Letture del fascismo
Gli storici più recenti del fascismo – ultimo ventennio o decennio – non hanno aggiunto poco a quello che si sapeva, anche se le loro letture del fascismo non sembra abbiano interessato granché i media e la politica. Mi riferisco, ad esempio, ai contributi illuminanti di Emilio Gentile e Salvatore Lupo – “E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma”, di Emilio Gentile, Laterza 2012; “Il fascismo”, di Salvatore Lupo, Feltrinelli 2000.
Perché dico che non hanno interessato granché i media e la politica? Perché l’idea del fascismo che si continua di frequente a trasmettere è in fondo quella di un fenomeno che lacerò le coscienze degli italiani, dove il fascismo e l’antifascismo costituiscono una sorta di coppia inestricabile, da una parte proiettando all’indietro, sull’intero ventennio, quello che fu l’esito di guerra civile di quella storia, dall’altra rendendo insufficientemente visibili i caratteri autonomi del fascismo stesso. Questa sorta di ‘strabismo storiografico’ può giustificare atteggiamenti opposti: retrodata una resistenza che in fin dei conti per molti anni ci fu ma non ebbe un peso sostanziale, essendo stata l’opposizione liquidata sin dai primi anni, prima della Marcia su Roma e ben prima della cosiddetta svolta mussoliniana del 1925; oppure allude ad una serie di scelte infelici, e magari quasi obbligate, riducendo la storia del fascismo ad una sequenza di sfortune (ovvero, non erano mancate le “cose buone”!). Nel primo caso, restano in ombra le ragioni della sconfitta della democrazia, che dipese in buona misura dal successo militare del fascismo, ovvero da un ‘combattentismo’ che modificò alla radice la cultura politica; nel secondo restano completamente in ombra le ragioni della conseguenzialità delle scelte successive del regime fascista, anzitutto l’alleanza con il nazismo e la guerra.
Il punto è che queste ricostruzioni non tengono conto di un aspetto fondamentale: la storia del fascismo è anzitutto la storia interna di quel movimento, la storia anche contrastata dei fascisti e del loro capo, delle opportunità che loro stessi avevano aperto e delle conseguenze che il perseguirle aveva avuto. E questa è l’unica storia che permette di rintracciarne la coerenza interna, di comprendere perché il fascismo si scavò la fossa con le scelte degli anni ‘30. I due libri forniscono varie prove di questa impressione, su aspetti cruciali.
Anzitutto il libro di Gentile, che si concentra sul periodo 1920-1922. Lo spirito, e indubbiamente anche l’abilità manovriera di Mussolini, rischiano di provocare un certo abbaglio: fanno supporre che il regime totalitario si sia affermato soprattutto con il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, ovvero con la sua rivendicazione di una sostanziale responsabilità dell’assassinio di Giacomo Matteotti, che fu seguita dalle leggi ‘fascistissime’ di riorganizzazione totalitaria dello Stato. Gentile dimostra come questa pretesa sia infondata. Non si tratta solo del fatto che il fascismo aveva già tutti i connotati dell’assalto violento alle organizzazioni avversarie, dalle sedi del Partito Socialista, delle camere del lavoro e delle cooperative, sino alle sedi del Partito Popolare; si tratta del fatto che il fascismo era già una potente struttura militare, all’epoca di gran lunga la più importante “milizia” della destra europea e ormai in grado di competere con il presunto monopolio statale della violenza, del resto frequentemente remissivo ad ogni resistenza. L’organizzazione militare era la ragione del suo primato e come tale veniva rivendicata dai fascisti, che non ne facevano certo mistero ed anzi la consideravano il punto cruciale del prossimo dissolvimento dei “miti della democrazia ottocentesca”.
C’era già prima della Marcia su Roma una differenza sostanziale nella strategia militare dei fascisti e degli antifascisti: i secondi potevano difendersi ed anche offendere, su basi locali, mentre i primi puntavano alla distruzione degli avversari usando in modo coordinato la loro forza militare su aree vaste: gruppi di attivisti contro un esercito sostanziale, armato e assai mobile. E gli attacchi erano rivolti sempre di più non solo verso le sedi avversarie; ad esempio, si concludevano con la richiesta ai Prefetti, in genere accolta, dello scioglimento delle amministrazioni comunali di sinistra. Era chiarissimo l’obbiettivo di sostituirsi allo Stato, obbiettivo che divenne conclamato con gli episodi che accompagnarono la Marcia su Roma nelle città del Nord e del Centro, che furono ben più significativi della marcia stessa sulla capitale. Le principali città del Nord e del Centro vennero occupate militarmente; non più per distruggere sedi degli avversari già distrutte, ma per il controllo di Prefetture, dei nodi ferroviari e del sistema postale e telegrafico. Questo controllo non aveva un particolare significato militare, giacché tutta la vicenda della Marcia era principalmente un evento politico: esibire la propria superiorità sul terreno della violenza, per dimostrare come la rottura dello Stato liberale fosse già nei fatti. Anche la pratica di esiliare dai luoghi di origine i parlamentari dei partiti avversari – socialisti ma anche popolari, che pure entrarono nel primo Gabinetto mussoliniano – era assai diffusa e serviva, oltre che a infierire sugli avversari diretti, a dimostrare come il primato dello Stato fosse già esaurito. Del resto, i fascisti, e Mussolini in primis, non facevano mistero della natura insurrezionale del loro movimento; nell’anno 1922 c’era un vasto ed aperto dibattito su tale obbiettivo. Le trattative che durante tutta la fase preparatoria furono avviate con vari dirigenti liberali (Facta, Salandra, Giolitti e altri) avevano il solo scopo di ritardare il più possibile la comprensione da parte dello Stato della natura insurrezionale del movimento. Ma Mussolini non aveva alcuna intenzione di attenuare tale effetto; aveva, è vero, coscienza dei rischi che il fascismo correva, ma il rischio vero era che lo Stato reagisse e, a tal fine, il primato militare del fascismo doveva risultare sempre più chiaro.
È importante stabilire che tale forza d’urto fosse pienamente dispiegata nel 1922? Sì, e Gentile ce ne mostra le ragioni. Sul primato militare si basava l’obbiettivo dei fascisti di dimostrare il collasso in corso della democrazia e il loro diritto a rivendicarne il ruolo insostituibile di affossatori. Forse mai come in quel 1922, dopo il fallimento dello “sciopero generale legalitario” di pochi mesi precedente, i fascisti chiarirono la natura di quell’obbiettivo: dopo aver messo a soqquadro le organizzazioni avversarie, si metteva nel mirino la democrazia liberale. Si trattava di un passaggio delicato: togliersi di dosso ogni residua mascheratura, introdurre apertamente l’idea del superamento della democrazia. Poteva non funzionare, poteva essere registrata dalla maggioranza del popolo italiano come una pretesa esagerata e illecita. Ma funzionò, anche perché l’antifascismo non comprese i termini della questione, non volle ammettere l’enormità della posta in gioco. Naturalmente, ebbe un peso decisivo poter contare sulla solidarietà di molti settori dello Stato e delle Forze armate. Ma in quell’anno, se vogliamo dire così, si ‘sdoganò’ l’idea di sostituire uno Stato liberale con una Milizia di parte. In alcune dichiarazioni mussoliniane di quel periodo si trova, espressa con la massima chiarezza, l’idea che la democrazia fosse un relitto che al capitalismo poteva al massimo esser servito nel secolo precedente. L’operazione poteva richiedere qualche anno di ulteriori manovre, di mussoliniano gradualismo, ma il tema veniva annunciato senza infingimenti. Chi si era reso responsabile delle maggiori violenze, a quel punto esibiva le proprie carte: sostituire una democrazia inetta a partire da una forza armata che rivendicava il potere per la sua dimostrata capacità di sopprimere gli avversari.
Tra coloro che compresero i termini della questione, è il caso di segnalare – come fa Salvatore Lupo nel suo libro – queste parole di Giovanni Amendola. Che scrisse allora: “la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito “totalitario”; il quale non consente all’avvenire di avere altre albe che non siano salutate col gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che non siano piegate nella confessione “credo”. Questa singolare “guerra di religione” che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede (che a voler chiamare fede quella per l’Italia, possiamo rispondere che noi l’avevamo scoperta da tempo quando molti dei suoi attuali banditori non l’avevano ancora scoperta!) ma in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza – la vostra e non l’altrui – e vi preclude con una plumbea ipoteca l’avvenire”.
Sono parole che possono sembrare generiche, ma Giovanni Amendola scriveva queste parole nel 1923, prima dell’assassinio Matteotti e della creazione del regime, prima del partito unico, del Tribunale speciale, del culto e della dittatura personale del duce, ovvero della tirannide. Salvatore Lupo definisce persuasivamente questa pagina “eccezionalmente penetrante, quasi profetica”. La verità è che l’antifascismo non comprese allora cosa fosse quello ‘spirito totalitario’, lo considerò al massimo un fenomeno in transito, un evento reversibile. Invece il 1922 fu l’anno nel quale quel totalitarismo, se non si espresse per la prima volta, si annunciò con una chiarezza senza precedenti, come il fondamento sul quale si sarebbe basata la storia successiva. Questa è la ragione per la quale sottovalutare questa partenza, o sopravvalutare alcuni diversivi degli anni successivi, come faranno storici prestigiosi del fascismo, è profondamente ingannevole: la Marcia su Roma non fu una ‘sceneggiata’, o, perlomeno, quello che mise in scena fu la rappresentazione più completa di quello ‘spirito totalitario’ che ormai rivendicava il diritto a prendere il posto dello Stato liberale.
Il libro di Lupo è una sorta di seguito di quello di Gentile, i due decenni successivi al 1922. In realtà, il primo centinaio di pagine è dedicato all’avvento del fascismo, ma è soprattutto il seguito che illumina il ruolo che ebbero i dirigenti locali, il modo in cui misero a frutto, soprattutto nel loro interesse personale, la loro precedente vittoria militare. E conferma in modo spesso sorprendente le intuizioni di Gentile. Sapevamo il peso che lo squadrismo aveva avuto nella storia del fascismo, in particolare nei primi anni. Sapevamo che Mussolini aveva faticato non poco a mettere sotto controllo i fascisti della prim’ora, sapevamo che quella componente del fascismo talora lo aveva apertamente sfidato. Ma ormai il quadro era diventato più complesso; il totalitarismo si era arricchito della componente tirannica, ovvero del ruolo personale del Duce. Non mi pare che avessimo mai avuto le informazioni che Lupo ci consegna su come gli squadristi erano diventati ‘ras’, ovvero sulla storia del Partito Fascista letta dal punto di vista dei suoi dirigenti. Quindi, anche questa seconda lettura ci aiuta a comprendere l’evoluzione della classe dirigente effettiva del regime; in cosa si erano trasformati gli squadristi, in che modo avevano conservato i caratteri originali e in che modo li avevano trasformati, in un contesto istituzionale profondamente mutato.
Nel mentre i gregari mai ebbero l’ardimento di contrastare e neanche di discutere le scelte principali, riducendosi a cercare provvisoria fortuna nei loro ruoli di interpreti, i loro contrasti furono spesso molto aspri, caratterizzati da un utilizzo dei corpi dello Stato, che sperimentarono in quegli anni le pratiche della ‘deviazione’ come non era mai accaduto nella storia precedente dello Stato liberale (la qual cosa era in fondo assai semplice per degli ‘squadristi’). La storia del PNF in quegli anni fu una storia di faide spesso squallide in decine di città, frequentemente di fenomeni di corruttela, nascosti ma ben noti ai dirigenti massimi, che ne parlavano e li consideravano con assoluta normalità. Quel Partito non poteva certo aspirare al ruolo di agente di storia, visto che non aveva alcuna voce in capitolo nelle scelte; il disprezzo della democrazia non consentiva al PNF o ai suoi uomini nel Parlamento neanche di votare per l’entrata in guerra, e agli organi locali del Partito era fatto divieto persino di scrivere programmi (fondamentalmente le riunioni locali servivano unicamente ad organizzare le parate del regime). Eppure, nel trasformarsi in ‘ras’, ci fu la sostanza di un movimento politico che aveva nel suo carattere totalitario l’intero suo programma. Ci fu una evoluzione, ma fondamentalmente caratterizzata dall’uso del privilegio della violenza, prima sperimentata nella distruzione degli avversari e ora messa soprattutto al servizio di ruoli e di interessi personali, di interminabili faide locali.
In fondo una traiettoria logica, ma sostanzialmente elusa da altre letture – in particolare da quella di Renzo De Felice – che avevano messo al centro quasi unicamente il ruolo di Benito Mussolini. Ora, i due libri hanno l’ambizione e l’effetto liberatorio di rispondere a questa domanda: quale fu la ‘politica’ creata dal fascismo? E si scopre che Amendola aveva ragione: la politica costruita dal fascismo, oltre l’avventatezza e le torsioni del suo capo, consistette fondamentalmente nel portare lo spirito totalitario alle sue conseguenze. Ovvero, quello spirito totalitario, dopo essersi mangiato tutti gli avversari, compresa la democrazia liberale, alla fine si mangiò la politica stessa, o meglio la confermò nel suo nulla originario. La storia dei dirigenti fascisti, dei gregari squadristi e ‘rassisti’, non ha mai i tratti della pretesa ‘genialità’ del Duce, ha semmai il carattere di una viltà sconcertante, ma è questo che la rende significativa.
Lupo traccia alcuni passaggi principali in una impressionante sequenza delle principali città italiane: Milano, Torino, Bologna, Ferrara, Mantova, Piacenza, Reggio Emilia, Firenze, Siena, Pisa, Roma, Napoli, province della Puglia, e molte altre. La costante era una situazione di rissosità tra i gruppi dirigenti, combattuta con l’uso di quasi tutti i mezzi possibili e priva di giustificazioni politiche sostanziali. Mussolini per primo, che pure volta a volta se ne serviva per premiare e per punire, in molte occasioni riconobbe che il rischio principale era quello di un ‘rassismo’ unicamente dipendente dagli interessi di quel ceto dirigente. In sostanza, ammetteva che aver riservato a sé stesso le scelte della politica, riduceva il ceto politico locale ad un illeggibile verminaio di faide. L’originario potere squadristico giustificava in buona parte il successivo potere statuale; gli individui singoli rappresentavano intere vaste aree in ragione della violenza che avevano esercitato nella fase iniziale, anche perché quella violenza potenziale rimaneva il metro di misura del potere dei cacicchi, della loro capacità di controllo degli organi dello Stato – soprattutto le Prefetture – che affiancavano gli organi locali del fascismo. Ai quali si erano allora aggiunti i poteri degli organismi economici statali e delle corporazioni.
Il compito del Duce era, in un certo senso, motivare con una politica, interna ed estera, questo mondo che aveva distrutto la politica democratica. Il che spiega sia la ragione per la quale il fascismo diffuso aveva riconosciuto al Duce un crescente potere tirannico, sia la ragione per la quale quell’unica fonte ammessa di politica era caratterizzata, come il nazismo e lo stalinismo, come da una “smania di moto perpetuo”, secondo la geniale intuizione di Hannah Arendt. Ovvero da una smania di inventare continuamente nuove sfide – dalla invenzione di un Impero conquistato con le armi chimiche, alla folle scommessa di una superiorità della Germania sull’Unione Sovietica e sugli Stati Uniti – sfide che immancabilmente gli sarebbero crollate addosso.
In sostanza, i libri di Gentile e di Lupo spiegano, scegliendo il punto di vista dei gruppi dirigenti fascisti, come lo ‘spirito totalitario’ vinse con l’arma dell’antipolitica sino a mangiarsi la nazione intera.
By mm
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