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Mettere in libertà vigilata il prigioniero spagnolo (per esperti) (dal blog di Paul Krugman, 24 febbraio 2018)

 

Paroling the Spanish Prisoner (Wonkish)

Paul Krugman FEB. 24, 2018

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Yesterday I was the keynote speaker – actually keynote have-a-chat-with-Anil Kashyap – at the U.S. Monetary Policy Forum – which was both interesting, I thought, and something of an emotional vacation. What I mean by that was that I got to have an extended policy discussion without once mentioning the name T****.

Anyway, one of the issues that came up was the recovery in Europe, which is real and in some ways a bigger story for the world economy than the continuation of the Obama expansion here. An obvious question, which Anil raised, was whether this recovery calls for a reconsideration by Euroskeptics like myself. And my answer is no and yes: No, the economics of the euro look about as bad as we expected. Yes, we underestimated the political cohesion of the single currency, the willingness of political elites to suffer enormous economic pain in order to stay in the monetary union.

I think I can illustrate all of these points with the case of Spain, which is in some ways at the heart of the euro story. During the good years money poured into Spain, fueling a huge housing bubble. This fed inflation that made Spanish industry uncompetitive, leading to a huge trade deficit. When the music stopped, Spain saw unemployment soar; it then went into a painful process of “internal devaluation,” slowly squeezing down unit labor costs while costs in northern Europe gradually rose. And eventually this worked: Spain resumed fairly rapid growth, boosted by surging exports of autos and other manufactured goods.

So does this story vindicate the euro? Hardly. Here’s a chart, using data from the IMF’s World Economic Outlook database. The blue line shows Spain’s real G.D.P. (left scale). As you can see, there was a terrible slump from 2008 to 2013, but since then Spain has been growing strongly. In the long run, then, the Spanish economy is not dead.

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International Monetary Fund

But the cost along the way was immense. The red line shows the IMF’s estimate of Spain’s “output gap” – the difference, in percentage points, between what it could have been producing consistent with stable inflation and what it actually produced. My guess is that this output gap is understated: the methods organizations like the IMF use to estimate potential G.D.P. tend to interpret any sustained slump as a decline in potential, even if it’s really just the result of inadequate demand. (This was, by the way, a point I made at some length in my 1998 Brookings Paper on the liquidity trap – see pp. 168 and following.)

But even if we take the IMF estimate at face value, it says that over the period 2008-2018 Spain suffered an enormous cumulative loss of output it could have produced: 33 percent of potential G.D.P. That’s as if the U.S. were forced to pay a price of more than $6 trillion to, say, remain on the gold standard. Not all of this loss can be attributed to the necessity of achieving competitiveness through relative deflation rather than simply devaluing, but surely much of it can.

So the economics of the euro have been as bad as critics warned they would. Spain in effect spent years as the economic prisoner of the single currency, and the fact that it eventually received parole doesn’t change that fact. Remarkably, however, Spain stayed the course, paid the price, and is now more or less back to where it needs to be. So the politics of the euro have been far more robust than us Anglo-Americans could have imagined.

 

Mettere in libertà vigilata il prigioniero spagnolo (per esperti)

Di Paul Krugman

Ieri, al Foro sulla Politica Monetaria degli Stati Uniti, ero il relatore ospite – in realtà un relatore che aveva una conversazione con Anil Kashyap [1] – il che è stato interessante in due sensi, riflettevo e avevo qualcosa di simile ad una vacanza delle emozioni. Con ciò voglio dire che ha avuto la possibilità di avere una ampia discussione politica senza pronunciare una volta il nome di T**** [2].

In ogni modo, uno dei temi che è emerso è stata la ripresa in Europa, che è reale ed è in qualche modo un racconto più importante per l’economia globale, che non la continuazione qua da noi della espansione di Obama. Una domanda ovvia, che Anil ha sollevato, è stata se questa ripresa esiga una riconsiderazione da parte degli euroscettici come il sottoscritto. E la mia risposta è no e sì. No, l’economia dell’euro sembra altrettanto negativa di quello che ci si aspettava. Sì, perché abbiamo sottostimato la coesione politica della valuta unica, la disponibilità delle classi dirigenti politiche a sopportare una enorme sofferenza economica allo scopo di restare nell’unione monetaria.

Penso di poter illustrare tutti questi aspetti con il caso della Spagna, che in qualche modo è al cuore della storia dell’euro. Durante gli anni buoni il denaro si riversò in Spagna, accendendo una vasta bolla immobiliare. Essa alimentò l’inflazione che rese l’industria spagnola non competitiva, portando ad un ampio deficit commerciale. Quando la musica finì, la disoccupazione in Spagna salì alle stelle; a quel punto essa entrò in un penoso processo di “svalutazione interna”, spremendo lentamente i costi per unità di lavoro, mentre i costi nell’Europa del Nord crescevano. E alla fine tutto questo ha funzionato: la Spagna ha ripreso a crescere abbastanza rapidamente, spinta dal rialzo delle esportazioni di automobili e di altri beni manifatturieri.

Dunque, questa storia risarcisce l’euro? A malapena. Ecco un diagramma, utilizzando il database del World Economic Outlook del FMI. La linea blu mostra il PIL reale della Spagna (valori in scala sulla sinistra). Come potete notare, c’è stata dal 2008 al 2013 una terribile caduta, ma da allora la Spagna ha ripreso a crescere con forza. Nel lungo periodo, dunque, l’economia spagnola non ha avuto un collasso.

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Fondo Monetario Internazionale

 

Ma lungo il percorso, il costo è stato immenso. La linea rossa mostra la stima del FMI del “divario di produzione” della Spagna, la differenza, in punti percentuali (a destra sulla tabella), tra quello che avrebbe potuto produrre in coerenza con una inflazione stabile e quello che effettivamente ha prodotto. La mia impressione è che questo divario di produzione sia sottostimato: i metodi che organizzazioni come il FMI utilizzano per stimare il PIL potenziale tendono a interpretare ogni prolungata recessione come un declino di quel potenziale, anche se esso è in realtà il risultato di una domanda inadeguata (per inciso, questo era un argomento che in qualche misura io avanzai nel mio studio del 1998 per la Brookings sulla trappola di liquidità – vedi pagina 168 e seguenti).

Ma persino se assumiamo la stima del FMI per quello che è, essa ci dice che nel periodo 2008-2018 la Spagna ha sofferto una enorme perdita cumulativa di una produzione che avrebbe potuto avere: il 33 per cento del PIL potenziale. È come se gli Stati Uniti fossero stati costretti a pagare un prezzo di più di 6.000 miliardi per restare, solo a titolo di esempio, nel gold standard. Questa perdita non può essere attribuita per intero alla necessità di ottenere competitività attraverso una deflazione relativa anziché attraverso una semplice svalutazione, ma questo è sicuramente il caso di una buona parte di essa.

Dunque, l’economia dell’euro è stata effettivamente altrettanto negativa di quanto mettevano in guardia i suoi critici. In sostanza, la Spagna ha speso anni come il prigioniero economico della moneta unica, e la circostanza per la quale alla fine ha ricevuto una libertà condizionale non cambia quel fatto. È rilevante, tuttavia, che la Spagna abbia mantenuto il suo indirizzo, pagato il prezzo, ed oggi sia più o meno tornata dove deve essere. Dunque, la politica dell’euro si è rivelata assai più solida di quello che noi anglo-americani ci potevamo immaginare.

 

 

 

 

[1] Professore di Economia e Finanza all’Università di Chicago.

[2] Evidentemente Trump.

 

 

 

 

 

 

 

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