OCTOBER 8, 2017 12:41 PM
Paul Krugman
I’m still thinking about Kevin Hassett’s appearance at the Tax Policy Center, where he repaid his hosts’ graciousness by gratuitously impugning their integrity. But insults aside, he offered a new analysis of corporate tax incidence – an approach that is novel, innovative, and completely boneheaded. Oh, and it just happens to say what his political masters want to hear.
As I see it, this is part of a broader pattern.
When the financial crisis struck, there were many calls for new economic ideas – even an Institute for New Economic Thinking. The implicit story, pretty much taken for granted as true, was that the crisis proved the inadequacy of economic orthodoxy and the need for fundamental new concepts. Pretty obviously, too, supporters of calls for new thinking had a sort of Hollywood script version of how it would play out: daring innovators would propose radical ideas, would face resistance from old fuddy-duddies, but would eventually win out through their superior ability to predict events.
What actually happened was very different. True, nobody saw the crisis coming. But that wasn’t because orthodoxy had no room for such a thing – on the contrary, panics and bank runs are an old topic, discussed in every principles book. The reason nobody saw this coming was an empirical failure – few realized that the rise of shadow banking had done an end run around Depression-era bank safeguards.
The point was that only the dimmest of free-market ideologues reacted with utter bewilderment. The rest of us slapped our foreheads and said, “Diamond-Dybvig! How stupid of me! Diamond-Dybvig!”
And post-crisis, pretty standard macro worked pretty well. Both fiscal policy and monetary policy did what they were supposed to (or, in the case of money, didn’t do what they weren’t supposed to) at the zero lower bound. Plenty of room for refinement, lots of opportunities to use the mother of all natural experiments for empirical work, but no huge requirement for radical new thinking.
Nonetheless, there was a proliferation of radical new concepts: contractionary fiscal policy is actually expansionary, expansionary monetary policy is actually deflationary, terrible things happen to growth when debt crosses 90 percent of GDP. These ideas instantly got huge amounts of political traction – never mind the fuddy-duddies in the economics establishment, the policy establishment leaped at the chance to apply new ideas.
What did the ideas they leaped at have in common? All of them had, implicitly or explicitly, conservative ideological implications, whether the authors intended that or not. (I’m quite sure that Reinhart-Rogoff weren’t operating out of any political agenda. Not equally sure about others.) And all of them proved, quite quickly, to be dead wrong.
So new economic thinking since the crisis has proved, for the most part, to consist of bad ideas that serve a conservative political agenda. Not exactly the script we were promised, is it?
Once you think about it, it’s not too hard to see how that happened. First of all, conventional macro has worked pretty well, so you’d need really, really brilliant innovations to make a persuasive major break with that conventionality. And really, really brilliant innovations don’t come easy. Instead, the breaks with conventional wisdom came mainly from people who, far from transcending that wisdom, simply failed to understand it in the first place.
And while there are such people on both left and right, there’s a huge asymmetry in wealth and influence between the two sides. Confused views on the left get some followers, provoke a back-and-forth on a few blogs, and generate some nasty tweets. Confused views on the right get mainlined straight into policy pronouncements by the European Commission and the leadership of the Republican Party.
Which brings me back to Hassett. Tax incidence, like macroeconomics, is a technical subject with a mainstream consensus that faces challenges from left and right. But a lot of hard work went into creating that consensus; this doesn’t mean that it’s right, but you have to come up with a really good idea to challenge it effectively.
On the other hand, you can get a lot of political traction with a really bad idea challenging the consensus, as long as it serves the interests of big money and the political right. And that’s what just happened at TPC.
La paccottiglia del nuovo
di Paul Krugman
Sto ancora pensando alla apparizione di Kevin Hassett a Tax Policy Center, nella quale ha ripagato la cortesia dei suoi ospiti mettendo in discussione in modo gratuito la loro integrità morale. Ma, a parte gli insulti, ha offerto una nuova analisi sulla incidenza delle tasse delle società – un approccio che è inedito, innovativo e completamente sciocco. Inoltre, è appena il caso di dire che è quello che i suoi padroni politici vogliono sentir dire.
Per come la vedo, si tratta di un aspetto di uno schema più generale.
Quando esplose la crisi finanziaria, ci furono molti pronunciamenti per nuove idee economiche – persino quello di un Istituto per un Nuovo Pensiero Economico. La storia implicita, considerata abbastanza verosimile, fu che la crisi aveva dimostrato l’inadeguatezza dell’ortodossia economica e la necessità di concetti fondamentalmente nuovi. In modo altrettanto ovvio, i sostenitori dei pronunciamenti per un nuovo pensiero ebbero una sorta di versione da copione hollywoodiano di come sarebbe andata a finire: audaci innovatori avrebbero proposto idee radicali, si sarebbero misurati con la resistenza delle vecchie mummie, ma alla fine avrebbero prevalso per effetto della loro superiore capacità nel prevedere gli eventi.
Quello che accadde effettivamente fu assai diverso. È vero, nessuno vide la crisi in arrivo. Ma non dipese dal fatto che l’ortodossia non aveva spazio per cose del genere – al contrario, le crisi di panico e gli assalti agli sportelli erano vecchie tematiche, discusse in ogni libro di principi generali. La ragione per la quale nessuno la vide arrivare fu di natura empirica – in pochi compresero che l’ascesa di un sistema bancario ombra aveva prodotto una scappatoia alle misure di salvaguardia delle banche dell’epoca della Depressione.
La questione fu che soltanto i più ottusi degli ideologhi del libero mercato reagirono con totale perplessità. Gli altri si diedero uno schiaffo sulla fronte e dissero: “Diamnond-Dybvig [1]! Che stupido che sono! Diamond-Dybvig!”.
E nel dopo crisi, la macroeconomia abbastanza convenzionale funzionò piuttosto bene. Sia la politica della finanza pubblica che quella monetaria fecero quello che si supponeva facessero (oppure, nel caso del denaro non fecero quello che non si supponeva facessero) al livello del limite inferiore dello zero dei tassi di interesse. Grandi margini per miglioramenti, una gran quantità di opportunità per utilizzare la madre di tutti gli esperimenti naturali per le ricerche empiriche, ma nessun particolare bisogno di un nuovo pensiero radicale.
Nondimeno, ci fu una proliferazione di nuovi concetti radicali: la politica del consolidamento della finanza pubblica sarebbe in realtà espansiva, la politica monetaria espansiva sarebbe effettivamente deflazionistica, accadrebbero cose tremende alla crescita quando il debito supera il 90 per cento del PIL. All’improvviso, queste idee ebbero una gran quantità di presa sul piano politico – a prescindere da quanto fossero antiquate nel gruppo dirigente degli economisti, il gruppo dirigente degli uomini politici colse al volo l’occasione di applicare idee nuove.
Cosa avevano in comune le idee delle quali si impossessarono al volo? Avevano tutte, implicitamente o esplicitamente, implicazioni ideologiche conservatrici, che gli autori se ne rendessero o no conto (sono quasi certo che Reinhart-Rogoff non fossero estranei ad una qualche agenda politica. Non altrettanto certo nel caso di altri). E tutte si dimostrarono, abbastanza rapidamente, aver torto marcio.
Dunque, dal momento della crisi, il nuovo pensiero economico si dimostrò, per la parte principale, consistere in cattive idee che erano al servizio di una agenda politica conservatrice. Non esattamente il copione che ci era stato promesso, non è vero?
Se ci si riflette, non è così difficile capire cosa accadde. Prima di tutto, la macroeconomia convenzionale ha funzionato abbastanza bene, dunque c’era bisogno di innovazioni davvero brillanti per realizzare un’importante, persuasiva rottura con quelle convenzioni. E le innovazioni davvero brillanti non compaiono facilmente. Invece, le rotture con i punti di vista convenzionali sono venute principalmente da persone che, lungi dall’oltrepassare quella saggezza convenzionale, anzitutto semplicemente non riuscivano a comprenderla. E se persone del genere c’erano a destra come a sinistra, c’era una grande asimmetria di ricchezza e di influenza tra i due schieramenti. A sinistra, opinioni confuse hanno alcuni seguaci, vanno e vengono su pochi blog, e producono alcuni tweet sgradevoli. Punti di vista confusi sulla destra ottengono diretti accoglimenti nei pronunciamenti politici della Commissione Europea e del gruppo dirigente del Partito Repubblicano.
Il che mi riporta ad Hassett. L’incidenza delle tasse, in quanto macroeconomia, è un tema tecnico con un prevalente consenso, che viene sfidato dalla destra e dalla sinistra. Ma per creare tale consenso c’è voluto un lavoro duro; questo non significa che sia giusto, ma ci vogliono davvero buone idee per metterlo alla prova efficacemente.
D’altra parte, si può avere una grande presa politica con una idea pessima che sfida tale consenso, finché serve gli interessi del grande capitale e della destra politica. Ed è proprio quello che è successo al Tax Policy Center.
[1] Il modello di Diamond-Dybvig (1983) è un modello teorico che si propone di spiegare le modalità attraverso cui si determina un fenomeno di run bancario (corsa agli sportelli), fornendo al contempo una rappresentazione teorica del meccanismo attraverso cui le banche creano liquidità. Il modello rappresenta ad oggi il punto di riferimento teorico per la spiegazione dei fenomeni considerati, e non a caso di esso sono state proposte varie riformulazioni successive. (Wikipedia)
By mm
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