By Thomas Picketty
A long-standing legend has it that France is a profoundly egalitarian country which has miraculously escaped the sharp rise in inequality observed elsewhere. If so, how can we explain the anxiety provoked by globalisation and by Europe which is expressed so forcefully in this presidential campaign? In the first instance by recognising that this great national myth of France as egalitarian and an exception to the rule is grossly exaggerated and, secondly, because it is too often used by the dominant groups to justify our own national hypocrisy.
There is nothing new here. France was the last country to adopt a progressive income tax, and did so under the Law of 15 July 1914, voted in extremis to finance the war. In contrast, this tax had already been introduced in Germany, the United Kingdom, Sweden, the United States and Japan, sometimes decades previously, to finance schools and public services. Until 1914, the political and economic elites in the Third Republic had stubbornly refused this type of reform declaring that France had already become egalitarian, thanks to the Revolution, and therefore had no need of an intrusive and predatory tax, more suited to the aristocratic and authoritarian societies which surrounded us. In reality, the inheritance archives demonstrate that the concentration of property and income was as extreme in the France of the period as in other European societies (and greater than in the United States).
Today we find the same hypocrisy when confronted with the glaring inequalities in our educational system. In France, in all good republican conscience, we choose to devote three times more public resources to the selective « grandes ecoles » than is spent on those university courses in which young people from socially underprivileged backgrounds are concentrated. Now this elitist and austerity tendency which has already led to a fall of 10% in expenditure per student between 2007 and 2017 (even though we all talk of the ‘knowledge society’, ‘innovation’, etc) may well get worse in the next five years, if we judge from some of the electoral programmes. France is also the country in which private primary and secondary schools are almost entirely financed by the taxpayers, while reserving the right to choose the pupils which suit them. This contributes to unacceptable levels of social segregation. There again the status quo is breezing ahead.
As far as the development of monetary inequalities is concerned, a new study carried out with Bertrand Garbinti and Jonathan Goupille-Lebret (on line on WID.world), clearly shows the limits of the French myth of egalitarianism. True, the rise in inequality has been less widespread than in the United States, where the share of the poorest 50% in the national income has literally collapsed. The fact remains that France has also experienced a sharp rise in inequality. Between 1983 and 2015, the average income of the richest 1% has risen by 100% (above inflation) and that of the 0.1% richest by 150%, as compared with barely 25% for the rest of the population (or less than 1% per annum). The richest 1% alone has siphoned off 21% of total growth, as compared with 20% for the poorest 50%. The break with the ‘Trente Glorieuses’ or thirty year post-war boom is striking: between 1950 and 1983, incomes were rising steadily by almost 4% per annum for the immense majority of the population. On the contrary, it was the highest incomes which had to settle for a growth of barely 1% per annum. The fact that the post-war boom (Trente Glorieuses) is not over for everyone has not gone unnoticed: you only have to read the weekly magazines with the salaries of the executives and the ranking of fortunes to realise this.
The study also confirms the strong growth of the highest assets, 90% of which are held in financial portfolios, when above 10 million Euros. These have risen, not only much faster than GDP since the years 1980-1990, but also faster than the average assets (driven upwards by property assets). We find this prosperity in the number and amounts of assets declared year after year in the wealth tax. There is no problem of outflow here: on the contrary we see a very dynamic basis for fiscal purposes.
In these conditions, it is difficult to understand why some candidates think it opportune to abolish the wealth tax on financial assets, or to impose a lower tax on financial incomes than on income from employment. To promote mobility, it would be more judicious to lower the property tax (which is by far the principal tax on wealth: it generates 30 billion Euros as compared with 5 billion Euros for the wealth tax) for the households who have borrowed to buy property.
Some may consider this a kickback in return for the political financing observed. One can also see in these fiscal choices the effects of a sincere but false ideology, whereby subjecting people and territories to whole scale competition would spontaneously result in social harmony and prosperity for all. What is sure is that it is dangerous to address first and foremost those who have gained from globalisation and to invent a new French passion for the regressive tax, while the most vulnerable social groups have the impression they have been abandoned and are increasingly attracted by the sirens of xenophobia. It is urgent to face up to the fact that inequality does exist in France.
Ineguaglianza in Francia,
di Thomas Picketty
Una leggenda di vecchia data è che la Francia sia un paese profondamente egualitario che è miracolosamente sfuggito alla brusca crescita dell’ineguaglianza osservata altrove. Se fosse così, come potremmo spiegare l’ansietà provocata dalla globalizzazione e dall’Europa, che si esprime con tanta forza in questa campagna presidenziale? Riconoscendo anzitutto che questo grande mito nazionale della Francia egualitaria ed eccezione alla regola è grandemente esagerato e, in secondo luogo, riconoscendo le ragioni per le quali esso è troppo spesso utilizzato dai gruppi dominanti per giustificare la loro stessa ipocrisia nazionale.
In questo caso non c’è niente di nuovo. La Francia è stato l’ultimo paese ad adottare una tassazione sul reddito progressiva, e lo fece con la legge del 15 luglio 1914, votata in extremis per finanziare la guerra. All’opposto, quella legge era stata già approvata in Germania, nel Regno Unito, in Svezia e in Giappone, in alcuni casi da decenni, per finanziare le scuole e gli investimenti pubblici. Sino al 1914, le elite politiche ed economiche dominanti nella Terza Repubblica si erano ostinatamente rifiutate a questo genere di riforma, affermando che la Francia era già diventata egualitaria, grazie alla Rivoluzione, e di conseguenza non aveva bisogno di una tassa inopportuna e predatoria, più adatta alle società aristocratiche e autoritarie che ci circondavano. In realtà, gli archivi sull’eredità dimostrano che in quel periodo la concentrazione della proprietà e del reddito era estrema in Francia come in altre società europee (e maggiore che negli Stati Uniti).
Oggi troviamo la stessa ipocrisia quando ci misuriamo con le lampanti ipocrisie del nostro sistema educativo. In Francia, con tutta la buona coscienza repubblicana, scegliamo di devolvere risorse pubbliche tre volte maggiori alle selettive “grandes ecoles” di quelle che spendiamo in quei corsi universitari nei quali sono concentrati i giovani che provengono da ambienti sociali non privilegiati. Ora, questa tendenza elitaria ed austera che ha già portato ad una caduta del 10% delle spese per studente tra il 2007 e il 2017 (per quanto si parli tutti di “società della conoscenza”, di “innovazione” e via dicendo) potrà ben peggiorare nei prossimi cinque anni, se giudichiamo da alcuni programmi elettorali. La Francia è anche il paese nel quale le scuole private primarie e secondarie sono quasi interamente finanziate dai contribuenti, pur avendo riservato il diritto a scegliere gli allievi che sono adatti ad esse. Questo contribuisce a determinare livelli inaccettabili di segregazione sociale. D’altronde, lo status quo procede tranquillamente.
Per quanto riguarda lo sviluppo delle ineguaglianze monetarie, un nuovo studio che abbiamo effettuato con Bertrand Garbinti e Jonathan Goupille-Lebret (on line su Wid.world), dimostra chiaramente i limiti del mito dell’egualitarismo francese. È vero, la crescita dell’ineguaglianza è stata meno generalizzata che negli Stati Uniti, dove la quota del reddito nazionale del 50% dei più poveri è letteralmente giunta al collasso. Resta il fatto che anche la Francia ha conosciuto una brusca crescita dell’ineguaglianza. Tra il 1983 e il 2015, il reddito medio dell’1% dei più ricchi è cresciuto del 100% (oltre all’inflazione) e quello dello 0,1% dei più ricchi del 150%, a confronto con appena il 25% del resto della popolazione (meno dell’1% all’anno). L’1% dei più ricchi ha da solo drenato il 21% della crescita totale, contro il 20% del 50% della popolazione più povera. La rottura con i “gloriosi trent’anni”, ovvero con il boom dei trent’anni post bellici, è impressionante: tra il 1950 e il 1983 i redditi erano cresciuti stabilmente di quasi il 4% all’anno per l’immensa maggioranza della popolazione. Al contrario, erano stati i redditi più elevati che si erano dovuti accontentare di una crescita di appena l’1% all’anno. Il fatto che il boom postbellico (“i gloriosi trent’anni”) non avesse riguardato tutti non è passato inosservato: si deve solo andare a leggere le riviste settimanali con i salari dei dirigenti e le classifiche delle ricchezze per comprenderlo.
Lo studio conferma anche la forte crescita dei beni dei più ricchi, che sono detenuti per il 90% nei portafogli finanziari, quando sono superiori ai 10 milioni di euro. Questi sono cresciuti a partire dagli anni tra il 1980 e il 1990 non solo molto più velocemente del PIL, ma anche più velocemente della media dei beni (spinti in alto dai beni patrimoniali). Scopriamo questa prosperità nel numero e nelle quantità dei beni dichiarati anno dopo anno nell’imposta sul patrimonio. In questo caso non ci sarebbe alcun problema di fuga dei capitali: al contrario constatiamo un fondamento molto dinamico per obbiettivi della finanza pubblica.
In queste condizioni, è difficile comprendere perché alcuni candidati pensino sia opportuno abolire le imposte sui patrimoni finanziari, oppure imporre una tassazione più bassa per i redditi finanziari di quella sui redditi derivanti dal lavoro. Per promuovere la mobilità, sarebbe più ragionevole abbassare l’imposta sugli immobili per le famiglie che si sono indebitate per acquistarli (che è di gran lunga la tassa principale sulla ricchezza: genera 30 miliardi di al confronto di 5 miliardi di euro della tassa sui beni mobili).
Alcuni possono considerare questo un rilassamento rispetto alla politica di finanza pubblica praticata. Qualcuno può anche vedere in queste scelte di finanza pubblica gli effetti di una ideologia sincera ma falsa, laddove assoggettare le persone e i territori alla piena dimensione competitiva produrrebbe spontaneamente armonia sociale e prosperità per tutti. Quello che è certo è che è pericoloso rivolgersi prima di tutto a coloro che hanno guadagnato dalla globalizzazione e inventare una nuova passione francese per la tassazione regressiva, mentre i gruppi sociali più vulnerabili hanno l’impressione di essere stati abbandonati e sono sempre più attratti dalle sirene della xenofobia. È urgente guardare in faccia il fatto che l’ineguaglianza in Francia esiste per davvero.
[1] La tabella mette a confronto la crescita media annua dei redditi in due periodo: dal 1950 al 1983 (linea blu) e dal 1983 al 2014 (linea verde). Mentre nel primo caso c’è stato – se ben comprendo – un calo nell’ultima fase del primo periodo, con una crescita annua passata da valori attorno al 3,5% a valori attorno ll’1,5%; nel secondo periodo c’è stata una crescita dei valori medi dall’1 per cento a circa il 3%. E il fenomeno sarebbe conseguente ad un andamento drasticamente ineguale tra redditi elevati e redditi medio bassi.
By mm
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