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Disordini per il Trump turco, di Paul Krugman (New York Times 24 maggio 2018)

 

May 24, 2018

Turmoil for Turkey’s Trump

By Paul Krugman

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An anti-establishment leader takes power after a contentious election. His administration quickly proves itself remarkably corrupt; but he subverts the legal system and is able not only to suppress investigations into his corruption — his supporters denounce it all as a “witch hunt” — but also to consolidate his rule and undermine institutions (the “deep state”) that might have limited his power.

Am I talking about Donald Trump? I could be. But the figure I actually have in mind is Recep Tayyip Erdogan, president of Turkey, whose success in getting away with obvious corruption by politicizing law offers a disturbing preview of how Trump may become the authoritarian ruler he clearly wants to be. Not surprisingly, Trump, who basically seems to like dictators in general, has expressed admiration for Erdogan and his regime.

Authoritarian instincts and contempt for rule of law aren’t the only things Erdogan and Trump have in common. Both also have contempt for expertise. In particular, both have surrounded themselves with people notable both for their ignorance and for their bizarre views. Erdogan has advisers who believe that he is under psychic assault; Trump has advisers who yell profanities at each other while on trade missions.

But does it matter? In America, stocks are up and the economy keeps chugging along. Erdogan has presided over an actual economic boom. Investors and markets don’t seem to mind the craziness at the top. The fact that economic policymakers have no idea what they’re talking about doesn’t seem to make any difference.

Until it does.

The truth is that most of the time the quality of economic leadership matters much less than most people — economic leaders included — believe. Really destructive policies, like those driving Venezuela into the ditch, are one thing. But run-of-the-mill policies like changes in tax law, even if they’re pretty big and clearly irresponsible, rarely have dramatic effects.

Last year, for example, Trump and his allies in Congress rammed through a nearly $2 trillion tax cut. That’s a pretty big number, even for an economy as large as ours. But aside from fueling an unprecedented wave of stock buybacks, the tax cut is having little discernible effect, good or bad. There’s no sign of the investment boom advocates promised, but there’s also no sign that investors are losing faith in U.S. solvency.

Basically, as long as the economy isn’t being hit by major shocks, political posturing hardly matters. Someone looking at U.S. growth in G.D.P. or employment over the past few years who didn’t know we’d had an election in 2016 would have no reason to suspect that anything important had changed.

But when big shocks do hit, the quality of leadership suddenly matters a lot. Which is what we’re seeing in Turkey now.

An aside: Even if the quality of economic leadership matters a lot only during crises, you might expect markets to think ahead and incorporate the risk of badly handled future crises into stock and bond prices. Somehow, though, that almost never happens.

What we get instead are long stretches of complacency followed by sudden panic. Students of international macroeconomics are fond of quoting “Dornbusch’s law” (named after my late teacher Rudiger Dornbusch): “Crises take longer to arrive than you can possibly imagine, but when they do come, they happen faster than you can possibly imagine.”

What’s happening in Turkey is a classic currency-and-debt crisis, of a kind we’ve seen many times in Asia and Latin America. First, a nation becomes popular with international investors and runs up substantial foreign debt — in Turkey’s case, largely debt owed by domestic corporations.

Then it starts, for whatever reason, to lose its luster: Right now, emerging markets in general are being weighed down by a rising dollar and rising U.S. interest rates. And at that point a self-reinforcing crisis becomes possible: External factors cause a loss in confidence, which causes a country’s currency to drop, but the falling currency causes the domestic value of those foreign debts to explode, worsening the economy, leading to further declines in confidence, and so on.

At such a time, the quality of leadership suddenly matters a great deal. You need officials who understand what’s happening, can devise a response and have enough credibility that markets give them the benefit of the doubt. Some emerging markets have those things, and they are riding out the turmoil fairly well. The Erdogan regime has none of that.

So is the turmoil in Turkey a preview of what will happen under Trump? Not in detail: Although America borrows a lot abroad, it borrows in its own currency, which means that it isn’t vulnerable to a classic emerging-markets crisis.

But there are lots of ways things can go wrong, ranging from foreign policy crises — that Nobel Peace Prize doesn’t look too plausible now, does it? — to trade wars, and it seems safe to say that the Trump team isn’t ready for any of these possibilities. Maybe it won’t have to deal with any really serious challenges. But what if it does?

 

Disordini per il Trump turco, di Paul Krugman

New York Times 24 maggio 2018

Un leader che avversa l’ordine costituito prende il potere a seguito di elezioni controverse. La sua Amministrazione rapidamente si dimostra considerevolmente corrotta, ma lui sovverte il sistema legale e non solo è capace di sospendere le indagini sulla sua corruzione – i suoi sostenitori denunciano tutto come una “caccia alle streghe” – ma anche di consolidare il suo governo e di scalzare le istituzioni (lo “Stato profondo”) che potevano condizionare il suo potere.

Sto parlando di Donald Trump? Potrei farlo. Ma la persona che ho in mente effettivamente è Recep Tayyip Erdogan, il Presidente della Turchia, il cui successo nel farla franca con una evidente corruzione tramite una politicizzazione delle leggi offre una inquietante anteprima di come Trump può diventare il governante autoritario che chiaramente vuole essere. Non a caso Trump, che in generale fondamentalmente ha simpatia per i dittatori, ha espresso ammirazione per Erdogan e il suo regime.

Gli istinti autoritari e il disprezzo per lo Stato di diritto non sono le uniche cose che Erdogan e Trump hanno in comune. Entrambi hanno disprezzo per la competenza. In particolare, entrambi si sono circondati con individui che si distinguono per la loro ignoranza e per le loro concezioni bizzarre. Erdogan ha consiglieri che credono che egli sia oggetto di una offensiva psichica; Trump ha consiglieri che gridano l’uno con l’altro oscenità mentre sono in missioni commerciali.

Ma questo è importante? In America le azioni sono in rialzo, assieme ad un’economia che continua a crescere regolarmente. Erdogan ha governato una effettiva espansione economica. Gli investitori ed i mercati non sembrano badare alla follia dei capi. Il fatto che le autorità economiche non abbiano alcuna idea di ciò di cui stanno parlando non sembra fare alcuna differenza.

Finché dura.

La verità è che nella maggioranza dei casi la qualità della dirigenza economica conta molto meno di quello che credono gran parte delle persone – inclusi i leader dell’economia. Politiche realmente distruttive, come quelle cha stanno portando il Venezuela in un fosso, sono una cosa. Ma politiche ordinarie come i mutamenti nelle leggi fiscali, per quanto siano piuttosto rilevanti e chiaramente irresponsabili, raramente hanno effetti drammatici.

L’anno scorso, ad esempio, Trump e i suoi alleati nel Congresso hanno fatto approvare un taglio delle tasse di quasi 2.000 miliardi di dollari. È un numero piuttosto grosso, anche per un’economia ampia come la nostra. Ma, a parte aver acceso un’ondata senza precedenti di riacquisto di azioni, il taglio alle tasse sta avendo un effetto poco distinguibile, che sia buono o cattivo. Non c’è cenno del boom degli investimenti che i suoi sostenitori avevano promesso, ma non c’è neanche alcun segno che gli investitori stiano perdendo fiducia nella solvibilità degli Stati Uniti.

Fondamentalmente, finché l’economia non viene colpita da traumi importanti, è difficile che gli atteggiamenti della politica contino granché. Se qualcuno guardasse alla crescita del PIL o dell’occupazione degli ultimi anni senza sapere che abbiamo avuto le elezioni nel 2016, non avrebbe motivo di sospettare che sia cambiato qualcosa di importante.

Quando arrivano per davvero grandi colpi, d’improvviso la qualità di una dirigenza diventa assai importante. Che è quanto stiamo adesso osservando in Turchia.

Con un inciso: anche se la qualità della direzione dell’economia conta molto soltanto durante le crisi, vi aspettereste che i mercati siano previdenti e incorporino il rischio di future crisi mal gestite nei prezzi delle azioni e delle obbligazioni. Però, in qualche modo, questo non accade quasi mai.

Abbiamo, invece, lunghi stiracchiamenti di autocompiacimento seguiti da improvvise crisi di panico. Gli studenti di macroeconomia internazionale sono affezionati ad una citazione della “legge di Dornbusch” (così chiamata per il nome del mio ultimo insegnante, Rudiger Dornbusch): “Le crisi ci mettono un tempo per arrivare probabilmente più lungo di quello che vi immaginate, ma quando arrivano per davvero, accade che siano più veloci di quello che probabilmente vi immaginate”.

Quello che sta accadendo in Turchia è una classica crisi della valuta e del debito, di un genere che abbiamo osservato molte volte in Asia e in America Latina. Dapprima, una nazione diventa popolare tra gli investitori internazionali e gestisce un sostanzioso debito estero – nel caso della Turchia, un debito largamente detenuto da società nazionali.

Poi comincia, per una ragione qualsiasi, a perdere lustro: in questo momento, i mercati emergenti in generale sono appesantiti da un dollaro e da tassi di interesse in crescita negli Stati Uniti. E a quel punto diventa possibile una crisi che si auto rafforza: fattori esterni provocano una perdita di fiducia, che provoca una caduta nella valuta di un paese, ma la caduta della valuta fa esplodere il valore interno di quei debiti esteri, peggiorando le condizioni dell’economia, portando a ulteriori riduzioni di fiducia, e così via.

In tali momenti, la qualità di una dirigenza improvvisamente acquista molta importanza. Si ha bisogno di dirigenti che comprendano cosa sta accadendo, che possano architettare una risposta e abbiano sufficiente credibilità da ottenere dai mercati il beneficio del dubbio. Alcuni mercati emergenti hanno quel genere di cose, e affrontano abbastanza bene quei disordini. Il regime di Erdogan non ha niente di simile.

Dunque i disordini in Turchia sono un’anteprima di quello che accadrà sotto Trump? Non nel dettaglio: sebbene l’America si indebiti molto all’estero, lo fa nella sua valuta, il che significa che non è vulnerabile ad una classica crisi dei mercati emergenti.

Ma ci sono molte cose che possono andare storte, spaziando dalle crisi nella politica estera – quel Premio Nobel per la pace non sembra così plausibile in questo momento, non vi pare? – alle guerre commerciali, e sembra si possa affermare con certezza che la squadra di Trump non è pronta per nessuna di queste eventualità. Forse non dovrà misurarsi con alcuna sfida realmente seria. Ma se accadesse?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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