C'è una logica nelle mosse della Amministrazione Trump in materia di tariffe? Il Presidente un giorno le minaccia, i mercati azionari crollano, allora i suoi collaboratori tranquillizzano che non ci sarà una guerra commerciale, a quel punto Trump teme di apparire debole e torna a minacciare. Il problema vero è che una logica non c'è, perché non c'è una analisi realistica dell'economia globale. Trump considera che il surplus commerciale della Cina verso gli Stati Uniti sia il segno che loro stanno vincendo. Ma in realtà, il dato - almeno oggi - dipende soprattutto dal fatto che i capitali cinesi in ingresso in America sono maggiori degli investimenti americani in Cina. E il dato è in gran parte illusorio, giacché i cinesi assemblano una gran quantità di componenti realizzate in Giappone e in Corea del Sud. L'America vuole davvero una guerra commerciale senza quartiere? Con una danno grande alle sue esportazioni agricole? Nessuno lo sa, tanto meno Trump. La sua è l'arte del dimenarsi.
Una nazione che sino agli anni '70 aveva visto una continua riduzione dei suoi divari economici e sociali - ad esempio tra Mississippi e Massachusetts - e che li ha visti nuovamente crescere negli ultimi decenni. Una polarizzazione economica nei processi dell'ineguaglianza che è andata di pari passo con una polarizzazione politica. Il sociologo William Julius Wilson aveva ammonito che il disfacimento sociale nei ghetti non derivava da difetti della cultura afroamericana; quel disfacimento oggi si ripete nel cuore dell'America interna, con mancanza di lavoro qualificato, mortalità crescente, abuso di oppioidi. E la politica accompagna quei processi, giacché quelle regioni sono anche quelle che hanno deciso il successo di Trump, o che si oppongono ad un ampliamento di Medicaid.