Letture e Pensieri sparsi, di Marco Marcucci

Caporetto

Caporetto

In occasione del centenario della disfatta di Caporetto sono usciti tre libri tutti interessanti, diversi nello stile ma in fondo assai convergenti nei giudizi. Hanno tutti e tre lo stesso titolo: “Caporetto”, dal nome del paese che è la punta di un triangolo isoscele rovesciato sull’alto fronte dell’Isonzo, tra Tolmino e Plezzo. Gli autori sono: Alessandro Barbero (Laterza, ottobre 2017), Alfio Caruso (Longanesi, 2017) e Nicola Labanca (Il Mulino, 2017). Storici ma anche giornalisti e scrittori di romanzi i primi due, storico puro il terzo.

Scrisse Von Clausewitz che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Ma i mezzi della guerra spesso distruggono le fondamenta della politica e, se la proseguono, è anche vero che provocano novità straordinarie, al punto che modificano radicalmente le società per secoli interi, chiunque le vinca o le perda. Quando poi gli storici militari raccontano le guerre, questi stravolgimenti spesso si perdono, perché alle guerre è consentito il privilegio di distruggere le civiltà politiche senza doverne dar conto. Ovvero, per dirla in francese: “à la guerre comme à la guerre”. Rileggere, nell’anno del centenario, la storia della rotta di Caporetto è particolarmente interessante alla luce di questo pensiero, della cui banalità mi devo scusare.

Anzitutto, prima della guerra fu necessario un colpo di Stato, di solito espunto dalla nostra storia, o almeno sottovalutato. Come è noto l’Italia entrò in guerra senza alcuna decisione del Parlamento e dopo che Salandra e Sonnino avevano segretamente sottoscritto a Londra gli accordi con i nuovi alleati. Ma il colpo di Stato si completò con un nuovo assetto del potere, che concesse per tre anni a Cadorna poteri che, come scriveva Angelo Del Boca in un suo libro del 2005, non avrebbe avuto neppure Mussolini.

Non è un’esagerazione; la dittatura bellica di Cadorna fu tutta nella sua strategia militare che fondamentalmente si risolse, prima della disfatta, nell’indirizzare ben undici presunte “spallate” contro l’esercito austro-ungarico, con conquiste di territorio non irrilevanti ma modeste, rispetto alla previsione di arrivare facilmente a Trieste e poi a Lubiana e Vienna. Una strategia militare pazzesca, alla luce della successiva disfatta, ma basata su un concetto assai semplice e perseguito senza alcuna distrazione: finché si possedevano riserve di milioni di giovani contadini da mandare al macello, quella era la nostra carta principale. Costò la perdita di quasi 800.000 soldati, tra morti, feriti, dispersi e prigionieri, ma il Capo considerava di avere a disposizione il richiamo delle generazioni del 1899 e del 1900. E comunque considerava le sue dotazioni alla stregua di un materiale subumano, non esitava quotidianamente a parlarne con disprezzo. Era fantascienza ragionare di come operare per dare coesione e motivazioni al suo esercito, ad esempio con alimentazioni adeguate, con pause, con periodi di licenza. Quando parlava dei suoi soldati, in genere era per ricordare agli ufficiali che l’unico modo per tenere assieme quell’esercito di contadini cafoni e di operai sovversivi consisteva nell’abbondare nelle fucilazioni.

Potevamo avere evidenti lacune negli armamenti, soprattutto nella dotazione di mitragliatrici e di cannoni; potevamo avere un sistema di comunicazioni tutto collocato in superficie che si sbriciolò sotto i precisi bombardamenti dell’esercito nemico e che impedì ai comandi, nelle giornate dell’offensiva austro-tedesca,  di avere una minima percezione di quello che stava accadendo; potevamo avere una concentrazione di forze nella zona meridionale del fronte dell’Isonzo (Canale, Gorizia, Monfalcone) e una presenza di prime linee sull’alto fronte assai più modesta (si veda l’illuminante carta n. 5 nel libro di Barbero), ma il Generalissimo non credette sino alla vigilia, nonostante le informazioni che quotidianamente venivano  dai disertori, ad una offensiva avversaria. Del resto, abituati ad una strategia offensiva, escludendo di doversi mai difendere da un attacco nemico che si sviluppò con la tecnica della “infiltrazione” (ovvero della concentrazione dell’offensiva su aree ristrette e del successivo aggiramento degli altri settori arretrati delle cosiddette divisioni di riserva), non ci si preoccupò per niente di concepire un rincalzo efficiente e trincerazioni adeguate. La sconfitta di Caporetto si trasformò facilmente nella rotta dell’intero esercito.

Il calcolo era tutto nella ampiezza della macelleria, e la disciplina si basava tutta nell’uso delle decimazioni, che furono nell’esercito italiano multiple, rispetto agli altri eserciti.

Ma Caporetto non mi pare per niente somigliante alla guerra di posizione che si aspettava decidesse le sorti sul fronte principale, quello occidentale franco-tedesco. Particolarmente il libro di Barbero offre una ricostruzione dell’evento anche sul versante dei comandi degli eserciti avversari (soprattutto dei tedeschi, che sul piano della strategia militare si può dire idearono e guidarono l’offensiva). In quelle pagine si comprende come non solo furono decisive le debolezze dell’esercito italiano, fu anche decisiva la comprensione di quelle debolezze da parte degli avversari. La scelta di un attacco sull’alto fronte dell’Isonzo e l’idea di poter dilagare sino al Tagliamento – nessuno allora si immaginava di poter provocare una rotta che arrivasse al Piave – era conseguente ad una precisa idea: che lo sfondamento poteva e doveva avere le caratteristiche di una strategia di movimento, dell’infiltrazione e dell’aggiramento delle forze nemiche o comunque della rapidità e dello slancio nell’offensiva. Una attenta riflessione e preparazione aveva condotto ad immaginare che potesse funzionare una offensiva concentrata sui punti di debolezza degli avversari, che erano principalmente tre: non aver dislocato forze e armamenti adeguati su quei settori in fondo ristretti (una insufficiente correzione nelle dislocazioni avvenne, con modalità penose, negli ultimi giorni, addirittura nelle ultime ore); non essersi preparati a dirigere in tempo reale la battaglia con un sistema di comunicazioni efficiente, mentre il fattore determinante diventava la rapidità e lo slancio dell’offensiva; in fondo non essere neanche preparati ad organizzare il rincalzo, le armi e le trincee, delle seconde linee.    Dunque, il racconto di Caporetto, pagina dopo pagina, non mostra una inferiorità complessiva delle forze in campo italiane, mostra soprattutto una minore intelligenza militare. La disfatta non fu degli eserciti o delle società che operavano dietro quegli eserciti, fu soprattutto una disfatta della miopia  dei Comandi.

I vari aspetti tecnici di quella strategia sono tutti interessanti, e non si possono sintetizzare in poche righe. Ma quello che stupisce per la sua chiarezza, in fondo, è proprio il nesso tra guerra e politica. Il colpo di Stato Salandra-Sonnino-Cadorna aveva prodotto questo effetto: che al terzo vennero assegnati poteri da dittatore romano, salvo, dopo Caporetto, licenziarlo (ma soprattutto per la pressione che a quel punto venne dagli anglo-francesi, che la posero come condizione per impegnarsi direttamente sul fronte italo-austriaco). Forse è vero che la guerra continuò con altri mezzi la politica; ma continuò la politica delle cannonate sul popolo di Bava Beccaris, con il medesimo disprezzo per contadini e proletari e con potentissimo vigore, dato che il colpo di Stato aveva fornito ristrette classi dirigenti di un inusitato potere dittatoriale.

Tutti e tre i libri sono concordi, mi pare, nel mettersi alle spalle un dilemma inesistente: fu decisivo nel determinare la rotta dell’esercito il disastro di quella conduzione militare, o fu decisivo quello che si chiamò “lo sciopero dei soldati”? Dilemma che sottende un’altra domanda: come avvenne, dopo Caporetto, la resistenza sul Piave e la offensiva finale vincente sino al successo, per quanto assai propagandistico, di Vittorio Veneto?

Come è noto fu per primo Cadorna che, nei giorni della disfatta, accusò di disfattismo e di viltà ampi settori del suo esercito, influenzati a suo dire dal pacifismo del ‘fronte interno’. Era coerente con una mentalità apertamente razzistica nei confronti della povera gente, e gli servì per scansare per qualche giorno ogni responsabilità. Ma non ci volle molto, non ci vollero i primi libri di storia, per cominciare a parlare delle immani colpe sue e di altri generali (l’unico che effettivamente scansò le accuse che si sarebbe ben meritato fu Pietro Badoglio, e neanche oggi è chiaro come ci riuscì).

Ma lo ‘sciopero’, la voglia di farla finita, di rivolgere magari l’ultima spallata verso le classi dirigenti italiane, comunque la voglia di pace – che fu così evidente nell’abbandono delle armi da parte di decine di migliaia di soldati – ci furono, eccome. E probabilmente – nel dipanarsi del filo che teneva legata la guerra e la politica – quello sciopero (che in Russia aveva contribuito alla Rivoluzione dell’Ottobre, ma anche in Francia aveva in precedenza portato alla ‘primavera degli ammutinamenti’), servì a riproporre una diversa combinazione di guerra e politica. La sconfitta di quella dittatura militare fu, in fondo, uno spazio di dignità che non si era mai visto negli anni precedenti. Ricominciò una guerra, che per fortuna in alcuni mesi andò al termine, nella quale si ebbe la sensazione di non essere soltanto carne da macello. Avere un fronte e una nazione da difendere era certo più comprensibile che immaginarsi di arrivare sino a Vienna accatastando cadaveri. Caporetto sfociò, in fondo realisticamente, nel Piave. E non dipese dal fatto che gli italiani sono geneticamente più bravi a resistere, nello stesso modo in cui la successiva Resistenza non dipese dal crollo dl fascismo. Furono due occasioni nelle quali agli italiani fu semplicemente possibile contribuire a interrompere dittature.

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