Paul Krugman JAN. 1, 2018
On election night 2016, I gave in temporarily to a temptation I warn others about: I let my political feelings distort my economic judgment. A very bad man had just won the Electoral College; and my first thought was that this would translate quickly into a bad economy. I quickly retracted the claim, and issued a mea culpa. (Being an old-fashioned guy, I try to admit and learn from my mistakes.)
What I should have clung to, despite my dismay, was the well-known proposition that in normal times the president has very little influence on macroeconomic developments — far less influence than the chair of the Federal Reserve.
This only stops being true when the economy is so depressed that monetary policy loses traction, as was the case in 2009-10; at that point it mattered a lot that Obama was willing to engage in fiscal stimulus, and it also mattered a lot, unfortunately, that Republican opposition plus Obama’s own caution meant that the stimulus was much smaller than it should have been. By 2016, however, the aftershocks of the financial crisis had faded away to the point that the usual rules once again applied.
Indeed, if we could find an economist who didn’t know that there was an election in 2016, and showed her the economic data for the past couple of years, she would have no clue that something drastic happened:
For that matter, economic developments in the U.S. during Trump’s first year were remarkably similar to developments in other advanced countries. Europe, in particular, has at least for now emerged from the shadow of the euro crisis, and is steadily growing — if you take its lower population growth into account, it’s doing a bit better than the US:
So we’re living in an era of political turmoil and economic calm. Can it last?
My answer is that it probably can’t, because the return to normalcy is fragile. Sooner or later, something will go wrong, and we’re very poorly placed to respond when it does. But I can’t tell you what that something will be, or when it will happen.
The key point is that while the major advanced economies are currently doing more or less OK, they’re doing so thanks to very low interest rates by historical standards. That’s not a critique of central bankers. All indications are that for whatever reason — probably low population growth and weak productivity performance — our economies need those low, low rates to achieve anything like full employment. And this in turn means that it would be a terrible, recession-creating mistake to “normalize” rates by raising them to historical levels.
But given that rates are already so low when things are pretty good, it will be hard for central bankers to mount an effective response if and when something not so good happens. What if something goes wrong in China, or a second Iranian revolution disrupts oil supplies, or it turns out that tech stocks really are in a 1999ish bubble? Or what if Bitcoin actually starts to have some systemic importance before everyone realizes it’s nonsense?
I’m not predicting any of these things, and when the next big shock comes it will probably come from some direction I haven’t thought of. But when it does come, we’ll need an effective, coherent response from officials beyond the world of central banking.
So imagine such an event happening soon. How confident would you feel in the team of Donald Trump and Steve Mnuchin? How much leadership could a weakened Angela Merkel exert in a fragmented Europe?
You might have thought that such concerns would weigh on markets even now. But for whatever reason, investors are currently in what-me-worry mode. And let’s hope that they’re right — that by the time stuff happens, we’ll actually have non-delusional people in charge.
L’economia può mantenere la calma e andare avanti?
Di Paul Krugman
Nella notte delle elezioni del 2016, cedetti temporaneamente alla tentazione di mettere in guardia gli altri su una possibilità; permisi che le mie sensazioni politiche distorcessero il mio giudizio economico. Un pessimo individuo aveva appena ottenuto i voti del Collegio Elettorale e il mio primo pensiero fu che questo si sarebbe tradotto rapidamente in una cattiva situazione economica. In breve tempo ritrattai quella pretesa e recitai un mea culpa (essendo una persona all’antica, cerco di ammettere i miei errori e di imparare da essi).
Avrei dovuto restare fedele, nonostante il mio sgomento, al concetto ben noto secondo il quale in tempi normali un Presidente ha ben poca influenza sugli sviluppi macroeconomici – una influenza assai minore di quella del Presidente della Federal Reserve.
Tutto questo cessa di essere vero quando l’economia è così depressa che la politica monetaria perde la sua capacità di presa, come avvenne nel 2009-10; a quel punto contò molto che Obama fosse disposto ad impegnarsi nello stimolo della finanza pubblica, e contò anche molto, sfortunatamente, che l’opposizione repubblicana sommata alla cautela di Obama comportassero che lo stimolo fosse molto più piccolo di quello che avrebbe dovuto essere. Col 2016, tuttavia, le scosse di assestamento della crisi finanziaria si erano a tal punto affievolite che tornarono ad applicarsi le regole usuali.
In effetti, se potessimo trovare una economista che non era al corrente che nel 2016 c’erano state le elezioni, e le mostrassimo i dati economici dei due anni passati, ella [1] non avrebbe avuto alcun indizio che era accaduto qualcosa di grave:
Per quella ragione, gli sviluppi economici negli Stati Uniti durante il primo anno di Trump sono stati considerevolmente simili agli sviluppi negli altri paesi avanzati. L’Europa in particolare è almeno sinora emersa dalle ombre della crisi dell’euro, e sta crescendo stabilmente – se mettete nel conto la crescita più bassa della popolazione, sta andando un po’ meglio degli Stati Uniti:
Stiamo dunque vivendo in un’epoca di trambusto politico e di calma dell’economia? Può durare? La mia risposta è che probabilmente non può durare, perché il ritorno alla normalità è fragile. Prima o poi qualcosa andrà storto, e quando accadrà noi saremo collocati in modo molto disagevole per rispondere. Ma non posso dirvi cosa sarà quel qualcosa, o quando accadrà.
La questione centrale è che se attualmente le principali economie avanzate stanno andando più o meno bene, si stanno comportando così grazie ai tassi di interesse molto bassi secondo le serie storiche. Questa non è una critica ai banchieri centrali. Tutte le indicazioni ci dicono che per qualsiasivoglia ragione – probabilmente per una crescita bassa della popolazione e per un andamento debole della produttività – le nostre economie hanno bisogno di tassi molto bassi per realizzare qualcosa di simile alla piena occupazione. E questo a sua volta significa che sarebbe un terribile errore, che creerebbe recessione, “normalizzare” i tassi rialzandoli a livelli storici.
Ma dato che i tassi sono già così bassi quando le cose sono abbastanza positive, sarà difficile per i banchieri centrali organizzare una risposta efficace se e quando accadesse qualcosa di non così positivo. Cosa accade se qualcosa non va per il verso giusto in Cina, o se una seconda rivoluzione iraniana mette nel caos le offerte di petrolio, o cosa accadrebbe se le azioni nel settore dell’alta tecnologia fossero davvero dentro una bolla simile a quella del 1999? [4] Oppure cosa accade se il Bitcoin effettivamente comincia ad avere un qualche importanza di sistema prima che tutti comprendano la sua insensatezza?
Non sto predicendo nessuna di queste cose, e quando il prossimo grande trauma verrà, probabilmente deriverà da qualche direzione alla quale non ho pensato. Ma quando davvero arriverà, avremo bisogno di una efficace e coerente risposta da parte rei responsabili che stanno oltre il mondo delle banche centrali.
Immaginiamo dunque che un tale evento avvenga prossimamente. Quanta fiducia avreste nella squadra di Donald Trump e di Steve Mnuchin? Quanta capacità di direzione potrebbe esercitare una indebolita Angela Merkel in un’Europa frammentata?
Potreste aver pensato che preoccupazioni del genere dovrebbero pesare sui mercati anche adesso. Ma per una qualche ragione, gli investitori sono attualmente nella modalità del “chi se ne frega”. E speriamo che abbiano ragione – che nel tempo necessario perché le cose accadano, avremo effettivamente in carica individui non deliranti.
[1] Confesso la mia ignoranza, ma non conosco per quale eventuale regola talora – seppur raramente – si hanno queste versioni ‘al femminile’ di frasi ordinarie, senza che nessuna ragione apparente lo giustifichi. Potrebbe trattarsi di un semplice lodevole criterio di equità, applicato casualmente. Oppure potrebbe esistere un riferimento implicito che lo giustifica, che in questo caso non so quale possa essere.
[2] La tabella mostra l’andamento dal 2012 alla fine del 2017 degli occupati totali nei settori non agricoli.
[3] Gli andamenti del PIL reale in Europa (linea blu) e negli Stati Uniti (linea rossa), dal 2006 ad oggi.
[4] La Bolla nel settore delle nuove tecnologie (delle Dot-com; in inglese Dot-com Bubble) è stata una bolla speculativa sviluppatasi tra il 1997 e il 2000 (ovvero quando l’indice NASDAQ, il 10 marzo 2000, raggiunse il suo punto massimo a 5132.52 punti nel trading intraday prima di chiudere a 5048.62 punti). Durante questo periodo la capitalizzazione dei mercati dei paesi più industrializzati vide un rapido aumento del valore delle aziende attive nell’ambito di Internet e nei relativi settori.
Il periodo fu segnato dalla fondazione (e conseguenti fallimenti) di un numero elevato di nuove aziende con scopo sociale di svolgere attività nel settore Internet (e più in generale il settore informatico) generalmente chiamata Dot-com; erano compagnie scarsamente capitalizzate, di piccole dimensioni (in molti casi con un solo azionista fondatore), molto esposte in un settore fortemente sovrastimato ovvero una condizione fondamentale alla base delle bolle speculative.
Una combinazione di rapido incremento dei prezzi delle azioni, la convinzione del mercato che le società in oggetto avrebbero prodotto dei profitti in futuro, speculazione individuale sulle azioni e la presenza di numerosi Venture capital crearono un ambiente in cui molti investitori trascurarono i tradizionali parametri di valutazione come il Price earnings ratio in favore della convinzione nel progresso tecnologico.
Il collasso della bolla si ebbe tra il 2000 ed il 2001. Alcune società, come Pets.com, fallirono completamente, mentre altre persero una larga parte della loro capitalizzazione di mercato rimanendo comunque solide e redditizie come Cisco Systems, le cui azioni persero circa l’86%. Altre negli anni successivi sorpassarono il prezzo massimo raggiunto all’apice della bolla delle Dot-com come Amazon.com le cui azioni passarono da 107 a 7 dollari ma nel decennio successivo superarono i 950 dollari per azione. (Wikipedia)
By mm
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