Storia di un giudice che uscì dall’assedio solo al prezzo della vita
Il 30 gennaio 1992 la Corte Suprema di Cassazione doveva decidere quale idea di Mafia lo Stato Italiano faceva propria. La vicenda giudiziaria del ‘maxiprocesso’ si era snodata nei sette anni precedenti, con due esiti solo in apparenza non contraddittori, in realtà per un aspetto centrale opposti. Tra le conclusioni del processo di primo grado e quelle dell’appello, le differenze quantitative erano state rilevanti ma apparentemente non decisive: 19 ergastoli, 319 condanne per un totale di 2.655 anni di galera nel primo caso; 12 ergastoli, 258 condanne per un totale di 1.576 anni di galera in appello. Dove stava la differenza? Il processo di appello aveva negato l’utilizzabilità del cosiddetto ‘teorema Buscetta’, che era stato decisivo nell’accoglimento nel primo grado dell’intero impianto accusatorio dei giudici Falcone, Borsellino, Caponnetto ad altri, secondo il quale “tutti i più importanti delitti venivano decisi dalla Cupola che governava Cosa Nostra”. Di conseguenza il processo di appello aveva escluso la accertabilità di responsabilità personali in vari singoli delitti da parte di personaggi come Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia, Nitto Santapaola. Vari delitti, a cominciare da quello del Generale Alberto Della Chiesa e da quello del commissario di polizia Boris Giuliano, sino ai delitti ‘politici’ di La Torre, Mattarella ed altri, erano rimasti senza mandanti.
Due idee di mafia o almeno due idee su come contrastarla (si potrebbe dire: se combatterla per sgominarla, oppure contrastarla convivendoci). Uno Stato che finalmente arrivava alla conclusione che la mafia fosse un fenomeno unitario e ‘piramidale’, e che dunque il contrasto dovesse anzitutto concentrarsi su quell’ “assorbente” reato di esercitare un potere criminale che aspirava all’anonimato; oppure uno Stato che, nonostante i precisi riscontri delle testimonianze dei pentiti, manteneva un pregiudizio garantista nei confronti dei suoi capi accertati, dai reati dei quali veniva derubricato quello principale, l’essere appunto capi mafia. Questo era il contesto, mentre in cima alla gerarchia mafiosa stava allora Michele Greco, il “papa” di Ciaculli. E a presiedere la sezione della Suprema Corte avrebbe dovuto esserci il famigerato Corrado Carnevale, un giudice che di quello speciale garantismo aveva fatto speciale e rivendicata giurisprudenza.
Il libro di Giovanni Bianconi “L’assedio: troppi nemici per Giovanni Falcone”, racconta la storia sul versante di quei primi anni ’90; quando la partita contro la mafia era giunta a quel discrimine. Paradossalmente erano stati gli stessi procuratori palermitani che avevano presentato istanza di cassazione del processo di appello, perché restassero in piedi la logica e le conclusioni del processo di primo grado. Del resto, già gli ultimissimi anni ’80 erano stati una regressione rispetto al clima del primo maxiprocesso: ad esempio Falcone era stato escluso dalla guida della Procura di Palermo con un argomento abbastanza simmetrico al passo indietro del processo di appello. Si era ammesso che egli avesse di gran lunga il curriculum di maggiore efficacia quanto a risultati, ma perché scegliere il più efficace? L’efficacia non poteva talora consistere in una mera volontà di protagonismo? Premiare l’efficacia non era già invadere la burocratica autonomia della magistratura?
Ora, quel discrimine era ben percepito anche dalla mafia, che per mesi aveva seguito con informata attenzione l’altalena di notizie contrastanti sul giudice della Cassazione al quale sarebbe stata affidato di presiedere il procedimento. Proprio in quegli anni a capo della Cupola arrivava manu militari il boss dei corleonesi Totò Riina che, per tenersi aggiornato sulla complessa vicenda della scelta di quel giudice, faceva venire nel suo nascondiglio in Sicilia un famoso penalista romano che lo aggiornava sui possibili sviluppi. Per Riina la sostanza era “la sconfessione di quanto il giudice aveva intuito e costruito nella sua istruttoria (prima sentenza) grazie a ‘quell’infame di Buscetta’: la struttura piramidale di Cosa Nostra, che deliberava i delitti e dirigeva ogni decisione. Il ‘capo dei capi’ era disposto ad accettare che per ogni singolo fatto ci fossero singole condanne, che ogni omicidio apparisse come un fatto separato dall’altro, senza collegamenti o mandati giunti dall’alto. A lui importava smontare la teoria della Cupola, che aveva cambiato le carte in tavola nella partita con le istituzioni” (pag. 117). E in questo obbiettivo era ottimista: “qualche vizio si troverà”, ripeteva, intendendo qualche sofisticato difetto della procedura che permettesse a giudici come Carnevale di abrogarla, come in quei mesi era già accaduto con una spettacolare rimessa in libertà di vari mafiosi.
Il libro di Bianconi anzitutto ci chiarisce in modo esauriente questa simmetria tra le due percezioni del punto di rottura. Per Falcone e non molti altri magistrati suoi collaboratori diretti, il nodo era portare il contrasto dello Stato ad un livello di propositi diverso; chiudere la rete, per effetto di un forte coordinamento nazionale e di maggiore coordinamento negli stessi distretti giudiziari, di mezzi adeguati, di una efficacia superiore e di una appropriata definizione del fenomeno mafioso. Per la mafia la partita si giocava nell’impedire questo salto di qualità e gli strumenti che aveva a disposizione erano quelli di una offensiva di terrore: colpire la magistratura giudicante ai livelli apicali (che mai erano stati colpiti in precedenza e che allora finirono sotto i colpi della lupara, come nel caso del magistrato della Cassazione titolare dell’accusa, Nino Scopelliti), colpire quei settori della politica come Salvo Lima che avevano garantito in passato i meccanismi dell’”aggiustamento” dei processi e che adesso venivano meno alle loro promesse; colpire quegli imprenditori come Libero Grassi che avevano osato rompere la subalternità delle imprese. E, ovviamente, colpire Giovanni Falcone, che avrebbe dovuto essere assassinato ben prima dell’attentato sulla autostrada di Punta Raisi, nel precedente fallito attentato dell’Addaura.
Falcone aveva in diverse occasioni messo l’accento sulla mentalità “raffinatissima” che stava dietro questa offensiva mafiosa. Era un uomo che aveva una caratteristica, sopra tutte le altre: non parlava mai a caso delle cose fondamentali che pensava di aver compreso, se qualcosa era fondamentale non lo diceva in modi astrusi e aveva l’abitudine di insistervi, compresi quegli aspetti che potevano metterlo in certi ambienti in imbarazzo. Difese sempre la sua personale idea di un “terzo livello” mafioso che si annidava nella politica. Ma immaginare che la mafia fosse eterodiretta dalla politica, pensava, era una sciocchezza: la realtà era più semplice e forse più grave. Personaggi della politica e delle istituzioni avevano un ruolo preciso e delimitato; servivano fondamentalmente ad aiutare a risolvere nodi oscuri dei rapporti con il potere giudiziario, oltre ad organizzare e consentire il settore degli affari connesso con gli appalti pubblici. La mafia non avrebbe delegato a nessun altro le grandi strategie. Ed era inutile colpire quei settori della politica con annunci o con iniziative di mero effetto mediatico: la legge doveva parlare il suo linguaggio, doveva colpire quando aveva prove ed il risultato fosse ragionevolmente certo. Quindi intendeva che la strategia militare della mafia corleonese non poteva essere intesa come un semplicistico ‘ripiego’ dovuto alla disperazione. Ogni omicidio era un messaggio ben riflettuto; certamente conseguenza di uno scontro con lo Stato divenuto molto più rischioso, ma anche indicativo di una strategia ‘raffinata’. Dovevano essere colpiti quegli uomini che impersonavano la tentazione dello Stato di “cambiare le carte in tavola”. Cosa Nostra non mirava ad una sconfitta definitiva dello Stato, voleva che i magistrati che operavano per un salto di efficacia venissero isolati, che i politici che funzionavano come tramite rispettassero i loro impegni, che i giudici ‘garantisti’ continuassero a trovare ‘vizi’ nelle procedure, ad ammazzare le sentenze. E, con la nuova stagione di omicidi, voleva rendere chiara a tutti questa pretesa.
Ma il sottotitolo del libro è “Troppi nemici per Giovanni Falcone”. E questa è la seconda parte della ricostruzione: quanto Falcone fosse stato isolato e contrastato, prima della ‘santificazione laica’ che lo fece divenire eroe a prezzo della vita. Forse neanche la raffinatezza dell’agire mafioso si aspettava di avere un oggettivo aiuto così potente dall’interno della magistratura, nelle sue associazioni, nei commentatori ufficiali, nella politica non intesa come individui collusi, ma semplicemente come sociologia di un potere che anziché mettersi al servizio della soluzione dei problemi reali, si collocava sopra quei problemi, in una insaziabile avidità di ridurre tutto a strumento del suo primato. È la storia della decisione di Falcone, dopo che la sua strada nella Procura palermitana era stata bloccata, di cercare un altro modo per essere efficace, di accettare un incarico al Ministero della Giustizia, Ministro Claudio Martelli e Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Falcone era consapevole che quella decisione, come ogni sua decisione, poteva essere non compresa. Ma in questo stava l’aspetto più sostanziale del suo senso dello Stato: egli era un uomo delle istituzioni nel senso che riteneva di poter dare il suo contributo anche in una collocazione diversa, purché potesse mantenere una percezione integra della sua indipendenza e perseguire onestamente la maggiore efficacia possibile. Se non lo avesse percepito, il suo senso delle istituzioni avrebbe perso di fondamento. Ma finché gli era chiaro – e i fatti lo rendevano chiaro, compreso il fatto duro come una pietra di essere considerato da Cosa Nostra come il nemico giurato – era proprio quel senso delle istituzioni che gli dava la forza di non dipendere dal giudizio altrui. Neanche dovette, in quegli anni, preoccuparsi di ricorrere frequentemente a interviste nelle quali spiegava la sua opinione sugli aspetti fondamentali del suo lavoro. Lo fece con lo stesso metodo con il quale aveva condotto le sue inchieste.
In un certo senso, il suo maggiore eroismo non venne con l’esplosione delle centinaia di chilogrammi di esplosivo, quando la terra lo ingoiò assieme alla moglie e agli uomini della scorta. Era venuto prima, nel considerare quell’esito come assolutamente possibile. Addirittura probabile. Mentre per molti altri il quadro era dominato da ben altre considerazioni: il suo presunto protagonismo (qualcuno arrivò persino a dubitare che il fallito attentato dell’Addaura fosse stato un effettivo tentato omicidio); il suo presunto carrierismo, dove diventava opinabile carriera anche il curriculum dei risultati reali; una autonomia della magistratura concepita come una immacolata separazione da una politica, privata anche delle sue responsabilità normative. Modi di ragionare nei quali dominava una logica del sospetto ed una sorta di completa indifferenza al senso della guerra reale che era in atto. Un clima nel quale prosperavano assieme i ‘corvi’ di Palermo e le teorizzazioni più spericolate su una politica che tirava le fila di Cosa Nostra, anziché esserne, piuttosto, strumento.
Pagine del libro molto istruttive, un vero e proprio capitolo di una possibile storia della irresponsabilità politica, che gradualmente cominciò a dilagare. Una delle poche persone che non fece mai mancare la solidarietà al lavoro di Falcone – è il caso di ricordarlo – fu il Presidente della Commissione Antimafia, il comunista Gerardo Chiaromonte.
Quando, agli inizi del 1992, la sezione della Cassazione – dopo che Carnevale, con molti dubbi, aveva deciso che altri presiedesse il processo, probabilmente per il clamore troppo grande che aveva provocato la recente decisione di rimettere in libertà alcuni capi della mafia – accolse la richiesta di eliminare le conclusioni dell’appello, i colleghi di Falcone proposero un brindisi. Accettò, ma volle chiarire che a quel punto la partita si era fatta molto più pericolosa. In quei giorni gli uomini di Riina si procuravano un impressionante quantitativo di esplosivo da alcuni pescatori che avevano recuperato in fondo al mare bombe inesplose della Seconda Guerra mondiale.
E si resta sbigottiti al pensiero che, prima di innescare quella esplosione, Falcone era sostanzialmente un illustre isolato sotto “assedio”. L’isolamento di Falcone era stato tutt’altro che teorico, in quei giorni si sarebbe detto che era lui il perdente. Entrò nella storia che conosciamo noi, con quel suo sorriso sardonico nella foto con Borsellino che fece il giro del mondo, per effetto di quella esplosione.
By mm
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