Paul Krugman MAY 1, 2017
The 100-day reviews are in, and they’re terrible. The health care faceplants just keep coming; the administration’s tax “plan” offers less detail than most supermarket receipts; Trump has wimped out on his promises to get aggressive on foreign trade. The gap between big boasts and tiny achievements has never been wider.
Yet there have, by my count, been seven thousand news articles — O.K., it’s a rough estimate — about how Trump supporters are standing by their man, are angry at those meanies in the news media, and would gladly vote for him all over again. What’s going on?
The answer, I’d suggest, lies buried in the details of the latest report on gross domestic product. No, really.
For the past few months, economists who track short-term developments have been noting a peculiar divergence between “soft” and “hard” data. Soft data are things like surveys of consumer and business confidence; hard data are things like actual retail sales. Normally these data tell similar stories (which is why the soft data are useful as a sort of early warning system for the coming hard data.) Since the 2016 election, however, the two kinds of data have diverged, with reported confidence surging — and, yes, a bump in stocks — but no real sign of a pickup in economic activity.
The funny thing about that confidence surge, however, was that it was very much along partisan lines — a sharp decline among Democrats, but a huge rise among Republicans. This raises the obvious question: Were those reporting a huge increase in optimism really feeling that much better about their economic prospects, or were they simply using the survey as an opportunity to affirm the rightness of their vote?
Well, if consumers really are feeling super-confident, they’re not acting on those feelings. The first-quarter G.D.P. report, showing growth slowing to a crawl, wasn’t as bad as it looks: Technical issues involving inventories and seasonal adjustment (you don’t want to know) mean that underlying growth was probably O.K., though not great. But consumer spending was definitely sluggish.
The evidence, in other words, suggests that when Trump voters say they’re highly confident, it’s more a declaration of their political identity than an indication of what they’re going to do, or even, maybe, what they really believe.
May I suggest that focus groups and polls of Trump voters are picking up something similar?
One basic principle I’ve learned in my years at The Times is that almost nobody ever admits being wrong about anything — and the wronger they were, the less willing they are to concede error. For example, when Bloomberg surveyed a group of economists who had predicted that Ben Bernanke’s policies would cause runaway inflation, they literally couldn’t find a single person willing to admit, after years of low inflation, having been mistaken.
Now think about what it means to have voted for Trump. The news media spent much of the campaign indulging in an orgy of false equivalence; nonetheless, most voters probably got the message that the political/media establishment considered Trump ignorant and temperamentally unqualified to be president. So the Trump vote had a strong element of: “Ha! You elites think you’re so smart? We’ll show you!”
Now, sure enough, it turns out that Trump is ignorant and temperamentally unqualified to be president. But if you think his supporters will accept this reality any time soon, you must not know much about human nature. In a perverse way, Trump’s sheer awfulness offers him some political protection: His supporters aren’t ready, at least so far, to admit that they made that big a mistake.
Also, to be fair, so far Trumpism hasn’t had much effect on daily life. In fact, Trump’s biggest fails have involved what hasn’t happened, not what has. So it’s still fairly easy for those so inclined to dismiss the bad reports as media bias.
Sooner or later, however, this levee is going to break.
I chose that metaphor advisedly. I’m old enough to remember when George W. Bush was wildly popular — and while his numbers gradually deflated from their post 9/11 high, it was a slow process. What really pushed his former supporters to reconsider, as I perceived it — and this perception is borne out by polling — was the Katrina debacle, in which everyone could see the Bush administration’s callousness and incompetence playing out live on TV.
What will Trump’s Katrina moment look like? Will it be the collapse of health insurance due to administration sabotage? A recession this White House has no idea how to handle? A natural disaster or public health crisis? One way or another, it’s coming.
Oh, and one more note: By 2006, a majority of those polled claimed to have voted for John Kerry in 2004. It will be interesting, a couple of years from now, to see how many people say they voted for Donald Trump.
Sul potere che deriva dall’essere terribili, di Paul Krugman
New York Times 1 maggio 2017
Ci sono gli articoli sui cento giorni, e sono tremendi. Continuano ad arrivare batoste sulla assistenza sanitaria; il “piano” fiscale della Amministrazione offre meno dettagli della maggior parte delle etichette in un supermercato; Trump si è preso paura sulle sue promesse di essere aggressivo sul commercio con l’estero. Il divario tra le spacconate e le minuscole realizzazioni non è mai stato più grande.
Tuttavia, a un mio calcolo, ci sono stati settecento articoli di giornale – ammetto che si tratta di una stima grossolana – su come i sostenitori di Trump restino dalla parte del loro uomo, sono irritati da queste meschinità nei media e voterebbero da capo ben volentieri per lui. Che sta succedendo?
Direi che la risposta è sepolta nei dettagli dell’ultimissimo rapporto sul prodotto interno lordo. Proprio così.
Nei mesi passati, gli economisti che seguono gli sviluppi a breve termine hanno notato una peculiare divergenza tra i dati “leggeri” e quelli “pesanti”. I dati leggeri sono cose come i sondaggi sulla fiducia dei consumatori e delle imprese; quelli pesanti sono cose come le effettive vendite al dettaglio. Normalmente questi dati raccontano storie simili (e questa è la ragione per la quale i dati leggeri sono utili, alla stregua di un sistema di precoce messa in guardia sui dati pesanti in arrivo). Dalle elezioni del 2016, tuttavia, le due tipologie di dati si sono differenziate, con i resoconti sulla fiducia in crescita – e, in effetti, un sobbalzo nei valori azionari – ma nessun segno reale di una accelerazione nell’attività economica.
La cosa curiosa sulla crescita della fiducia, tuttavia, è che essa ha seguito molto linee di parte – un brusco declino tra i democratici, ma un’ampia crescita tra i repubblicani. Questo solleva l’ovvia domanda: coloro che venivano riferendo di una ampia crescita di ottimismo davvero si sentivano molto meglio per le loro prospettive economiche, oppure stavano semplicemente usando il sondaggio come una occasione per riaffermare la giustezza del loro voto?
Ebbene, se i consumatori davvero si percepiscono tanto fiduciosi, non stanno agendo di conseguenza. Il rapporto sul PIL del primo trimestre, mostrando un andamento a rilento della crescita, non era così negativo come sembrava: questioni tecniche che riguardano le giacenze e le correzioni stagionali (non vi ostinate a capirle) significano che probabilmente la crescita implicita era positiva, seppure non straordinaria. Ma la spesa per i consumi era certamente apatica.
In altre parole, i fatti indicano che quando gli elettori di Trump dicono di essere fortemente fiduciosi, è più una dichiarazione della loro identità politica che non una indicazione di quello che si accingono a fare, o anche, forse, di quello che credono effettivamente.
Posso suggerire che i ‘gruppi di discussione’ [1] ed i sondaggi tra gli elettori di Trump stanno raccogliendo qualcosa di simile?
Un principio di base che ho appreso nei miei anni a The Times è che quasi nessuno ammette mai di aver avuto torto su qualcosa – e più sbagli hanno fatto, meno sono disponibili ad ammettere errori. Ad esempio, quando Bloomberg fece un sondaggio su un gruppo di economisti che avevano previsto che le politiche di Ben Bernanke avrebbero provocato una inflazione fuori controllo, letteralmente non poté trovare una solo persona disposta ad ammettere, dopo anni di bassa inflazione, di essersi sbagliata.
Ora, si pensi cosa significhi aver votato per Trump. I media dell’informazione hanno speso gran parte della campagna elettorale indulgendo a un’orgia di false equivalenze [2]: nondimeno, la maggioranza degli elettori probabilmente aveva ricevuto il messaggio che il gruppo dirigente politico mediatico considerava Trump un ignorante ed emotivamente inadatto ad essere Presidente. Dunque, il voto per Trump aveva questa forte caratterizzazione: “Ah sì? Voi elite pensate di essere così intelligenti? Ve lo faremo vedere noi!”.
Ora, come previsto, si scopre che Trump è un ignorante ed ha un temperamento inadatto alla Presidenza. Ma se pensate che questi sostenitori accetteranno questa realtà da un momento all’altro, non dovete saper molto della natura umana. In un modo perverso, la nuda e cruda mancanza di qualità di Trump gli offre una qualche protezione politica: i suoi sostenitori non sono pronti, almeno sinora, ad ammettere di aver fatto un grande sbaglio.
Peraltro, ad essere giusti, sinora il trumpismo non ha un grande effetto sulla vita quotidiana. Di fatto, i maggiori fallimenti di Trump hanno riguardato quello che non è successo, non quello che è successo. Dunque è ancora piuttosto facile liquidare i resoconti giornalistici come tendenziosità dei media, per chi ha tali inclinazioni.
Presto o tardi, tuttavia, questo argine è destinato a saltare.
Ho scelto quella metafora dopo attenta riflessione. Sono abbastanza anziano per ricordare quando George W. Bush era incredibilmente popolare – e se i suoi numeri gradualmente si sgonfiarono dopo il culmine dell’11 settembre, fu un processo lento. Quello che realmente spinse i suoi originari sostenitori ad una riconsiderazione, per come io percepii – e questa percezione venne confermata dai sondaggi – fu il disastro dell’uragano Katrina, nel quale ognuno poté constatare l’insensibilità e l’incompetenza della Amministrazione Bush, che andò in scena dal vivo sulle televisioni.
A cosa somiglierà un momento Katrina nel caso di Trump? Sarà il collasso della assicurazione sanitaria a seguito del sabotaggio della Amministrazione? Una recessione che questa Casa Bianca non avrebbe idea di come gestire? Un disastro naturale o una crisi della salute pubblica? In un modo o nell’altro, è un momento che si sta avvicinando.
Infine, un’ultima osservazione: nel 2006, una maggioranza di coloro che vennero intervistati sostennero di aver votato per John Kerry nel 2004. Sarà interessante, tra un paio di anni, osservare quante persone diranno di aver votato per Donald Trump.
[1] Un focus group (o gruppo di discussione), che nasce negli Stati Uniti ad opera di due sociologi degli anni ‘40 del Novecento, K. Levin e R. Merton[1], è una tecnica qualitativa utilizzata nelle ricerche delle scienze umane e sociali, in cui un gruppo di persone è invitato a parlare, discutere e confrontarsi riguardo all’atteggiamento personale nei confronti di un tema, di un prodotto, di un progetto, di un concetto, di una pubblicità, di un’idea o di un personaggio. Le domande sono fatte in modo interattivo, infatti, i partecipanti al gruppo sono liberi di comunicare con gli altri membri, seguiti dalla supervisione di un conduttore (in genere il ricercatore o un suo assistente). Nel mondo del marketing, i focus group sono uno strumento importante per l’acquisizione di riscontri riguardo ai nuovi prodotti. In particolare, i focus group permettono alle aziende che desiderano sviluppare, nominare o esaminare un nuovo prodotto di discutere, osservare e/o esaminare il nuovo prodotto, prima che esso sia messo a disposizione del pubblico. (Wikipedia)
[2] Nel linguaggio politico americano, ma in particolare di Krugman, la “falsa equivalenza” nei media è l’ostinazione alla equidistanza tra democratici e repubblicani, anche a scapito di una informazione onesta.
By mm
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