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Il mercato azionario con i prezzi più alti del mondo, di Robert J. Shiller (da Project Syndicate, 23 gennaio 2018)

Jan 23, 2018

 

The world’d priciest stock market

ROBERT J. SHILLER

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NEW HAVEN – The level of stock markets differs widely across countries. And right now, the United States is leading the world. What everyone wants to know is why – and whether its stock market’s current level is justified.

We can get a simple intuitive measure of the differences between countries by looking at price-earnings ratios. I have long advocated the cyclically adjusted price-earnings (CAPE) ratio that John Campbell (now at Harvard University) and I developed 30 years ago.

The CAPE ratio is the real (inflation-adjusted) price of a share divided by a ten-year average of real earnings per share. Barclays Bank in London compiles the CAPE ratios for 26 countries (I consult for Barclays on its products related to the CAPE ratio). As of December 29, the CAPE ratio is highest for the US.1

Let’s consider what these ratios mean. Ownership of stock represents a long-term claim on a company’s earnings, which the company can pay to the owners of shares as dividends or reinvest to provide the shareholders more dividends in the future. A share in a company is not just a claim on next year’s earnings, or on earnings the year after that. Successful companies last for decades, even centuries.

So, to arrive at a valuation for a country’s stock market, we need to forecast the growth rate of earnings and dividends for an interval considerably longer than a year. We really want to know what the earnings will do over the next ten or 20 years. But how can one be confident of long-term forecasts of earnings growth across countries?1

In pricing stock markets, people don’t seem to be relying on any good forecast of the next ten years’ earnings. They just seem to look at the past ten years, which are already done and gone, but also known and tangible.

But when Campbell and I studied earnings growth in the US with long historical data, we found that it has not been very amenable to extrapolation. Since 1881, the correlation of the past decade’s real earnings growth with the price-earnings ratio is a positive 0.32. But there is zero correlation between the CAPE ratio and the next ten years’ real earnings growth. And real earnings growth per share for the S&P Composite Stock Price Index over the previous ten years was negatively correlated (-17% since 1881) with real earnings growth over the subsequent ten years. That’s the opposite of momentum. It means that good news about earnings growth in the past decade is (slightly) bad news about earnings growth in the future.

Essentially the same sort of thing happens with US inflation and the bond market. One might think that long-term interest rates tend to be high when there is evidence that there will be higher inflation over the life of the bond, to compensate investors for the expected decline in the dollar’s purchasing power. Using data since 1913, when the consumer price index computed by the US Bureau of Labor Statistics starts, we find that the there is almost no correlation between long-term interest rates and ten-year inflation rates over succeeding decades. While positive, the correlation between one decade’s total inflation and the next decade’s total inflation is only 2%.

But bond markets act as if they think inflation can be extrapolated. Long-term interest rates tend to be high when the last decade’s inflation was high. US long-term bond yields, such as the ten-year Treasury yield, are highly positively correlated (70% since 1913) with the previous ten years’ inflation. But the correlation between the Treasury yield and the inflation rate over the next ten years is only 28%.

How can we square investors’ behavior with the famous assertion that it is hard to beat the market? Why haven’t growing reliance on data analytics and aggressive trading meant that, as markets become more efficient over time, all remaining opportunities to secure abnormal profits are competed away?

Economic theory, as exemplified by the work of Andrei Shleifer at Harvard and Robert Vishny of the University of Chicago, offers ample reason to expect that long-term investment opportunities will never be eliminated from markets, even when there are a lot of very smart people trading.

This brings us back to the mystery of what’s driving the US stock market higher than all others. It’s not the “Trump effect,” or the effect of the recent cut in the US corporate tax rate. After all, the US has pretty much had the world’s highest CAPE ratio ever since President Barack Obama’s second term began in 2013. Nor is extrapolation of rapid earnings growth a significant factor, given that the latest real earnings per share for the S&P index are only 6% above their peak about ten years earlier, before the 2008 financial crisis erupted.2

Part of the reason for America’s world-beating CAPE ratio may be its higher rate of share repurchases, though share repurchases have become a global phenomenon. Higher CAPE ratios in the US may also reflect a stronger psychology of fear about the replacement of jobs by machines. The flip side of that fear, as I argued in the third edition of my book Irrational Exuberance, is a stronger desire to own capital in a free-market country with an association with computers.

The truth is that it is impossible to pin down the full cause of the high price of the US stock market. The lack of any clear justification for its high CAPE ratio should remind all investors of the importance of diversification, and that the overall US stock market should not be given too much weight in a portfolio.

 

 

Il mercato azionario con i prezzi più alti del mondo,

di Robert J. Shiller

NEW HAVEN – Il livello dei mercati azionari differisce ampiamente tra i vari paesi. E in questo momento, gli Stati Uniti sono alla guida del mondo. Quello che tutti vorrebbero sapere è perché – e se l’attuale livello del mercato azionario americano è giustificato.

Possiamo ottenere una semplice, intuitiva misura delle differenze osservando i rapporti tra prezzi e profitti. Da molto tempo sostengo il rapporto ciclicamente corretto tra prezzi e profitti (CAPE) che John Campbell (adesso alla Università di Harvard) e il sottoscritto misero a punto trent’anni fa.

Il rapporto Cape è il prezzo reale (corretto per l’inflazione) di una azione diviso per una media decennale di profitti reali per azione (in relazione al rapporto CAPE do consulenza sui suoi prodotti alla Barclays Bank). A far data dal 29 dicembre, il rapporto CAPE è, nel caso degli Stati Uniti, il più elevato.

Prendiamo in esame cosa significano questi rapporti. La proprietà delle azioni rappresenta un diritto di lungo termine sui profitti di una società, che essa può pagare ai proprietari delle azioni come dividendi o reinvestire per fornire agli azionisti dividendi maggiori nel futuro. Una azione di una società non è soltanto un diritto sui profitti dell’anno successivo, o dell’anno dopo quello. Nelle società di successo esso dura per decenni, persino per secoli.

Dunque, per giungere ad una valutazione di un mercato azionario di un paese, abbiamo bisogno di prevedere il tasso di crescita dei profitti e dei dividendi per un periodo considerevolmente più lungo di un anno. Vogliamo effettivamente sapere quali guadagni saranno realizzati nei prossimi dieci o vent’anni. Ma come si può aver fiducia della crescita nel lungo termine dei guadagni nei vari paesi?

Nel definire i prezzi di un mercato azionario, le persone non sembra si basino su qualsiasi buona previsione relativa ai profitti del prossimo decennio. Sembra che semplicemente osservino i dieci anni passati, profitti dunque che sono già realizzati e andati, ma che sono anche noti come ‘tangibili’.

Ma quando Campbell e il sottoscritto studiarono la crescita dei guadagni negli Stati Uniti sulla base dei dati storici, scoprimmo che essa era stata favorevole ad estrapolazioni. A partire dal 1881, la correlazione della crescita dei profitti reali del decennio passato con il rapporto prezzi/profitti risulta positiva per un valore di 0,32. Ma non c’è alcuna correlazione tra il rapporto CAPE e la crescita reale dei profitti del decennio successivo. E la crescita reale dei profitti per azione per il S&P Composite Stock Price Index per il decennio passato era correlata negativamente (-17% a partire dal 1881) con la crescita reale dei profitti nei successivi dieci anni. Questo è il contrario del fenomeno di uno slancio. Significa che le buone notizie sulla crescita dei profitti nel decennio passato sono una (leggermente) cattiva notizia per la crescita dei profitti nel futuro.

Sostanzialmente, lo stesso genere di fenomeno che accade per l’inflazione e il mercato dei bond negli Stati Uniti. Si potrebbe pensare che i tassi di interesse a lungo termine tendano ad essere elevati quando ci sono le prove che ci sarà una inflazione più elevata nel corso della maturazione dei bond, in modo da compensare gli investitori per il declino atteso del potere di acquisto del dollaro. Utilizzando dati dal 1913, quando l’indice dei prezzi al consumo venne per la prima volta calcolato dall’Ufficio di Statistiche del Lavoro degli Stati Uniti, scopriamo che non c’è quasi nessuna correlazione tra i tassi di interesse a lungo termine e i tassi di inflazione decennali nel corso dei successivi decenni. Quando è positiva, la correlazione tra l’inflazione totale di un decennio e l’inflazione totale del decennio positivo lo è soltanto nel 2% dei casi.

Ma i mercati dei bond operano come se pensassero che l’inflazione può essere estrapolata. I tassi di interesse a lungo termine tendono ad essere elevati quando l’inflazione nel decennio passato è stata elevata. I rendimenti a lungo termine dei bond, come i rendimenti dei Buoni del Tesoro decennali, hanno una correlazione positiva (70% a partire dal 1913) con l’inflazione dei dieci anni precedenti. Ma la correlazione tra il rendimento dei Buoni del Tesoro e il tasso di inflazione nel decennio successivo è soltanto del 28%.

Come possiamo conciliare il comportamento degli investitori con il famoso giudizio secondo il quale è difficile battere il mercato? Perché il basare la crescita sulla analisi dei dati e su una attività di scambi aggressiva non ha comportato che, mentre i mercati diventavano più efficienti nel corso del tempo, tutte le restanti opportunità per assicurarsi profitti eccezionali siano state messe fuori gioco?

La teoria economica, come esemplificata dal lavoro di Andrei Shleifer ad Harvard e di Robert Vishny alla Università di Chicago, offre molte ragioni per aspettarsi che le opportunità di investimento a lungo termine non saranno mai eliminate dai mercati, persino quando operano negli scambi un gran numero di persone ben dotate.

Questo ci riporta al mistero di cosa stia portando il mercato azionario degli Stati Uniti più in alto di tutti gli altri. Non si tratta dell’”effetto Trump” o dell’effetto del recente taglio all’aliquota fiscale delle società statunitensi. Dopo tutto, gli Stati Uniti hanno praticamente avuto il più alto rapporto CAPE di sempre a partire dal secondo mandato del Presidente Barack Obama che cominciò nel 2013. Neppure l’estrapolazione di una rapida crescita dei profitti è un fattore significativo, dato che i più recenti guadagni reali per azione da parte dell’indice S&P sono stati soltanto il 6% sopra il loro picco relativo al precedente decennio, prima che scoppiasse la crisi finanziaria del 2008.

In parte la ragione del rapporto CAPE primo al mondo dell’America può essere il più elevato tasso di riacquisto delle azioni, sebbene i riacquisti delle azioni siano diventati un fenomeno globale. I più elevati rapporti CAPE negli Stati Uniti possono anche riflettere una più forte psicologia di apprensione rispetto al fenomeno della sostituzione dei posti di lavoro con le macchine. L’altro lato della medaglia di quella apprensione, come ho sostenuto nella terza edizione del mio libro Esuberanza Irrazionale, è un più forte desiderio di possedere capitale in un paese a libero mercato in associaziopne ai computer.

La verità è che è impossibile individuare la causa eclusiva del prezzo elevato del mercato azionario negli Stati Uniti. La mancanza di qualsiasi chiara giustificazione del relativo rapporto CAPE dovrebbe rammentare a tutti gli investitori l’importanza della diversificazione, e che al complessivo mercato azionario degli Stati Uniti non dovrebbe essere dato troppo peso in un portafoglio.

 

 

 

 

 

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