April 5, 2018
By Paul Krugman
If you’ve been watching stock markets, you’re probably feeling seasick. The Dow is crashing! No, it’s bouncing back! Wait, it’s crashing again!
In general, trying to explain stock fluctuations is a mug’s game. But in this case it’s pretty clear what’s going on. Whenever investors suspect that Donald Trump will really go through with his threats of big tariff increases, provoking retaliation abroad, stocks plunge. Every time they decide it’s just theater, stocks recover. Markets really, really don’t like the idea of a trade war.
So is a trade war coming? Nobody knows — even, or perhaps especially, Trump himself. For while trade is one of Trump’s two signature issues — animus toward dark-skinned people being the other — when it comes to making actual demands on other countries, the tweeter in chief and his aides either don’t know what they want or they want things that our trading partners can’t deliver. Not won’t — can’t.
As a result, incoherence rules: The administration lashes out, then tries to calm markets by saying that it might not carry through on its threats, then makes a new round of threats.
Let’s talk in particular about the will-he-or-won’t-he confrontation with China.
In some ways, China really is a bad actor in the global economy. In particular, it has pretty much thumbed its nose at international rules on intellectual property rights, grabbing foreign technology without proper payment. And to be fair, Trump officials do sometimes raise the intellectual property issue as a justification for getting tough.
But if getting China to pay what it owes for technology were the goal, you’d expect the U.S. both to make specific demands on that front and to adopt a strategy aimed at inducing China to meet those demands.
In fact, the U.S. has given little indication of what China should do about intellectual property. Meanwhile, if getting better protection of patent rights and so on were the goal, America should be trying to build a coalition with other advanced countries to pressure the Chinese; instead, we’ve been alienating everyone in sight.
Anyway, what seems to really bother Trump aren’t China’s genuine policy sins, but its trade surplus with the United States, which he has repeatedly said is $500 billion a year. (It’s actually less than $340 billion, but who’s counting?) This trade surplus, he insists, means that China is winning — in effect stealing $500 billion a year from America.
As many people have pointed out, this is junk economics. Except at times of mass unemployment, trade deficits aren’t a subtraction from the economies that run them, nor are trade surpluses an addition to the economies on the other side of the imbalance. Over all, the U.S. trade deficit is just the flip side of the fact that America attracts more inward investment from foreigners than the amount Americans invest abroad. Trade policy has nothing to do with it.
Beyond this conceptual confusion, there’s a raw fact few people — and, as far as I can tell, nobody in the Trump administration — seem to appreciate: China no longer runs big trade surpluses.
This wasn’t always true. A decade ago, China’s current account surplus — a broad measure that includes trade in services and income from investments abroad — was more than 9 percent of G.D.P., a very big number. In 2017, however, its surplus was only 1.4 percent of G.D.P., which isn’t much. Meanwhile, the U.S. ran a current account deficit of 2.4 percent of G.D.P., a bit bigger, but also much smaller than the imbalances of the mid-2000s.
But in that case, why is “bilateral” trade between the U.S. and China so unbalanced? The answer is that it’s largely a kind of statistical illusion. China is the Great Assembler: it’s where components from other countries, like Japan and South Korea, are put together into consumer products for the U.S. market. So a lot of what we import from China is really produced elsewhere.
It’s not clear why we should demand that China stop playing that role. Indeed, it’s not clear that China could even do much to reduce its bilateral surplus with the U.S.: To do so, it would basically have to have a completely different economy. And this just isn’t going to happen unless we have a full-blown trade war that shuts down much of the global economy as we know it.
Now, Trump himself might be O.K. with large-scale deglobalization. But as we’ve seen, his beloved stock market hates the idea, and with good reason: Businesses have invested heavily on the assumption that a closely integrated global economy is here to stay, and a trade war would leave many of those investments stranded.
Oh, and a trade war would also devastate much of pro-Trump rural America, since a large share of our agricultural production — including almost two-thirds of food grains — is exported.
And that’s why things seem so incoherent. One day Trump talks tough on trade; then stocks fall, and his advisers scramble to say that the trade war won’t really happen; then he worries that he’s looking weak, and tweets out more threats; and so on. Call it the art of the flail.
L’arte del dimenarsi, di Paul Krugman
New York Times 5 aprile 2018
Se avete osservato i mercati azionari, probabilmente vi è venuto il mal di mare. Il Dow sta crollando? No, si sta riprendendo! Aspetta, sta di nuovo crollando!
In generale, cercar di spiegare queste fluttuazioni è una cosa da insensati. Ma in questo caso è abbastanza chiaro cosa sta accadendo. Ogni qualvolta gli investitori hanno il sospetto che Donald Trump porterà davvero a compimento le sue minacce di grandi aumenti delle tariffe, provocando ritorsioni all’estero, le azioni crollano. Ogni volta che decidono che è solo una sceneggiata, le azioni si riprendono. In realtà, i mercati davvero non gradiscono l’idea di una guerra commerciale.
Dunque una guerra commerciale è in arrivo? Nessuno lo sa – neanche, o forse specialmente, Trump stesso. Perché mentre il commercio è uno dei temi distintivi di Trump – l’altro essendo l’ostilità verso la gente di colore – quando si passa ad avanzare effettive richieste ad altri paesi, neppure il twittatore in capo e i suoi aiutanti sanno cosa vogliono, oppure vogliono cose che i nostri partner commerciali non possono concedere. Non lo faremo – non possiamo.
Di conseguenza, regole senza coerenza: l’Amministrazione va all’attacco, poi cerca di calmare i mercati dicendo che potrebbe non mettere in pratica le sue minacce, poi passa ad un nuovo giro di minacce.
Parliamo in particolare del diverbio con la Cina, sullo stile del ‘lo farò o forse non lo farò’.
In molti sensi, la Cina è per davvero un cattivo soggetto nell’economia globale. In particolare, essa ha preso per il naso le regole internazionali sui diritti della proprietà intellettuale, appropriandosi delle tecnologie straniere senza idonei pagamenti. E ad essere onesti, i dirigenti di Trump talvolta sollevano il tema della proprietà intellettuale come una giustificazione per il gioco duro.
Ma se l’obbiettivo fosse far pagare alla Cina quello che deve per la tecnologia, vi dovreste aspettare sia che gli Stati Uniti avanzino specifiche richieste su quel fronte, sia che adottino una strategia rivolta a indurre la Cina a venire incontro a quelle richieste.
Di fatto, gli Stati Uniti hanno fornito poche indicazioni su cosa la Cina dovrebbe fare in materia di proprietà intellettuale. Nel frattempo, se ottenere una migliore protezione dei brevetti e cose del genere fossero l’obbiettivo, l’America dovrebbe cercare di costruire una coalizione con gli altri paesi avanzati per fare pressioni sui cinesi; invece, a quanto sembra ci stiamo alienando tutti.
In ogni modo, quello che davvero infastidisce Trump non sono le reali pecche della politica cinese, ma il suo surplus commerciale con gli Stati Uniti, che egli ha ripetutamente affermato ammontare a 500 miliardi di dollari all’anno (in effetti sono meno di 340 miliardi, ma chi lo va a controllare?) Questo avanzo commerciale, ribadisce lui, significa che la Cina sta vincendo – in sostanza sta rubando 500 miliardi di dollari all’anno all’America.
Come hanno messo in evidenza molte persone, questa è un’economia spazzatura. Ad eccezione dei periodi di disoccupazione di massa, i deficit commerciali non sono una sottrazione alle economie che li gestiscono e, dall’altra parte della bilancia, gli avanzi commerciali non sono neanche essi una aggiunta a quelle economie. Il deficit commerciale statunitense è soprattutto l’altra faccia della medaglia del fatto che l’America attrae più investimenti in arrivo da parte degli stranieri di quanto gli americani non investano all’estero. La politica commerciale non ha niente a che vedere con ciò.
Aldilà di questa confusione concettuale, c’è un fatto materiale che in pochi – e nessuno, da quanto capisco, all’interno della Amministrazione Trump – sembrano comprendere: la Cina non gestisce più grandi avanzi commerciali.
Non è sempre stato così. Un decennio fa, l’avanzo di conto corrente della Cina – una misura complessiva che comprende il commercio in servizi ed il reddito proveniente dagli investimenti all’estero – era più del 9 per cento del PIL, un dato molto elevato. Tuttavia, nel 2017 il suo avanzo è stato solo l’1,4 per cento del PIL, il che non è molto. Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno gestito un deficit del 2,4 per cento del PIL, un po’ superiore, ma anche molto più piccolo degli squilibri della metà degli anni 2000.
Ma allora perché il commercio “bilaterale” tra Stati Uniti e Cina è così squilibrato? La risposta è che esso è in gran parte una sorta di illusione ottica. La Cina è il Grande Assemblatore: è il luogo nel quale i componenti provenienti da altri paesi, come il Giappone e la Corea del Sud, sono messi assieme nei prodotti di consumo per il mercato degli Stati Uniti. Dunque una grande quantità di quello che importiamo dalla Cina è in realtà prodotto altrove.
Non è chiaro perché dovremmo rivendicare che la Cina smetta di assolvere a quella funzione. In effetti, non è neanche chiaro in che modo la Cina potrebbe fare qualcosa per ridurre il suo avanzo bilaterale con gli Stati Uniti: per farlo, dovrebbe fondamentalmente avere un’economia completamente diversa. E questo non è destinato ad accadere, a meno che non si abbia una guerra commerciale in piena regola che chiuda i battenti all’economia globale per come la conosciamo.
Ora, Trump personalmente potrebbe essere d’accordo con una deglobalizzazione su vasta scala. Ma da quanto si è visto, il suo adorato mercato azionario odia quell’idea, e con buona ragione: le imprese hanno investito pesantemente sull’assunto che un’economia globale strettamente integrata è destinata a restare, e una guerra commerciale comporterebbe un abbandono di quegli investimenti.
Inoltre, una guerra commerciale provocherebbe anche una devastazione in gran parte dell’America rurale favorevole a Trump, dal momento che una larga quota della nostra produzione agricola – compresi due terzi dei cereali per l’alimentazione umana – viene esportata.
E questa è la ragione per la quale le cose sembrano così incoerenti. Un giorno Trump parla con durezza sul commercio; poi le azioni cadono e i suoi consiglieri corrono a dire che la guerra commerciale in realtà non ci sarà; allora lui si preoccupa di apparire debole, e twitta nuove minacce; e così via. Chiamatela l’arte del dimenarsi.
By mm
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