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Gli elettori francesi hanno la chiave per salvare l’Europa, di Francesco Saraceno (da Social Europe, 5 maggio 2017)

 

French Voters Hold Key To Saving Europe

by Francesco Saraceno on 5 May 2017 

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Even if it is likely to be averted in the second round of the Presidential election, France’s populist temptation should not be underestimated, as it highlights the difficulties of one of the founding members of the European Union.

Conventional wisdom depicts France as a stubbornly rigid economy, whose allergy to reform makes it every day less competitive. The increase in trade deficits is the best indicator of this loss of appeal of the French economy.

As is often the case, conventional wisdom depicts a picture that is too simplistic. French productivity is not stagnating now nor did it stagnate in the past. Since the 1970s output per worker in France and Germany has been growing broadly at the same average rate, a much higher one than in the UK or Italy. As for investment, innovation, and R&D, France fares as well as, if not better than, most of its main trading partners. Its workforce is educated; both outward and inward FDI flows are similar to other OECD countries; infrastructures are among the best in Europe; and its overall attractiveness (as measured for example by the Ease of Doing Business index), while not stellar, is anything but worrisome. This is not to deny that France has problems – the main one being an unemployment rate that remains stubbornly high and has cost François Hollande his job. But these problems need to be assessed (and addressed) by looking at the broader picture, which is one of a country comparable in dynamism and performance to other advanced economies.

The current account problem arises on the cost side, as price competition, especially from France’s main partner and competitor Germany, has gradually led to the loss of market share for French firms. But this does not signal a French problem, rather the contrary. Since the Euro’s inception France’s labour costs have grown in line with productivity, while the same cannot be said for Germany, especially after the wage compression that started in the mid-2000s.

Unlike other countries, France chose not to engage in the compression of wages and domestic demand; and, unlike countries in peripheral Europe, it was not forced to go through internal devaluation by a debt crisis. As a result, France’s robust domestic demand absorbs a part of other countries’ excess savings and, together with the rest of the world economy, sustains their growth.

Thus, the sick man of Europe is not France, but Europe itself in that it is becoming chronically incapable of generating enough domestic demand.

The current institutional set-up and the policies pursued since 2010, force a choice upon countries: either the Scylla of fiscal competition through decreased labour costs (and the consequent inevitable downsizing of the welfare state); or the Charybdis of protecting the welfare state and losing out in the price competitiveness game. Hollande’s failure and that of many European leaders has been the incapacity to break free of this choice.

If France and Europe do not want to give up their own social model, they need to find a way to sustain growth without engaging in the negative sum game represented by internal devaluation and price competition. It should be clear, especially at this delicate moment, that exiting (from the euro, from the EU) does not represent a viable choice. It is not by substituting external (exchange rate) devaluation for internal (wage) devaluation that countries may regain control over their policies and preserve their social model. A small open economy on its own is more, not less, likely to be subject to external constraint – unless it shuts itself off from the global economy, a choice that never worked in the past. Different policies are either possible within Europe or not at all. Similarly, it is hard to see how, in the current European framework, a single country could preserve its social model while accepting to engage in a price competitiveness race to the bottom.

The fate of the next French President will be decided within the European arena. He should engage in a serious effort to build a coalition and reform Europe; Hollande was elected on such an agenda, but during his term France was remarkably absent from the European debate. We don’t lack proposals that would help us to avoid the race to the bottom: any institutional change putting in place mechanisms that dampen divergence would help. What we cruelly lack is the political will and capacity to impose them. If the new French President fails to play this role in Europe, he will remain trapped between the Scylla and Charybdis that doomed his two predecessors and led to confused and wrong-headed policies. France cannot preserve its social model, if it does not manage to trigger change in Europe. And conversely, only France has the strength to build a coalition aimed at reversing the deflationary policies that have plagued the old continent. On May 7, it is Europe that is at stake.

 

 

Gli elettori francesi hanno la chiave per salvare l’Europa,

di Francesco Saraceno

Anche se è probabile che con il secondo turno delle elezioni presidenziali possa essere schivata, la tentazione populista della Francia non dovrebbe essere sottovalutata, in quanto mette in evidenza la difficoltà di uno dei padri fondatori dell’Unione Europea.

Secondo un punto di vista convenzionale la Francia è descritta come un’economia testardamente rigida, la cui allergia alle riforme la rende ogni giorno meno competitiva. L’aumento del deficit commerciale sarebbe il miglior indicatore di questa perdita di attrattività dell’economia francese.

Come accade spesso, la saggezza convenzionale dipinge un quadro troppo semplicistico. La produttività francese non sta ristagnando adesso e non è ristagnata nel passato. A partire dagli anni ’70 la produzione per lavoratore in Francia e Germania è venuta crescendo in generale allo stesso tasso medio, molto superiore a quello del Regno Unito e dell’Italia. Sugli investimenti, l’innovazione e la ricerca e lo sviluppo, la Francia ha prestazioni simili, se non migliori, della maggioranza dei suoi principali partner commerciali. La sua forza lavoro è istruita; i flussi degli investimenti diretti esteri sia verso l’esterno che verso l’interno sono simili agli altri paesi dell’OCSE; le infrastrutture sono tra le migliori in Europa e la sua attrattività complessiva (come misurata ad esempio dall’Indice sulla Facilità del Fare Impresa), se non è eccezionale, è tutt’altro che inquietante. Con questo non si vuole negare che la Francia abbia problemi – il principale dei quali è un tasso di disoccupazione che resta ostinatamente elevato che è costato il posto di lavoro ad Hollande. Ma questi problemi debbono essere valutati ed affrontati guardando ad un contesto più ampio, quello di un paese paragonabile per dinamismo e prestazioni alle altre economie avanzate.

L’attuale problema del bilancio si presenta dal lato dei costi, dato che la competizione sui prezzi, particolarmente da parte del principale partner e competitore della Francia, la Germania, ha gradualmente portato ad una perdita nella quota di mercato per le imprese francesi. Dal momento dell’avvio dell’euro, i costi del lavoro della Francia sono cresciuti in linea con la produttività, mentre non si può dire lo stesso per la Germania, particolarmente dopo la compressione salariale che iniziò alla metà degli anni 2000.

Diversamente da altri paesi, la Francia decise di non impegnarsi in una compressione dei salari e della domanda interna; e, diversamente dai paesi della periferia dell’Europa, essa non è stata costretta a passare da una svalutazione interna per una crisi del debito. Di conseguenza, la robusta domanda interna francese assorbe una parte dei risparmi in eccesso di altri paesi e, assieme con il resto dell’economia mondiale, sostiene la loro crescita.

Quindi, il ‘malato’ d’Europa non è la Francia, ma l’Europa stessa che sta diventando cronicamente incapace di generare sufficiente domanda interna.

L’attuale assetto istituzionale e le politiche perseguite dal 2010, costringono i paesi a fare una scelta: o la Scilla della competizione delle finanze pubbliche attraverso costi del lavoro decrescenti (e gli inevitabili conseguenti tagli sullo stato assistenziale); o la Cariddi della protezione dello stato assistenziale e la perdita nella sfida della competitività sui prezzi. Il fallimento di Hollande e di molti leader europei è consistito nella incapacità di sfuggire a questa scelta.

Se la Francia e l’Europa non vogliono rinunciare al loro modello sociale, devono trovare un modo per sostenere la crescita senza impegnarsi nel gioco a somma negativa rappresentato dalla svalutazione interna e dalla competizione sui prezzi. Dovrebbe esser chiaro, particolarmente in questo momento delicato, che uscire (dall’euro, dall’Unione Europea) non rappresenta una scelta sostenibile. Non è con la sostituzione della svalutazione esterna (il tasso di cambio) con quella interna (i salari) che i paesi possono riconquistare il controllo sulle loro politiche e preservare il loro modello sociale. Una piccola economia aperta, di per sé, è più probabile che sia soggetta a condizionamenti esterni – a meno che non si chiuda fuori dall’economia globale, una scelta che in passato non ha mai funzionato. Politiche diverse o sono possibili all’interno dell’Europa o non lo sono affatto. In modo simile, è difficile vedere come, un paese singolo possa conservare il suo modello sociale mentre accetta di impegnarsi in una gara di competitività dei prezzi al ribasso.

Il destino del prossimo Presidente francese sarà deciso all’interno dell’arena europea. Egli dovrebbe impegnarsi in un serio sforzo di costruire una coalizione e riformare l’Europa; Hollande fu eletto su un tale programma, ma durante il suo mandato la Francia è rimasta considerevolmente assente dal dibattito europeo. Non ci mancano proposte che darebbero un contributo ad evitare una gara al ribasso: ogni cambiamento istituzionale che ponga in essere meccanismi che smorzano la divergenza, aiuterebbe. Quello che ci manca in modo doloroso è la volontà politica e la capacità di imporli. Se il nuovo Presidente francese non riuscirà ad esercitare questo ruolo in Europa, resterà intrappolato tra quelle Scilla e Cariddi che hanno condannato i suoi due predecessori e condotto a politiche confuse e rivolte nella direzione sbagliata. La Francia non potrà conservare il suo modello sociale se non cercherà di innescare un cambiamento in Europa. E, di converso, solo la Francia ha la forza per costruire una coalizione che abbia l’obbiettivo di invertire le politiche deflazionistiche che hanno afflitto il vecchio continente. Il 7 di maggio è l’Europa che è in gioco.

 

 

 

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