Thomas Picketty
What should we think of the reform of the Labour Code defended by the government? The key measure, and also the one which is most highly criticized, consists in capping the compensation payments for unfair dismissal at one month’s salary per annum per year of seniority (and half a month for each year worked beyond 10 years). In other words, an employer can freely dismiss an employee who has spent over 10 years in the firm, without having to establish the slightest «real and serious cause» ; and without the judge being able to impose on the employer the payment of an indemnity greater than 10 month’s salary. The compensation for an employee who has been with the firm for 30 years cannot exceed 20 months’ salary.
The problem is that the social cost of dismissal, in terms of the payment of unemployment benefits and reclassification, is often much higher. Intended to strengthen recruitment incentives, this amounts to a licence to lay workers off and may well increase the arbitrary power of the employer, developing a feeling of distrust which is not conducive to long-term investment by employees. It may also increase the complaints for harassment or discrimination (which are not capped). It would have been more useful to speed up the judicial procedures and practice which are disgracefully slow in France.
What is really to be regretted is that the government has not even taken this opportunity to strengthen the involvement of the employees in the governance of firms. In particular, the reform would have been much more balanced if at the same time it had been decided to appreciably increase the number of seats for employees on the executive boards of companies, as the CFDT (Conféderation française de travail – one of the main trade unions) requested. This would have enabled the promotion of a genuine European model for economic democracy.
Let’s go back for a moment. Sometimes people think that the rules defining the power of shareholders and employees in joint-stock companies were fixed for once and for all in the 19th century: one share, one vote and that’s it! In reality, this is not true. In the 1950s, the Nordic and German-speaking countries adopted legislation which completely changed this balance. The stated aim was to promote ‘codetermination’, that is genuine power sharing between capital and labour. These rules were consolidated over the decades. At the moment, the employees’ representatives thus hold half of the seats on the executive boards of the major firms in Germany and one-third of these seats in Sweden, independently of any capital shareholding. There is a very broad consensus over the fact that these rules have contributed to an improvement in the involvement of the employees in the strategies of German and Swedish firms and, in the last resort, to greater economic and social efficiency.
Unfortunately until recently this movement towards democratisation has not been adopted by other countries to the extent that one might have imagined. In particular, the role of workers has long been purely consultative in French, British and American firms. In 2014 for the first time, a French law attributed one seat with a decision-making vote to the representatives of the employees on the executive board of companies (one seat in twelve, which remains very low). In the United States and the United Kingdom, shareholders still hold all the seats, even if the debate is becoming increasingly pressing in the UK, driven by the Labour Party, but also by some Conservatives.
Against this background if the French government were to decide to broaden the scope of the movement by introducing an appreciable number of seats for employees (let’s say, between one-third and one-half, so as to converge with the Germano-Nordic axis) this would be a major achievement. It would enable the promotion of a world-wide standard in corporate law and would, in more general terms, contribute to defining a genuine European doctrine in the economic and social sphere. This would be infinitely more interesting and imaginative than the sacrosanct consecration of the principle of free and fair competition characteristic of the European Union.
Recent work by European researchers has also demonstrated that consideration of the Germano-Nordic form of codetermination was far from finished and that this model could even go further and be improved. To get away from these role plays between workers and shareholders which are at times not very fruitful, Ewan McGaughey has suggested that the members of executive boards should be elected by a mix of shareholders and employees. This would thus lead to defending programmes for action combining multiple aspirations. Isabelle Ferreras for her part has defended the idea of genuine bicameralism in firms with shareholders’ councils and worker’s councils being obliged to agree and to adopt the same strategic texts and decisions. Julia Cagé has suggested that the voting rights of hegemonic shareholders should be capped and conversely, that those of the small shareholders and other ‘crowdfunders’ should be raised by the same amount. This model, originally intended for not-for-profit media firms, is based on a non-proportional relation between input in capital and voting rights and could be extended to other sectors.
All these studies have one thing in common: they demonstrate that reflection on power relationships and property, which for a moment was thought to have been annihilated after the Soviet disaster, in reality is only beginning. Europe and France must take their rightful place.
Ripensare il codice del capitale,
di Thomas Picketty
Cosa dovremmo pensare della riforma del Codice del Lavoro sostenuta dal Governo? La misura principale, ed anche quella criticata con più forza, consiste nel mettere un tetto al pagamento dei compensi per ingiusto licenziamento di un salario di un mese all’anno moltiplicato per gli anni di anzianità (e mezzo mese per ciascun anno di lavoro oltre i 10 anni). In altre parole, un datore di lavoro può tranquillamente licenziare chi ha speso oltre dieci anni nella sua impresa, senza dover dimostrare la minima “giusta causa” e senza che il giudice sia nelle condizioni di imporre al datore di lavoro il pagamento di un’indennità maggiore di dieci mesi di salario. Il compenso per un occupato che ha passato nell’impresa 30 anni non può eccedere 20 mesi di salario.
Il problema è che il costo del licenziamento, nei termini del pagamento dei sussidi di disoccupazione e della riqualificazione, è spesso molto più elevato. Con l’argomento di rafforzare gli incentivi al reclutamento, questo corrisponde ad una licenza a licenziare i lavoratori e può facilmente aumentare il potere arbitrario del datore di lavoro, sviluppando un sentimento di sfiducia da parte dei lavoratori che non favorisce gli investimenti a lungo termine. Esso può anche aumentare le rimostranze per forme di persecuzione o discriminazione (alle quali non viene posto alcun limite). Sarebbe stato più utile velocizzare le procedure giudiziali e le pratiche che in Francia disgraziatamente sono lente.
Quello che realmente dispiace è che il Governo non abbia neppure considerato l’opportunità di rafforzare il coinvolgimento degli occupati nel governo delle imprese. In particolare, la riforma sarebbe stata molto più equilibrata se avesse nello stesso tempo deciso di aumentare in modo apprezzabile il numero dei seggi riservati ai dipendenti negli organi esecutivi delle società, come richiesto dalla CFDT (Confederazione Francese del Lavoro – una delle principali organizzazioni sindacali). Questo avrebbe permesso la promozione di un genuino modello europeo di democrazia economica.
Facciamo un passo indietro. Talvolta le persone pensano che le regole che definiscono il potere degli azionisti e dei dipendenti nelle società per azioni siano state fissate una volta per tutte nel 19° secolo: una azione, un voto, tutto qua! In realtà, questo non è vero. Negli anni ’50, i paesi del Nord e di lingua tedesca adottarono una legislazione che cambiò radicalmente questo assetto. Venne stabilito l’obbiettivo di promuovere la ‘codeterminazione’, ovvero una vera e propria condivisione del potere tra il capitale e il lavoro. Nel corso dei decenni quelle regole vennero consolidate. Quindi, a quel punto, i rappresentanti dei lavoratori presero la metà dei seggi negli organi di amministrazione delle principali imprese della Germania e un terzo di quei seggi in Svezia, indipendentemente da ogni partecipazione azionaria al capitale. C’è un consenso molto ampio sul fatto che queste regole abbiano contribuito ad un coinvolgimento dei dipendenti nelle strategie delle imprese tedesche e svedesi e, in ultima istanza, ad una più grande efficienza economica e sociale.
Sfortunatamente sino al periodo più recente questo movimento verso la democratizzazione non è stato adottato da altri paesi nella misura in cui ci si sarebbe attesi. In particolare, il ruolo dei lavoratori è stato puramente consultivo nelle imprese francesi, inglesi e americane. Per la prima volta nel 2014, una legge francese ha attribuito un seggio con il diritto di voto nelle decisioni operative ai rappresentanti dei lavoratori negli organi esecutivi delle società (un seggio su dodici, che resta molto poco). Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, gli azionisti conservano ancora tutti i seggi, anche se il dibattito sta diventando sempre più stringente nel Regno Unito, sulla spinta del Partito Laburista, ma anche di alcuni conservatori.
Se il Governo francese avesse deciso, di contro a questo scenario, di allargare l’ambito della manovra introducendo un numero apprezzabile di seggi per i dipendenti (diciamo da un terzo alla metà, in modo da convergere con l’asse tedesco-nordico), questo sarebbe stato un risultato apprezzabile. Avrebbe permesso la promozione di un criterio di valore mondiale nella legislazione societaria e, in termini più generali, avrebbe contribuito a definire una autentica dottrina europea nella sfera economica e sociale. Sarebbe stato infinitamente più interessante e fantasioso della sacrosanta consacrazione del principio della libera e giusta competizione caratteristico dell’Unione Europea.
Recenti lavori da parte di ricercatori europei hanno anche dimostrato che l’apprezzamento della forma tedesco-nordica della codeterminazione era lungi dall’essere esaurito e che quel modello poteva persino andare oltre ed essere migliorato. Per smarcarsi da queste simulazioni tra lavoratori ed azionisti che talvolta non sono molto fruttuose, Ewan McGaughey ha suggerito che i membri degli organismi esecutivi dovrebbero essere eletti da un mix di azionisti e dipendenti. Questo porterebbe di conseguenza alla difesa dei programmi che combinano ispirazioni multiple. Isabelle Ferraras, da parte sua, ha difeso l’idea di un autentico bicameralismo nelle imprese, con consigli di azionisti e consigli di lavoratori che vengono obbligati a concordare e ad adottare gli stessi temi strategici e le stesse decisioni. Julia Cagé ha suggerito che i diritti di voto degli azionisti più rilevanti dovrebbero avere un limite e che, di converso, quelli dei piccoli azionisti e di altri ‘finanziatori popolari’ dovrebbero essere elevati di una stessa entità. Questo modello, all’origine pensato per le imprese dei media non a scopo di lucro, è basato su una relazione non proporzionale tra apporto di capitali e diritti di voto e potrebbe essere esteso ad altri settori.
Tutti questi studi hanno una cosa in comune: dimostrano che la riflessione sui rapporti di potere e sulla proprietà, che per un certo periodo si pensava fosse stata annichilita dal disastro sovietico, in realtà è solo agli inizi. La Francia e l’Europa dovrebbero assumere una loro legittima posizione.
By mm
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