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Apple e i frutti del taglio delle tasse, di Paul Krugman (New York Times 3 maggio 2018)

 

May 3, 2018

Apple and the Fruits of Tax Cuts

By Paul Krugman

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Republican candidates have pretty much stopped talking about their party’s only major legislative achievement under Donald Trump, the 2017 tax cut. Ads touting the tax law have largely vanished from the airwaves. But the Koch brothers — big boosters of the cut and among its biggest beneficiaries — haven’t given up.

Their latest move: spending $20 million to mobilize an army of salespeople who are going door to door trying to disabuse voters of the perception that the tax cut was a big giveaway to the wealthy, offering little to ordinary working families.

But they have a problem: Public perceptions about who benefits from the tax cut, and who doesn’t, are accurate, a point Apple just nicely demonstrated with its announcement of a huge stock buyback.

To be fair, the notion that a big tax cut for corporations — which was the main element of last year’s law — might eventually redound to the benefit of workers isn’t crazy. But the two key words here are “might” and “eventually.”

The story tax-cut boosters tell runs as follows: America is part of a global capital market in which capital flows wherever it yields the highest after-tax rate of return. By cutting taxes on corporations, Trump and his allies have given corporations an incentive to invest here. Investment will expand capacity, driving up the demand for workers and thus lead to higher wages.

And for a little while Apple seemed to be following the script: Back in January the company announced that it would be bringing most of the $252 billion in cash it was holding abroad back to America.

But what does “bringing money to America” mean? Apple didn’t have a huge, Scrooge McDuck-style pile of gold sitting in Ireland, which it loaded onto a homeward-bound ship. It has digital claims — a bunch of zeros and ones on some server somewhere — which in effect used to bear a label saying “this money is in Ireland.” Now it has changed the label to say “this money is in America.” What difference does this make?

Well, it alters the company’s tax liabilities to the U.S. and Irish governments, which was the point of the change. But otherwise it makes no difference at all.

What would make a difference would be if Apple chose to spend more on actual stuff: hiring more workers, building new structures, installing more equipment. But it isn’t doing any of these things. Instead, this week it announced that it’s buying back $100 billion of its own stock, which is good for stockholders but does nothing for workers. Lots of other companies are doing the same thing.

And while many Americans own some stocks, the great bulk of stock value is held by a small, wealthy minority — 10 percent of the population owns 84 percent of the market. So the perception that this is basically a tax cut for the rich is right.

But why aren’t the benefits of the tax cut flowing to workers?

One answer is that even if the pro-tax-cut story were true for the long run, it would take many years of extremely high investment to achieve the kind of capacity expansion that would cause major wage gains. Another is that the global capital market isn’t as global as all that — the investment world, we might say, is still a long way from being flat. America is a huge economy, and even in the long run it can’t attract the kind of capital inflows tax-cut enthusiasts envision without offering significantly higher rates of return — which means more for stockholders and less for workers.

And at a deeper level, tax-cut enthusiasts may have a fundamentally out-of-date view about where profits come from.

In the world according to Trump officials, or right-wing think tanks like the Tax Foundation, corporate profits are basically a return on physical capital — on bricks and mortar and machines. Cut taxes, and companies will add more physical capital, increasing competition for labor, and profits will go down while wages go up.

Apple, however, is nothing like that. Its profits come from its market position — its brand, if you like. It doesn’t matter whether you think it deserves its role as a quasi-monopolist; what matters is that given its position, it can and does charge what the market will bear, pretty much regardless of costs. If Trump cuts its taxes, it gets to keep more of its profits, but it has no real incentive to change its behavior by, say, building more Apple stores. It just takes the extra money and either sits on it or hands it back to stockholders via buybacks.

And these days a lot of corporate America is at least a bit like Apple. Not all of it; there are still businesses — say, trucking companies — whose value resides largely in the stuff they own. But economic “rents,” profits not tied to physical capital, are a big, growing story. And when you cut taxes on rents, there’s no reason at all to expect workers to share the bounty, even in the long run.

The bottom line — which will remain true no matter how much the Kochs spend trying to convince you otherwise — is that what looks like a big giveaway to wealthy investors is, in fact, a big giveaway to wealthy investors.

 

Apple e i frutti del taglio delle tasse, di Paul Krugman

New York Times 3 maggio 2018

I candidati repubblicani hanno messo la sordina sull’unica importante realizzazione legislativa sotto Donald Trump, il taglio alle tasse del 2017. Gli spot pubblicitari che promuovono la legge sulle tasse sono in gran parte scomparsi dalle onde radio. Ma i fratelli Koch – grandi sostenitori del taglio e tra i suoi maggiori beneficiari – non si danno per vinti.

La loro ultima iniziativa: spendere 20 milioni di dollari per mobilitare un esercito di rivenditori che stanno cercando, porta a porta, di liberare gli elettori dalla sensazione che si sia trattato di un gran regalo ai ricchi, che riserva ben poco alle comuni famiglie che lavorano.

Ma hanno un problema: la sensazione della opinione pubblica su chi guadagna e chi non guadagna dal taglio delle tasse è precisa, un tema che Apple ha appena graziosamente confermato con il suo annuncio di grandi riacquisti di azioni.

Ad esser giusti, il concetto secondo il quale un grande taglio delle tasse alle società – che era l’elemento principale della legge dell’anno passato – potrebbe alla fine avere un impatto vantaggioso sui lavoratori non è folle. Ma in questo caso le due parole chiave sono “potrebbe” e “alla fine”.

La storia che raccontano i sostenitori del taglio alle tasse procede nel modo seguente: l’America fa parte di un mercato globale dei capitali nel quale i capitali si indirizzano dovunque si generi il più elevato tasso di rendimento dopo le tasse. Tagliando le tasse sulle società, Trump e compagni hanno dato alle società un incentivo a investire da noi. L’investimento aumenterà la capacità produttiva, spingendo in alto la domanda di lavoratori e di conseguenza portando a salari più alti.

E per un certo periodo la Apple è sembrata seguire il copione: nello scorso gennaio la società ha annunciato che avrebbe riportato in America gran parte dei 252 miliardi di dollari in contanti che deteneva all’estero.

Ma cosa significa “riportare soldi in America”? Apple non aveva un enorme cumulo di monete d’oro depositate in Irlanda, sullo stile di Scrooge e di Paperon dei Paperoni, da caricare su una nave diretta in patria. Ha dei titoli digitali – un mucchio di combinazioni binarie di uni e zeri in qualche server in qualche posto – che in effetti era solita accompagnare con un’etichetta con su scritto “questo denaro è in Irlanda”. Ora ha cambiato l’etichetta per dire “questo denaro è in America”. Che differenza fa?

Ebbene, modifica le passività fiscali della società verso i Governi statunitense e irlandese, che è stata la ragione del cambiamento. Ma altrimenti non fa alcuna differenza.

La differenza ci sarebbe se la Apple scegliesse di spendere di più su cose reali: assumendo più lavoratori, costruendo nuovi impianti, installando nuove attrezzature. Ma non sta facendo niente del genere. Invece, questa settimana ha annunciato che sta riacquistando 100 miliardi di dollari di azioni della propria società, il che è positivo per gli azionisti, ma non cambia niente ai lavoratori. Una grande quantità di altre società stanno facendo la stessa cosa.

E se molti americani possiedono un po’ di azioni, il grosso del valore azionario è detenuto da una piccola minoranza di ricchi – il 10 per cento della popolazione possiede l’84 per cento del mercato. Dunque, la sensazione che questo sia fondamentalmente un taglio delle tasse a vantaggio dei ricchi è giusta.

Ma perché i vantaggi del taglio delle tasse non arrivano ai lavoratori?

Una risposta è che persino il racconto a favore del taglio delle tasse era vero nel lungo periodo, ci sarebbero voluti molti anni di investimenti estremamente elevati per ottenere quel genere di espansione della capacità produttiva che provocherebbe importanti vantaggi salariali. Un’altra risposta è che il mercato globale dei capitali non è poi così globale – l’investimento mondiale, potremmo dire, ha ancora una lunga strada per divenire piatto. L’America è un’economia vasta, e persino nel lungo periodo non può attrarre quel genere di flussi di capitali che gli entusiasti dei tagli fiscali si immaginano, senza offrire in modo significativo più elevati tassi di rendimento – il che significa che la maggioranza va agli azionisti e la minoranza ai lavoratori.

E a un livello più profondo, può darsi che gli entusiasti dei tagli fiscali abbiano una concezione fondamentalmente antiquata sulla provenienza dei profitti.

Nel mondo come lo concepiscono i dirigenti di Trump, o i gruppi di ricerca della destra come Tax Foundation, i profitti delle società sono fondamentalmente un rendimento del capitale fisico – mattoni, calcina e macchine. Si taglino le tasse e le società aumenteranno il capitale fisico, aumentando la competizione per il lavoro, di modo che i profitti scenderanno e i salari cresceranno.

Tuttavia, la Apple non è niente di simile. I suoi profitti derivano dalla sua posizione di mercato – dalla sua marca, se volete dire così. Non è importante se voi pensate che essa si meriti il suo ruolo di quasi-monopolista; quello che conta è che, data la sua posizione, essa può caricare sui prezzi, e in effetti è quello che fa, quello che il mercato sosterrà, quasi a prescindere dai costi. Se Trump taglia le tasse, essa ottiene più profitti, ma non ha alcun reale incentivo a modificare la sua condotta, ad esempio costruendo un numero maggiore di magazzini Apple. Semplicemente intasca il denaro aggiuntivo e ci si siede sopra oppure lo gira agli azionisti attraverso il riacquisto delle azioni.

E di questi tempi una gran parte dell’America delle società almeno un po’ assomiglia alla Apple. Non tutta; ci sono ancora le imprese – ad esempio le società dell’autotrasporto – il cui valore in buona parte risiede nelle cose che possiedono. Ma le “rendite” economiche, i profitti non legati al capitale fisico, sono una grande storia in crescita. E quando si tagliano le tasse sulle rendite, non c’è proprio nessuna ragione per aspettarsi che i lavoratori partecipino alla manna, neanche nel lungo periodo.

La morale della favola – che resterà vera a prescindere da quanto i fratelli Koch spenderanno per convincervi del contrario – è che quello che assomiglia ad un grande regalo agli investitori ricchi è, di fatto, un grande regalo agli investitori ricchi.

 

 

 

 

 

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