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Alla fine l’euforia trumpiana è andata a sbattere contro un muro? (Di Paul Krugman, New York Times 5 febbraio 2018)

 

Has Trumphoria Finally Hit a Wall?

Paul Krugman FEB. 5, 2018

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When talking about stock markets, there are three rules you have to remember. First, the stock market is not the economy. Second, the stock market is not the economy. Third, the stock market is not the economy.

So the market plunge of the past few days might mean nothing at all.

On one side, don’t assume that there was a good reason for the slide (although the fact that the Dow fell 666 points on Friday hints either at satanic forces or at some mystical link with the Kushner family’s bum investment at 666 Fifth Avenue). When stocks crashed in 1987, the economist Robert Shiller carried out a real-time survey of investor motivations; it turned out that the crash was essentially a pure self-fulfilling panic. People weren’t selling because some news item caused them to revise their views about stock values; they sold because they saw that other people were selling.

And on the other side, don’t assume that the stock price decline tells us much about the economic future, either. The great economist Paul Samuelson famously quipped that the stock market had predicted nine of the past five recessions. That 1987 crash, for example, was followed not by a recession, but by solid growth.

Still, market turmoil should make us take a hard look at the economy’s prospects. And what the data say, I’d argue, is that at the very least America is heading for a downshift in its growth rate; the available evidence suggests that growth over the next decade will be something like 1.5 percent a year, not the 3 percent Donald Trump and his minions keep promising.

There are also suggestions in the data that risky assets in general — stocks, but also long-term bonds and real estate — may be overpriced. Leaving Bitcoin madness aside, we’re not talking dot-coms in 2000 or houses in 2006. But standard indicators are well above historically normal levels, and a reversion toward those norms could be painful.

About that plummet: If there was any news item behind it, it was Friday’s employment report, which showed a significant although not huge rise in wages. Now, rising wages are a good thing. In fact, the failure of wages to rise much until now has been a deeply frustrating deficiency in the otherwise impressively durable economic recovery that began early in the Obama administration.

But we’re now seeing fairly strong evidence that the U.S. economy is nearing full employment. The low measured unemployment rate is only part of the story. There’s also the growing willingness of workers to quit their jobs, something they don’t do unless they’re confident of finding new employment. And now wages are finally rising, suggesting that workers are gaining bargaining power, too.

Again, this is all good news. But it does mean that future U.S. growth can’t come from putting the unemployed back to work. It has to come either from growth in the pool of potential workers or from rising productivity, that is, more output per worker.

Yet with baby boomers retiring, growth in the U.S. working-age population, especially in prime working years, has slowed to a crawl, while productivity growth has been disappointing. Together, these factors suggest an economy likely to grow only half as fast as Trump promises.

Did the markets believe Trump? At the very least, they’ve been acting as if the U.S. economy still had lots of room to run; throwing cold water on that belief should mean both higher interest rates and lower stock prices, which is what we’re seeing.

But should we be worried about something worse than a mere downshift in growth?

Well, asset prices do look high: A widely used gauge of stock valuations puts them at a 15-year high, while a conceptually similar measure says that housing prices have retraced a bit less than half the rise that culminated in the great housing bust.

Individually, these numbers aren’t that alarming: Stocks, as I said, don’t look nearly as overvalued as they did in 2000, housing not nearly as overvalued as it was in 2006. On the other hand, this time both markets look overvalued at the same time, at least raising the possibility of a double-bubble burst like the one that hit Japan at the end of the 1980s.

And if asset prices take a hit, we might expect consumers — who have been spending heavily and saving very little — to pull back.

Still, all of this would be manageable if key policymakers could be counted on to act effectively. Which is where I get worried.

It’s surely not a good thing that Trump got rid of one of the most distinguished Federal Reserve chairs in history just before markets started to flash some warning signs. Jerome Powell, Janet Yellen’s replacement, seems like a reasonable guy. But we have no idea how well he would handle a crisis if one developed.

Meanwhile, the current secretary of the Treasury — who declared of Davos, “I don’t think it’s a hangout for globalists” — may be the least distinguished, least informed individual ever to hold that position.

So are we heading for trouble? Too soon to tell. But if we are, rest assured that we’ll have the worst possible people on the case.

 

Alla fine l’euforia trumpiana è andata a sbattere contro un muro? Di Paul Krugman.

New York Times 5 febbraio 2018

Quando si parla di mercati azionari, ci sono tre regole da tenere a mente. La prima, il mercato azionario non è l’economia. La seconda, il mercato azionario non è l’economia. La terza, il mercato azionario non è l’economia.

Dunque, la caduta del mercato dei giorni passati potrebbe non significare proprio niente.

Da una parte, non diamo per scontato che ci fosse una buona ragione per lo scivolone (sebbene il fatto che venerdì il Dow sia calato di 666 punti allude sia a forze sataniche che a qualche mistica connessione con gli investimenti con poco sforzo della famiglia Kushner, al 666 della Fifth Avenue [1]).  Quando le azioni crollarono nel 1987, l’economista Robert Shiller eseguì un sondaggio in tempo reale sulle motivazioni degli investitori; si scoprì che il crollo era stato essenzialmente un puro fenomeno di panico che si era auto alimentato. La gente non stava vendendo perché un qualche servizio informativo l’aveva indotta a rivedere i propri punti di vista sui valori delle azioni; vendevano perché avevano visto che altre persone stavano vendendo.

E d’altra parte non diamo neanche per scontato che il calo del prezzo delle azioni ci dica granché del futuro dell’economia. Il grande economista Paul Samuelson notoriamente fece una battuta sul mercato azionario, che nel periodo delle ultime cinque recessioni ne aveva previste ben nove. Quel crollo del 1987, ad esempio, non fu seguito da una recessione, ma da un periodo di solida crescita.

Tuttavia, il trambusto nei mercati potrebbe indurci a guardare con occhio critico alle prospettive dell’economia. E quello che mi pare che i mercati dicano è che, come minimo, l’America si sta indirizzando verso un rallentamento del suo tasso di crescita; le prove disponibili indicano che la crescita nel corso del prossimo decennio sarà grosso modo dell’1,5 per cento all’anno, non il 3 per cento che Donald Trump e i suoi galoppini continuano a promettere.

Nei dati ci sono anche indicazioni per le quali gli asset rischiosi – le azioni, ma anche i bond a lungo termine e il settore immobiliare – possono avere prezzi eccessivi. A parte la follia dei Bitcoin, non stiamo parlando della crisi delle imprese del commercio elettronico del 2000, e neppure dei valori immobiliari del 2006. Ma gli indicatori comunemente utilizzati sono ben al di sopra dei normali livelli storici, e una inversione verso quella normalità potrebbe essere dolorosa.

A proposito della rapida caduta: se dietro di essa ci fosse la diffusione di qualche notizia, essa non potrebbe essere altro che il rapporto sull’occupazione di venerdì, che ha mostrato una significativa, sebbene non sensazionale, crescita dei salari. Che i salari crescano è una buona cosa. Di fatto, la mancata crescita significativa dei salari sino ad oggi è stata un difetto profondamente frustrante nella altrimenti impressionante e duratura ripresa economica che ebbe inizio nei primi tempi della Amministrazione Obama.

Ma adesso stiamo osservando prove abbastanza persuasive secondo le quali l’economia americana si sta avvicinando alla piena occupazione. C’è anche la crescente disponibilità dei lavoratori a cambiare il loro posto di lavoro, cosa che non farebbero se non fossero fiduciosi di trovare nuova occupazione. E adesso i salari stanno finalmente crescendo, il che indica anche che i lavoratori stanno aumentando forza contrattuale.

Anche questa non è altro che una buona notizia. Ma comporta che la crescita futura degli Stati Uniti non può derivare dal rimettere i disoccupati al lavoro. Essa deve derivare dalla crescita del bacino dei potenziali lavoratori o dall’aumento della produttività, ovvero da una produzione maggiore per singolo lavoratore.

Tuttavia con il pensionamento della generazione dei baby-boomers, la crescita della popolazione statunitense in età lavorativa, particolarmente nei primi anni di occupazione, si trascina lentamente, mentre la crescita della produttività è stata deludente. Considerati assieme, questi fattori indicano un’economia che è probabile cresca solo della metà rispetto alle promesse di Trump.

I mercati hanno creduto in Trump? Come minimo si sono comportati come se l’economia degli Stati Uniti avesse ancora grandi margini per correre; gettare acqua fredda su quella convinzione dovrebbe significare sia tassi di interesse più elevati che valori azionari più bassi, esattamente ciò a cui stiamo assistendo.

Ma dovremmo essere preoccupati per qualcosa di peggio che non un semplice rallentamento della crescita?

Ebbene, i prezzi degli asset appaiono elevati: una misurazione ampiamente utilizzata delle valutazioni delle azioni le colloca al punto più alto di un quindicennio, mentre una misura concettualmente simile dice che i prezzi degli alloggi sono tornati sui propri passi per un po’ meno della metà della crescita che culminò nel grande scoppio della bolla immobiliare.

Singolarmente, questi dati non sono così preoccupanti: come ho detto, le azioni non sono neppure lontanamente sopravvalutate come erano nel 2000, il settore immobiliare non è neppure lontanamente così sopravvalutato come era nel 2006. D’altra parte, in questo coso entrambi i mercati appaiono sopravvalutati contemporaneamente, il che almeno solleva la possibilità dello scoppio di una doppia bolla, come quella che colpì il Giappone alla fine degli anni ’80. E se i prezzi degli asset subiscono un colpo, potremmo aspettarci che i consumatori – che stanno spendendo pesantemente e risparmiando molto poco – facciano un passo indietro.

Ancora, tutto questo sarebbe gestibile se si potesse contare che gli operatori principali della politica economica agiscano con efficacia. Ed è lì che mi nascono le preoccupazioni.

Di certo non è un gran messaggio che Trump si sia sbarazzato di uno dei più apprezzati Presidenti della Federal Reserve nella storia poco prima che i mercati cominciassero a mandare segnali di allarme. Jerome Powell, il successore di Janet Yellen, sembra un individuo ragionevole. Ma non ho idea di come gestirebbe una crisi se ne sviluppasse una.

Nel frattempo, l’attuale Segretario al Tesoro – che a Davos ha dichiarato “non penso che questo sia un circolo di globalisti” – è possibile che sia il meno illustre e il meno informato personaggio che abbia mai occupato quella posizione.

Ci stiamo dunque indirizzando ad avere guai? È troppo presto per dirlo. Ma se è quello che sta avvenendo, si stia pur certi che avremo il peggiore personale possibile ad occuparsene.

 

 

 

 

 

[1] “Bum marketing” sono iniziative di mercato che possono essere condotte senza alcun investimento. Sull’origine del termine idiomatico non saprei dire; ma “bum” letteralmente significa anche “sedere, culo, posteriore”, e dunque potrebbe derivare dal concetto che per quella attività economica è sufficiente muovere il culo, o star seduti. Che sembra essere stata la caratteristica della attività finanziaria del ricco genero di Trump, Kushner. Con sede al numero 666 della Fifth Avenue.

Per le forze sataniche, effettivamente il numero 666, il numero della Bestia, nella tradizione cristiana viene considerato un riferimento ad un personaggio satanico. Appare però in un solo passo del Nuovo Testamento, nella Apocalisse di Giovanni ed è riferito a una bestia che sale dal mare e devasta la Terra:

Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della Bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: infatti è numero d’uomo, e il suo numero è seicentosessantasei.»   (Apocalisse 13,16-18)

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