NOVEMBER 8, 2017 2:28 PM
Paul Krugman
At one level, trying to have a serious discussion of the economic impacts of the Cut Cut Cut Act – sorry, the Tax Cuts and Jobs Act – is arguably a waste of time. Republicans who believe, or pretend to believe, that tax cuts will produce an economic miracle, who didn’t change their minds after the Clinton boom, the Bush debacle, the Kansas disaster, and the strength of the economy after 2013 aren’t going to be persuaded by further analytical discussion.
But some of us have spent our lives trying to understand such things, and there are some intellectually interesting aspects of the current tax debate even though the would-be reformers aren’t interested in a real discussion. So let me indulge myself.
The thing is, while Republicans always claim that tax cuts will produce miraculous growth, both the proposed tax cuts and the supposed sources of the miracle are a bit different this time. Instead of focusing on individual tax rates – aside from the estate tax – this time it’s mostly about corporate taxes. And instead of claiming huge increases in work effort from lower marginal rates, they’re mostly claiming that lower corporate taxes will bring huge capital inflows, raising wages and GDP.
There are multiple reasons to be skeptical about these claims; the actual magnitude of any positive effect on GDP is likely to be far smaller than anything Republicans say. The Penn-Wharton model says that GDP in 2027 would be between 0.3% and 0.8% higher with the tax cuts than without, i.e., basically an invisible effect against background noise; and this doesn’t even take into account the longer-run negative effects of discouraging higher education, slashing nutrition programs, and all the other things that will probably happen due to higher deficits.
But let me make a different point: GDP is actually the wrong measure. If you’re going to be pulling in foreign capital, you’re going to be paying more investment income to foreigners; so gross national income – income accruing to domestic residents – is going to go up by less. And surely that’s the measure we care about.
In fact, when you bear in mind the reduced taxes collected on foreign investors who are already here, GNI could actually go down, not up.
One way to say all of this is that Cut Cut Cut would be an attempt to bring a bit of leprechaun economics to the United States. Ireland, famously, is a country where GDP vastly exceeds national income, by a growing margin:
The reason is a low corporate tax rate, which attracts both real foreign investment in capital-intensive sectors – investment that raises GDP but does little for workers – and also creates an incentive to use transfer pricing to make profits appear in Ireland even though they have nothing much to do with Irish activity. Not incidentally, Kevin Hassett appears to be confused about the economics here, imagining that a paper reduction in the US trade deficit due to changes in transfer pricing would bring in real jobs. It wouldn’t.
There are really two bottom lines here. One is that the true growth impacts of Cut Cut Cut would be even more pathetic than the numbers you’ve been hearing. The other is that if you’re going to make international capital flows central to your arguments, you really need to think about the implications for future investment income.
L’economia degli gnomi e il neo-lafferismo [1] , di Paul Krugman
Da un parte, cercare di avere una discussione seria sugli impatti economici della Cut cut cut Act [2] – scusate, la “Tax Cuts and Jobs Act” – è probabilmente una perdita di tempo. I repubblicani che credono, o fingono di credere, che i tagli al fisco produrranno un miracolo economico, che non cambiarono i loro convincimenti dopo il boom di Clinton, dopo la debacle di Bush, dopo il disastro del Kansas e la forza dell’economia dal 2013 non sono destinati ad essere persuasi da un ulteriore discussione analitica. Ma alcuni di noi hanno speso la loro esistenza a cercar di capire cose del genere, e ci sono alcuni aspetti intellettualmente interessanti dell’attuale dibattito fiscale, anche se i presunti riformatori non sono interessati ad un dibattito reale. Dunque, fatemi essere indulgente con me stesso.
Il punto è che questa volta, se i repubblicani sostengono sempre che gli sgravi fiscali produrranno una crescita miracolosa, sia i tagli proposti che le presunte fonti del miracolo sono un po’ diversi. Invece di concentrarsi sulle aliquote fiscali sulle persone – a parte la tassa sul patrimonio – questa volta si tratta soprattutto della tassazione sulle società. E anziché sostenere enormi incrementi nel tentativo di operare a seguito di aliquote marginali più basse, si sostiene soprattutto che tasse più basse sulle società comporterebbero grandi flussi in ingresso di capitali, aumentando i salari ed il PIL.
Ci sono varie ragioni per essere scettici su queste pretese; l’effettiva ampiezza di qualsiasi effetto positivo sul PIL è probabile che sia di gran lunga più modesta di tutto quello che dicono i repubblicani. Il Modello Penn-Wharton dice che il PIL nel 2027 sarebbe più alto con gli sgravi fiscali che senza, tra lo 0,3 e lo 0,8%, ovvero fondamentalmente un effetto invisibile rispetto a un rumore di fondo; e questo senza neppure mettere nel conto gli effetti negativi di lungo periodo derivanti dallo scoraggiare una istruzione superiore, dall’abbattere i programmi alimentari, e da tutte le altre cose che probabilmente accadranno a seguito di deficit più elevati.
Ma fatemi avanzare una considerazione diversa: il PIL è in effetti un metro di misura sbagliato. Se si intende far leva sul capitale straniero, si è destinati a pagare di più il reddito da investimenti agli stranieri; dunque il reddito nazionale lordo – quello che matura dai residenti nazionali – è destinato a salire di meno. Ed è certamente quella la misura di cui ci occupiamo.
Di fatto, quando si tengono a mente le minori tasse raccolte sugli investitori stranieri che già operano qua, il Reddito Nazionale Lordo potrebbe effettivamente scendere, non salire.
Un modo per esprimere tutto questo è che il Cut Cut Cut sarebbe un tentativo di portare un po’ di economia degli gnomi [3] negli Stati Uniti. È noto che l’Irlanda è un paese nel quale il PIL eccede ampiamente il reddito nazionale, di un margine crescente:
La ragione è che un’aliquota fiscale per le società bassa, che attrae investimenti reali stranieri in settori ad alta intensità di capitale – investimenti che aumentano il PIL ma fanno poco per i lavoratori – e crea anche un incentivo ad usare il transfer pricing [5] per fare profitti, compare in Irlanda anche se non ha molto a che fare con l’attività irlandese. Non casualmente, Kevin Hassett sembra in questo caso far confusione tra due economie, immaginando che una riduzione cartacea del deficit commerciale degli Stati Uniti dovuta ai cambiamenti nel transfer pricing porti reali posti di lavoro. Non è così.
In realtà, in questa vicenda ci sono due morali. Una è che i veri impatti di crescita del Cut Cut Cut sarebbero persino più insignificanti dei numeri che sono in circolazione. L’altra è che se siete intenzionati a fare dei flussi in ingresso dei capitali internazionali il punto centrale dei vostri argomenti, avete davvero bisogno di ragionare sulle implicazioni del futuro reddito da investimenti.
[1] Arthur Betz Laffer (Youngstown, 14 agosto 1940) è un economista statunitense, sostenitore della Supply side economics. Divenne molto influente negli anni dell’amministrazione Reagan, tanto da esserne uno dei massimi consiglieri economici. Dunque, per “neolafferismo” si intende un ritorno alla economia reaganiana basata sulla pretesa che grandi sgravi fiscali sui più ricchi si sarebbero un po’ alla volta trasferiti sui ceti minori e medi.
[2] È il titolo che Trump avrebbe voluta per la proposta di legge sul fisco, significa “Legge del taglia taglia taglia”. Pare nvece che la chiamino Legge sui tagli alle tasse e sui posti di lavoro.
[3] È noto che il “leprechaun” – il folletto, lo gnomo vestito di verde e con una pipa in mano – è una figura centrale della mitologia irlandese. Per capire in che senso si parla di una economia degli gnomi, può essere utile questo brano da un articolo apparso il 5 di ottobre sul Sole-24 Ore.
“Il primo creditore è la Cina, colosso mondiale dell’export. Il secondo è il Giappone, patria di colossali fondi pensione e compagnie di assicurazioni vita che devono per forza coprirsi con titoli di Stato a lungo termine. Fin qui nessuna sorpresa. Ma è quando alziamo il velo sul terzo posto che entriamo a gamba tesa nella fantascienza: il terzo creditore degli Stati Uniti non è la Germania peso massimo industriale, o la Gran Bretagna regno della finanza, ma la minuscola e remota Irlanda. Sembra incredibile ma è vero: secondo i dati diffusi pochi giorni fa dal Treasury International Capital, Dublino detiene in portafoglio qualcosa come 310 miliardi di dollari di titoli di Stato Usa, una cifra superiore al suo stesso prodotto interno lordo.”
[4] Il diagramma mostra il rapporto percentuale tra il Reddito Nazionale Lordo e il PIL, che in un paese come l’Irlanda – linea rossa più grande – a partire dagli anni ’80 si colloca attorno al 120% del PIL.
[5] L’espressione transfer pricing identifica il procedimento per determinare il prezzo appropriato, in gergo transfer price, nel trasferimento della proprietà di beni/servizi/intangibili attraverso operazioni infra-gruppo. Il transfer pricing trova ampia applicazione nel determinare il valore normale dei prezzi o dei profitti relativi ad operazioni che intercorrono tra due imprese collegate residenti in paesi a fiscalità diverse (cross-border) come ad esempio due controparti di una multinazionale. Le transizioni infra-gruppo sono dette in gergo “controlled transactions” e sono distinte da quelle che si realizzano tra imprese che non sono collegate e che si assume operino indipendentemente nello stabilire termini e condizioni della transazione (ossia alle condizioni di libero mercato in gergo on an arm’s length basis).
Il transfer pricing interessa le Autorità fiscali a prescindere da livello di tassazione effettiva vigente nei Paesi in cui sono residenti o localizzate le imprese del gruppo coinvolte. La disciplina dei prezzi di trasferimento è infatti rivolta a proteggere l’erosione della base imponibile nazionale ed assicurare la corretta ripartizione impositiva tra Stati.
Ciò che l’Autorità fiscale rileva è la discrepanza tra il valore di vendita di un bene ad una società del gruppo e il valore di vendita dello stesso bene sul libero mercato. L’applicazione dei metodi di transfer pricing aiutano quindi ad assicurare che la transazione sia conforme o meno al valore normale (arm’s length standard). (Wikipedia)
By mm
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