarsi, con effetti dappertutto ampiamente dirompenti, incluso in buona misura il sistema manifatturiero degli Stati Uniti.

Sta dunque la Casa Bianca effettivamente programmando di incamminarsi su quella strada? Concentrandosi sulle importazioni dal Messico, il signor Spicer trasmise quella impressione; ma egli disse anche che stava parlando di “una riforma fiscale organica come un mezzo per tassare le importazioni da paesi con i quali abbiamo un deficit commerciale”. Il che sembrava essere un riferimento ad una proposta di revisione della tassazione sulle società, che includerebbe “tasse modificabili al confine”.

Ma il punto è qua: quella revisione non avrebbe affatto gli effetti che lui stava indicando. Essa non si rivolgerebbe a paesi con i quali abbiamo deficit, tantomeno al solo Messico; si applicherebbe a tutti i commerci. E non sarebbe in realtà una tassa sulle importazioni.

Ad esser giusti, questo è un aspetto generalmente incompreso. Molta persone che dovrebbero saperne di più credono che le tasse sul valore aggiunto, che molti paesi utilizzano, scoraggino le importazioni e diano sussidi alle esportazioni. Spicer riecheggiò tale incomprensione. Tuttavia, in sostanza, le tasse sul valore aggiunto sono fondamentalmente tasse nazionali sulle vendite, che non scoraggiano né incoraggiano le importazioni (è vero che le importazioni pagano quelle tasse, ma lo stesso fanno i prodotti nazionali).

E il cambiamento proposto sulla tassazione delle società, che pure differisce per alcuni aspetti dalla tassazione sul valore aggiunto, sarebbe in modo simile neutrale nei suoi effetti sul commercio. Quello che questo significa, in particolare, è che esso in nessun modo farebbe pagare il muro al Messico.

Alcuni di questi aspetti sono un po’ tecnici – per maggiori dettagli potete consultare il mio blog. Ma non si suppone che il Governo degli Stati Uniti comprenda le cose correttamente, prima di svolazzare su concetti che assomigliano ad una dichiarazione di guerra commerciale?

Dunque, riassumiamo: l’addetto stampa alla Casa Bianca ha creato una crisi diplomatica nel mentre cercava di proteggere il Presidente dal ridicolo delle sue sciocche sbruffonate. In tal modo, ha dimostrato che nessuno tra coloro che sono in carica capisce l’economia più elementare. Poi ha cercato di rigirare la frittata.

Tutto questo dovrebbe essere collocato nel più ampio contesto di un’America che sta rapidamente perdendo la sua credibilità.

Il nostro Governo non ha sempre fatto cose giuste. Ma ha mantenuto le sue promesse, verso le nazioni come verso i singoli individui.

Ora tutto questo viene messo in dubbio. Chiunque, dalle piccole nazioni che pensavano di essere protette contro una aggressione russa, agli imprenditori messicani che pensavano di avere l’accesso garantito ai nostri mercati, agli interpreti irakeni che pensavano che il loro servizio agli Stati Uniti comportasse una sicurezza di rifugio, ora deve chiedersi se sarà trattato alla stregua degli appaltatori imbrogliati di un hotel Trump [2].

Si tratta di una perdita grande. Ed è probabilmente irreversibile.

 

 

 

[1] Il gioco di parole non traducibile dipende dal fatto che “to trump” significa anche “battere, sconfiggere, surclassare” (per completezza, significa anche “fare dell’aria”).

[1] Il participio passato di “to stiff” – diversamente dai significati più consueti dell’aggettivo “stiffed” – si porta dietro lo specifico significato del verbo, che allude ad un mancato pagamento di qualcuno, o a una mancata mancia. Ed è noto che vicende del genere, di imprese che alla fine non sono state pagate, hanno caratterizzato varie attività imprenditoriali e immobiliari di Trump.

 

 

 

 

 

 

 

 

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