JUNE 14, 2017 8:50 PM
Paul Krugman
The days when surging world trade was the big story seem like a long time ago. For one thing, trade has stopped surging, and seems to have plateaued. For another, we have more pressing issues, like the rise of authoritarianism and the attempt to sabotage health care.
But I recently gave a presentation on trade issues, have been playing around with them again, and anyway want to take occasional breaks from the horror of today’s political economy. So I find myself trying to find simple ways to talk about “hyperglobalization,” the surge in trade from around 1990 to the eve of the Great Recession. None of the underlying ideas is new, but maybe some people will find the exposition helpful.
The idea here is to think about the effects of transport costs and other barriers to trade pretty much the same way trade economists have long thought about “effective protection.”
This concept was introduced mainly as a way to understand what was really happening in countries attempting import-substituting industrialization. The idea was something like this: consider what happens if a country places a tariff on car imports, but not on imports of auto parts. What it’s really protecting, then, is the activity of auto assembly, making it profitable even if costs are higher than they are abroad. And the extent to which those costs can be higher can easily be much bigger than the tariff rate.
Suppose, for example, that you put a 20% tariff on cars, but can import parts that account for half the value of an imported car. Then assembling cars becomes worth doing even if it costs 40% more in your country than in the potential exporter: a nominal 20% tariff becomes a 40% effective rate of protection.
Now let’s switch the story around, and talk about a good an emerging market might be able to export to an advanced economy. Let’s say that in the advanced country it costs 100 to produce this good, of which 50 is intermediate inputs and 50 assembly. The emerging market, we’ll assume, can’t produce the inputs, but could do the assembly using imported inputs. There are, however, transport costs – say 10% of the value of any goods shipped.
If we were talking only about trade in final goods, this would mean that the emerging market could export if its costs were 10% less – 91, in this case. But we’ve assumed that it can’t do the whole process. It can do the assembly, and will if its final costs including inputs are less than 91. But the inputs will cost 55 because of transport. And this means that to make exporting work it must have costs less than 91-55=36, compared with 50 in the advanced country.
That is, to overcome 10% transport costs this assembly operation must be 38% cheaper than in the advanced country.
But this in turn means that even a seemingly small decline in transport costs could have a large effect on the location of production, because it drastically reduces the production cost advantage emerging markets need to have. And it leads to an even more disproportionate effect on the volume of trade, because it leads to a sharp increase in shipments of intermediate goods as well as final goods. That is, we get a lot of “value chain” trade.
This, I think, is what happened after 1990, partly because of containerization, partly because of trade liberalization in developing countries. But it’s also looking more and more like a one-time thing.
I now return you to our regularly scheduled Trump coverage.
Un esercizio a spanne sulla iperglobalizzazione,
di Paul Krugman
I giorni nei quali la grande storia era la brusca crescita del commercio mondiale sembrano passati da molto. Da una parte, il commercio ha cessato di crescere e sembra essersi stabilizzato. Dall’altra, abbiamo temi più pressanti, come la crescita dell’autoritarismo e il tentativo di sabotaggio della assistenza sanitaria.
Ma di recente ho tenuto un discorso sui temi del commercio, essendo tornato a trafficare nuovamente con essi, e in ogni modo voglio prendermi qualche occasionale pausa dall’orrore della politica economica odierna. Dunque mi ritrovo a cercare di individuare dei modi semplici per parlare della ‘iperglobalizzazione’, la crescita del commercio da circa il 1990 sino al periodo della Grande Recessione. Nessuna delle idee sottostanti è nuova, ma forse alcune persone troveranno utile l’esposizione.
In questo caso l’idea è pensare agli effetti dei costi di trasporto e ad altre barriere al commercio sostanzialmente nello stesso modo in cui gli economisti del commercio hanno a lungo riflettuto sulla “protezione effettiva” [1].
Questo concetto venne introdotto principalmente come un modo per comprendere cosa stava realmente accadendo nei paesi che cercavano l’industrializzazione attraverso una sostituzione delle importazioni. L’idea era grosso modo questa: si consideri quello che accade se un paese mette in atto una tariffa sulla importazione delle automobili, ma non sulla importazione di parti dei veicoli. Quello che esso sta effettivamente proteggendo, in quel caso, è l’attività di assemblamento delle automobili, rendendola profittevole anche se i costi sono più alti che all’estero. E la misura nella quale quei costi possono essere più alti può essere molto più grande dell’aliquota della tariffa.
Supponiamo per esempio che si stabilisca una tariffa del 20% sulle automobili, ma che si possano importare componenti che valgono la metà del valore di una macchina importata. A quel punto assemblare le automobili diventa conveniente anche se costano il 40% in più nel vostro paese che in quello di un potenziale esportatore: una tariffa nominale del 20% diventa un 40% di quota effettiva di protezione.
Adesso introduciamo un cambiamento nel nostro racconto, e ragioniamo di un bene che un mercato emergente potrebbe essere capace di esportare in una economia avanzata. Diciamo che nell’economia avanzata produrre questo bene ha un costo eguale a 100, 50 dei quali sono i contributi dei beni intermedi e 50 l’assemblaggio. Assumeremo che il mercato emergente non possa produrre quei beni (intermedi), ma potrebbe assemblarli utilizzando beni importati. Ci sono, tuttavia, i costi di trasporto – diciamo pari al 10% del valore di ogni bene spedito.
Se stessimo parlando soltanto del commercio dei beni finali, questo significherebbe che il mercato emergente potrebbe esportare se i suoi costi fossero inferiori al 10% – pari, in questo caso, a 91. Ma noi abbiamo assunto che esso non può realizzare il processo intero. Ma, a causa del trasporto, gli input costeranno 55. E questo significa che per rendere l’esportazione possibile essa dovrà avere costi inferiori a 91-55=36, a confronto dei 50 nel paese avanzato.
Ovvero, per ovviare ai costi di trasporto del 10% questa operazione di assemblaggio deve essere del 38% più economica che nel paese avanzato.
Ma a sua volta questo significa che anche un apparentemente modesto declino nei costi di trasporto potrebbe avere un ampio effetto nella localizzazione della produzione, perché esso ridurrebbe drasticamente il vantaggio nei costi di produzione di cui i mercati emergenti hanno bisogno. E questo porta ad un effetto persino più sproporzionato nel volume del commercio, giacché comporta un brusco incremento nella spedizione dei beni intermedi come dei beni finali. Ovvero, otteniamo molto commercio dalla “catena del valore”.
Questo, penso, sia quello che è successo dopo il 1990, in parte per la containerizzazione, in parte per la liberalizzazione del commercio nei paesi sviluppati.
Ora torno a i nostri regolarmente programmati resoconti su Trump.
[1] In economia, il “tasso effettivo di protezione” è una misura dell’effetto totale dell’intera struttura delle tariffe sul valore aggiunto per unità di prodotto in ciascun settore industriale, quando sia i beni intermedi che quelli finali sono importati. Questa statistica è utilizzata dagli economisti per misurare la quantità reale di protezione consentita ad un settore industriale dalle imposte sull’importazione, dalle tariffe e da altre restrizioni commerciali.
By mm
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