Feb 22, 2018
CAMBRIDGE – The recent stock-market correction – the first in the United States in two years – has invited substantial commentary about what investors should do, the role machines have played, and the implications for the real economy. But only some of what has been said is useful.
Many investment advisers have emphasized the need to think long term, rather than panicking when prices fall. They are right: the decline in early February is not a good reason to sell. What is a good reason to sell is that stocks are too high from a longer-term perspective.
The fact is that prices are still very elevated relative to fundamentals. As the Nobel laureate Robert Shiller pointed out two weeks before the correction, the US cyclically adjusted price-to-earnings ratio has been higher than it is now only twice in the last century: at the peaks that preceded the stock-market crashes of 1929 and 2000-2002. The implication is that the rate of return on stocks is likely to be substantially lower over the next 15 years than it was over the last 15 years.
Another popular response to the recent correction has been to complain that the market has been made more volatile, because trading is increasingly carried out by machines, rather than humans. True, if a computer is programmed to respond to declining prices by selling more stocks, it will exacerbate the decline. But the same is true of the commonly used stop-loss order, whereby investors instruct their stockbroker to sell if the price falls to a specified level.
While automated high-speed trading does not, in my view, serve a useful social purpose, it is destabilizing only if it is programmed to be. If programmed instantly to “buy on the dip,” a computer would generate demand for falling stocks and thus tend to stabilize prices, just like a human investor who buys when prices fall. Machine or human, what matters is the instruction. And, in fact, a person writing an algorithm – calmly, in advance – might make smarter choices than one who is watching prices plunge in real time.
Another key question raised by the recent correction is whether it matters for the real economy. The truth is that the stock market can crash while the economy is doing well, and vice versa.
The first reason for this is that stock-market busts can be triggered by interest-rate increases, which are often a response to economic expansion. The correction in February bears this out. It seems to have been triggered by a February 2 report that US wages had increased more than expected, as well as the fact that inflation has risen in the US and the United Kingdom.
For the US, such news all but ensures that the Federal Reserve will raise interest rates in March. And the Bank of England announced on February 7 that UK rates could “be tightened somewhat earlier and by a somewhat greater extent” than had previously been forecast.
A second reason why the stock market is disconnected from the real economy is that there is much randomness in markets. In a speculative bubble, for example, everyone buys because everyone else is buying, causing prices to become disconnected from economic fundamentals. At a certain point, the bubble bursts, and everyone sells.
Last year, a “risk on” mood prevailed in financial markets, rooted in unnaturally low perceptions of future volatility. When the VIX volatility index hit all-time lows, it was not because fundamentals demanded it. On the contrary, it was no secret that substantial risks – such as a pick-up in inflation and faster-than-expected interest-rate hikes – were lying in wait.
But, all too predictably, the VIX would not adjust until the shock materialized and prices plunged. It took the correction in February to wake up investors to the reality of risk. The VIX has now adjusted to more normal levels, but securities prices probably still have a substantial distance to fall. After all, the market is still not far below its peak.
A third reason why the stock market is disconnected from the real economy is that stock prices represent only the current and expected profits accruing to corporations. That is not the same as national income. In the past, this distinction was not as pronounced, because a relatively stable share of national income went to workers. But, over the last decade or so, that relationship has broken down. Owners of capital control a rapidly-growing share of GDP, probably owing to higher economic “rents,” which reflect decreased competition and increased monopoly power in many sectors.
It is possible that last year’s stock-market boom may have been fueled partly by the expectation that US President Donald Trump and congressional Republicans would cut corporate taxes. Now enacted, those cuts will almost certainly do more to expand capital’s slice of the income pie than they will to enlarge the pie itself.
Of course, while Wall Street is not Main Street, there are important connections between the two. A big decline in the market could work to depress consumption and investment spending, reducing income all around.
It is impossible to predict when such a plunge will occur, or whether it will coincide with the next recession. All we can say with confidence is that the abnormally low financial and economic volatility of last year is over.
Il messaggio economico dei mercati azionari,
di Jeffrey Frankel
CAMBRIDGE – La recente correzione verso il basso [1] del mercato azionario – la prima dopo due anni negli Stati Uniti – ha posto formalmente a una buona parte di commentatori il quesito di cosa dovrebbero fare gli investitori, del ruolo giocato dai computer e delle implicazioni per l’economia reale. Ma solo una parte di quello che è stato detto è risultata utile.
Molti consulenti di investimenti hanno enfatizzato il bisogno di ragionare nel lungo termine, piuttosto che farsi prendere dal panico quando i prezzi scendono. Hanno ragione: il declino agli inizi di febbraio non è una buona ragione per vendere. Quella che è una buona ragione per vendere è che le azioni sono troppo alte in una prospettiva a più lungo termine.
Il fatto è che i prezzi sono tuttora troppo elevati in rapporto ai fondamentali. Come aveva messo in evidenza il premio Nobel Robert Shiller due settimane prima della correzione, negli Stati Uniti il rapporto ciclicamente corretto tra prezzi e profitti è stato più elevato di oggi soltanto due volte nel secolo scorso: nei picchi che precedettero i crolli dei mercati azionari nel 1929 e nel 2000-2002. La conseguenza è che il tasso di rendimento dei titoli azionari è probabile che sia sostanzialmente più basso nei prossimi 15 anni di quanto non sia stato nel corso dei 15 anni passati.
Un’altra opinione popolare alla recente correzione è stata la lamentela secondo la quale il mercato sarebbe stato reso più volatile, giacchè le operazioni sono normalmente condotte dalle macchine, piuttosto che dagli umani. È vero, se un computer è programmato per rispondere ai prezzi che calano vendendo più azioni, esso esacerberà il calo. Ma lo stesso è vero per l’ordine comunemente usato di ‘fermare le perdite’, laddove gli investitori danno ai loro agenti azionari l’istruzione di vendere se i prezzi cadono ad un livello specificato.
Mentre il commercio automatizzato ad alta velocità non svolge, a mio giudizio, un utile scopo sociale, esso è destabilizzante solo se è programmato ad esserlo. Se fosse programmato per “acquistare durante le flessioni” istantaneamente [2], un computer genererebbe domanda per far cadere le azioni e quindi tenderebbe a stabilizzare i prezzi, proprio come un investitore umano che compra quando i prezzi calano. Che si tratti di macchine o di umani, quello che conta è l’istruzione. Inoltre, di fatto una persona che scrive un algoritmo – con calma, in anticipo – potrebbe fare scelte più intelligenti di una che aspetta che i prezzi cadano in tempo reale.
Un’altra domanda cruciale sollevata dalla recente correzione è se essa sia stata importante per l’economia reale. La verità è che i mercati azionari possono crollare mentre l’economia va bene, e viceversa.
La prima ragione di questo è che le frenate nei mercati azionari possono essere innescate da aumenti dei tassi di interesse, che spesso sono una risposta alle espansioni economiche. La correzione di febbraio lo conferma. A quanto pare sarebbe stata innescata da un rapporto del 2 febbraio secondo il quale i salari negli Stati Uniti erano cresciuti più di quanto non ci si aspettasse, ed anche dal fatto che l’inflazione era cresciuta negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Per gli Stati Uniti, notizie del genere sono quasi una garanzia che la Federal Reserve alzerà a marzo i tassi di interesse. E la Banca di Inghilterra il 7 febbraio ha annunciato che i tassi del Regno Unito sarebbero “stati ridotti un po’ in anticipo e in una misura un po’ maggiore” di quello che era stato precedentemente annunciato.
Una seconda ragione per la quale il mercato azionario è disconnesso dall’economia reale è che c’è molta casualità nei mercati. In una bolla speculativa, ad esempio, tutti comprano perché tutti gli altri stanno comprando, in tal modo spingendo i prezzi ad essere disconnessi dai fondamentali. Ad un certo punto, la bolla scoppia e tutti vendono.
L’anno scorso, una modalità apertamente rischiosa prevalse nei mercati finanziari, basata su percezioni stranamente basse di una futura volatilità. Quando l’indice di volatilità VIX [3] raggiunse i minimi storici, non era perché era richiesto dai fondamentali. Al contrario, non c’era alcun segreto sul fatto che rischi sostanziali – quali una accelerazione dell’inflazione o rialzi dei tassi di interesse più veloci del previsto – erano in attesa.
Ma, anche troppo prevedibilmente, il VIX non si sarebbe corretto finché lo shock non si fosse materializzato e i prezzi non fossero crollati. C’è voluta la correzione di febbraio per svegliare gli investitori alla realtà del rischio. Il VIX si è adesso corretto a livelli più normali, ma i prezzi dei titoli probabilmente hanno ancora un sostanziale percorso in discesa da compiere. Dopo tutto, il mercato non è ancora molto al di sotto del suo picco.
Una terza ragione per la quale il mercato azionario è disconnesso dall’economia reale è che i prezzi delle azioni rappresentano soltanto gli attuali e previsti profitti che maturano a favore delle società. Non sono la stessa cosa del reddito nazionale. Nel passato, questa distinzione non era così pronunciata perché una quota relativamente stabile del reddito nazionale andava ai lavoratori. Ma, nel corso dell’ultimo decennio o giù di lì, questa relazione ha smesso di funzionare. I proprietari del capitale controllano una quota rapidamente crescente del PIL, probabilmente a seguito di più alte “rendite” economiche, la qual cosa riflette una diminuita competizione e un accresciuto potere di monopolio in molti settori.
È possibile che l’anno passato il boom del mercato azionario sia stato in parte alimentato dall’aspettativa dei tagli alle tasse da parte del Presidente Donald Trump e dei congressisti repubblicani. Ora che questi tagli sono entrati in vigore, essi quasi certamente aumenteranno la fetta della torta del reddito a vantaggio del capitale, piuttosto che allargare la torta stessa.
Naturalmente, se Wall Street non è Main Street [4], tra le due ci sono connessioni importanti. Un grande declino nel mercato potrebbe operare per deprimere la spesa per i consumi e per gli investimenti, riducendo il reddito nel suo complesso.
È impossibile prevedere quando un tale crollo interverrà, o se esso coinciderà con la prossima recessione. Tutto quello che si può dire a buona ragione è che la volatilità finanziaria ed economica abnormalmente bassa dell’anno passato è alle nostre spalle.
[1] In realtà una ‘stock-market correction’ è normalmente negativa. “Una correzione è un movimento inverso di almeno il 10% dei mercati azionari, dei bond, delle materie prime, ovvero un indicatore per correggere una sovravvalutazione” (Investopedia).
L’8 febbraio scorso gli indici azionari del Dow Jones e del S&P 500 sono caduti di più del 10 per cento rispetto ai loro massimi valori degli ultimi giorni del gennaio 2018. Il fenomeno della “correction” è normalmente temporaneo, ben distinto da un crollo prolungato di una recessione e di un “bear market” (mercato in ribasso), anche se può essere un precursore di tali sviluppi più gravi. Infine, è un fenomeno distinto da un “crash” (crollo), perché il declino del 10% o oltre in quel caso è riferito al picco recente dei valori azionari, mentre nel secondo caso è riferito a valori consolidati.
[2] I dips sono letteralmente le “immersioni”, mentre i rips sono le “increspature”. Nel primo caso, una metafora per il mercato che scende e nella seconda per il mercato che sale. Il consiglio nascosto in questa frase gergale è quindi quello di acquistare azioni dopo una significativa caduta del loro prezzo: quello è il momento per aumentare le proprie posizioni su quel titolo per capitalizzare in seguito sulla risalita del prezzo. (Finanza)
[3] In finanza, la volatilità è una misura della variazione percentuale del prezzo di uno strumento finanziario nel corso del tempo. La volatilità storica deriva dalla effettiva serie storica dei prezzi misurabile nel passato. La volatilità implicita deriva dal prezzo di mercato delle opzioni dello strumento finanziario analizzato, per scadenze future attualmente scambiate. Il simbolo σ viene utilizzato per la volatilità, e corrisponde alla Deviazione standard. (Wikipedia)
L’indice di volatilità VIX, predisposto dal Chicago Board Options Exchange, è una misura delle aspettative di volatilità implicite nell’indice del mercato azionario S&P 500. Nel linguaggio comune viene anche definito “l’indice della paura”.
[4] Ovvero, la strada principale, più popolare.
By mm
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