FEB 2, 2017
BERKELEY – In a recent Vox essay outlining my thinking about US President Donald Trump’s emerging trade policy, I pointed out that a “bad” trade deal such as the North American Free Trade Agreement is responsible for only a vanishingly small fraction of lost US manufacturing jobs over the past 30 years. Just 0.1 percentage points of the 21.4 percentage-point decline in the employment share of manufacturing during this period is attributable to NAFTA, which was enacted in December 1993.
A half-century ago, the US economy supplied an abundance of manufacturing jobs to a workforce that was well equipped to fill them. Today, many of those opportunities have dried up. This is undoubtedly a significant problem; but anyone who claims that the collapse of US manufacturing employment resulted from “bad” trade deals is playing the fool.
The facts about the declining US manufacturing employment are plain; there are no “alternatives.” The primary culprits are productivity growth and limited demand, which cut the share of nonfarm employees in manufacturing from 30% in the 1960s to 12% a generation later. That share fell further, to 9% because of misguided macroeconomic policies, especially during the Reagan era, when deficit spending and overly tight monetary policy caused the dollar to soar, undermining competitiveness. After this period, the US abdicated its proper role as a net exporter of capital and finance, and less developed economies became net sources of investment funds. Finally, China’s extraordinarily rapid rise pushed the employment share of manufacturing down to 8.7%; NAFTA took it to 8.6%.
I had promised Vox’s editor-in-chief, Ezra Klein, a 5,000-word essay on this topic by late September. I ended up delivering 8,000 words in late January, but the essay still didn’t accomplish everything I had wanted it to. Briefly, I argued that “bad” trade deals are irrelevant to the problem of diminishing economic opportunities, and I outlined how American trade – in fact, industrial – policy should address manufacturing.
I also tried to explain why certain cohorts, from both the left and the right, have long fixated on trade. In fact, as far back as 1993, I have been asking union leaders, members of Congress, and lobbyists who have opposed trade deals why they do not expend the same level of energy on other important issues – including many where common ground could easily be found.
This intransigent opposition remains a mystery to me to this day. The best partial explanation that I have seen starts with the philosopher Ernest Gellner’s cruel observation about left-wing academics. According to Gellner, history blew past them when the politics of nationalism and ethnicity began to crowd out political-organizing efforts centered on class. Politicians seeking to harness populist energy do so by stoking animus toward foreigners, supping with the devil with a very short spoon. But, again, this is only a partial, and ultimately inadequate, explanation.
As for industrial policy, the economist Stephen S. Cohen and I argue in our 2016 book, Concrete Economics, that officials should recognize and capitalize on America’s interlinked communities of producers and their deep institutional knowledge of engineering practices. What’s more, the US should start doing what rich countries are supposed to do: exporting capital and running a trade surplus to fund industrialization in underdeveloped parts of the world.
As Harvard University’s Larry Summers and Barry Eichengreen of the University of California at Berkeley, have observed, it is almost as if Trump’s economic strategy – if one can call his vague and vacillating statements that – has been designed to reduce manufacturing employment in America further. Trump’s policy priorities – fiscal stimulus, corporate tax cuts, possibly a “border adjustment” tax on imports, pressuring the Federal Reserve to raise interest rates – will only strengthen the dollar. And that sends a clear message to domestic manufacturers: you are not wanted.
Of course, Trump will not blame his own incoherent and counterproductive policies for a stronger dollar. He will blame China and Mexico – and he will not be alone. In the US today, some on the left are just as keen as Trump to blame Mexico for the entire decline in manufacturing employment over the past three decades.
That is a big problem for the US and the world. Given the chauvinist politics that often accompany protectionism – and that are a mainstay of Trump’s brand – one might even say that it is a “bigly” problem.
Il commercio nelle bugie di Trump,
di J. Bradford DeLong
BERKELEY – In un recente saggio su Vox che delinea il mio pensiero su quella che appare come la politica commerciale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ho messo in evidenza che un accordo commerciale ‘cattivo’ come l’Intesa Nord Americana sul Libero Commercio (NAFTA) è responsabile soltanto di una evanescente piccola frazione dei posti di lavoro manifatturieri persi dagli Stati Uniti nei trenta anni passati. Solo 0,1 punti percentuali del declino di 21,4 punti percentuali nella quota di occupazione del settore manifatturiero è attribuibile al NAFTA, che venne approvato nel dicembre del 1993.
Mezzo secolo fa l’economia statunitense offriva una abbondanza di posti di lavoro manifatturieri ad una forza lavoro che era ben attrezzata per ricoprirli. Oggi, molte di queste opportunità si sono esaurite. Questo è indubbiamente un problema rilevante: ma chiunque sostenga che il collasso dell’occupazione manifatturiera dipende da ‘cattivi’ accordi commerciali si comporta da sciocco.
I fatti a proposito del declino dell’occupazione manifatturiera sono semplici; non ci sono possibili interpretazioni alternative. I principali responsabili sono la crescita della produttività e la domanda limitata, che hanno ridotto la quota degli occupati non agricoli dal 30% degli anni ’60 al 12% della generazione successiva. Quella quota è caduta ulteriormente al 9% a causa di politiche economiche sbagliate, particolarmente durante l’epoca di Reagan, quando la spesa in deficit e una politica monetaria eccessivamente restrittiva spinse il dollaro in alto, mettendo in crisi la competitività. Dopo quel periodo, gli Stati Uniti abdicarono al loro ruolo caratteristico di esportatori netti di capitali e di finanziamenti, e le economie meno sviluppare divennero le sorgenti nette dei fondi di investimento. Infine, la crescita straordinariamente rapida della Cina abbassò la quota dell’occupazione manifatturiera all’8,7%; il NAFTA la portò all’8,6%.
Avevo promesso al redattore capo di Vox, Ezra Klein, un saggio di 5.000 parole su questo tema per la fine di settembre. Hop finito per consegnare 8.000 parole alla fine di gennaio, ma il saggio non ha esaurito tutto quello che avevo intenzione di dire. In breve, ho sostenuto che i ‘cattivi’ accordi commerciali sono irrilevanti rispetto al problema delle opportunità economiche in calo, ed ho delineato in che modo la politica commerciale americana – di fatto, quella industriale – dovrebbe rivolgersi al settore manifatturiero.
Ho anche cercato di spiegare perché certi gruppi, sia di sinistra che di destra, si sono per lungo tempo fissati sul commercio. Di fatto, già nel lontano 1993, mi era rivolto a leader sindacali, ai membri del Congresso e ai lobbisti che si opponevano agli accordi commerciali, per chiedere per quale ragione non spendessero la stessa quantità di energia su altri temi – inclusi molti per i quali sarebbe stato semplice trovare un terreno comune.
Sino ad oggi, questa opposizione intransigente rimane per me un mistero. La migliore spiegazione parziale che ho raccolto, prende spunto da una perfida osservazione del filosofo Ernest Gellner sugli accademici di sinistra. Secondo Gellner, la storia li ha respinti nel passato allorché la politica del nazionalismo e dell’identità etnica ha cominciato a spiazzare gli effetti di organizzazione della politica centrati sulla classe. Gli uomini politici che cercano di sfruttare l’energia populista lo fanno alimentando il risentimento verso gli stranieri, sorseggiano assieme al demonio ma con un cucchiaio molto corto [1]. Eppure, lo ripeto, si tratta di una spiegazione molto parziale, e sostanzialmente inadeguata.
Come abbiamo sostenuto nel caso della politica industriale l’economista Stephen S. Cohen e il sottoscritto nel nostro libro del 2016 Economia concreta, quelle autorità dovrebbero riconoscere e mettere a frutto le interconnesse comunità di produttori dell’America e le loro profonde conoscenze operative delle pratiche specialistiche. Più ancora, gli Stati Uniti dovrebbero prendere le mosse da quello che si suppone facciano i paesi ricchi: esportare capitali e amministrare surplus commerciali per finanziare l’industrializzazione nelle aree sottosviluppate del mondo.
Come hanno osservato Larry Summers dell’Università di Harvard e Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley in California, sembra quasi che la strategia economica di Trump – se si possono definire in quel modo i suoi discorsi vaghi e confusi – sia stata indirizzata a ridurre ulteriormente l’occupazione manifatturiera in America. Le priorità politiche di Trump – lo stimolo della finanza pubblica, i tagli alla tassa sulle società, probabilmente una tassa di “correzione al confine” sulle importazioni, la spinta verso la Federal Reserve per alzare i tassi di interesse – avranno il solo effetto di rafforzare il dollaro. Il che spedisce un chiaro messaggio agli operatori manifatturieri nazionali: non siete desiderati.
Naturalmente, Trump non darà la responsabilità alle sue incoerenti e controproducenti politiche per un dollaro più forte. Incolperà la Cina e il Messico – e non sarà il solo. Negli Stati Uniti di oggi, ci sono alla sinistra persone patite altrettanto di Trump nel dar la colpa al Messico dell’intero declino dell’occupazione manifatturiera dei passati tre decenni.
Questo è un grande problema per gli Stati Uniti e per il mondo. Data le politiche scioviniste che di solito accompagnano il protezionismo – e che sono un caposaldo dello stile di Trump – si potrebbe persino affermare che si tratti “grandiosamente” [2] di un problema.
[1] L’espressione idiomatica dice che si deve usare un cucchiaio assai lungo se si mangia una zuppa col diavolo, per evitare di stargli troppo vicini. Quegli uomini politici di sinistra, invece, corrono il rischio, perché usano un cucchiaio corto.
[2] “Bigly” è una invenzione linguistica che Trump usa con soddisfazione, E’ una specie di avverbio di “grande”, che Urban.dictionary spiega nel modo seguente: “Quando siete in corsa per la Presidenza e la vostra inclinazione all’iperbole supera la vostra padronanza della lingua inglese”.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"