May 10, 2018
CAMBRIDGE – A high-profile United States trade delegation appears to have returned empty-handed from its mission in China. The result is hardly a surprise, given the scale and one-sided nature of the US demands. The Americans pushed for a wholesale remaking of China’s industrial policies and intellectual property rules, while asking China’s government to refrain from any action against Trump’s proposed unilateral tariffs against Chinese exports.
This is not the first trade spat with China, and it will not be the last. The global trading order of the last generation – since the creation of the World Trade Organization in 1995 – has been predicated on the assumption that regulatory regimes around the world would converge. China, in particular, would become more “Western” in the way that it manages its economy. Instead, the continued divergence of economic systems has been a fertile source of trade friction.
There are good reasons for China – and other economies – to resist the pressure to conform to a mold imposed on them by US export lobbies. After all, China’s phenomenal globalization success is due as much to the regime’s unorthodox and creative industrial policies as it is to economic liberalization. Selective protection, credit subsidies, state-dovrebbero valutare se la Cinowned enterprises, domestic-content rules, and technology-transfer requirements have all played a role in making China the manufacturing powerhouse that it is. China’s current strategy, the “Made in China 2025” initiative, aims to build on these achievements to catapult the country to advanced-economy status.
The fact that many of China’s policies violate WTO rules is plain enough. But those who derisively call China a “trade cheat” should ponder whether China would have been able to diversify its economy and grow as rapidly if it had become a member of the WTO before 2001, or if it had slavishly applied WTO rules since then. The irony is that many of these same commentators do not hesitate to point to China as the poster boy of globalization’s upside – conveniently forgetting on those occasions the degree to which China has flouted the global economy’s contemporary rules.
China plays the globalization game by what we might call Bretton Woods rules, after the much more permissive regime that governed the world economy in the early postwar period. As a Chinese official once explained to me, the strategy is to open the window but place a screen on it. They get the fresh air (foreign investment and technology) while keeping out the harmful elements (volatile capital flows and disruptive imports).
In fact, China’s practices are not much different from what all advanced countries have done historically when they were catching up with others. One of the main US complaints against China is that the Chinese systematically violate intellectual property rights in order to steal technological secrets. But in the nineteenth century, the US was in the same position in relation to the technological leader of the time, Britain, as China is today vis-à-vis the US. And the US had as much regard for British industrialists’ trade secrets as China has today for American intellectual property rights.
The fledgling textile mills of New England were desperate for technology and did their best to steal British designs and smuggle in skilled British craftsmen. The US did have patent laws, but they protected only US citizens. As one historian of US business has put it, the Americans “were pirates, too.”
Any sensible international trade regime must start from the recognition that it is neither feasible nor desirable to restrict the policy space countries have to design their own economic and social models. Levels of development, values, and historical trajectories differ too much for countries to be shoehorned into a specific model of capitalism. Sometimes domestic policies will backfire and keep foreign investors out and the domestic economy impoverished. At other times, they will propel economic transformation and poverty reduction, as they have done on a massive scale in China, generating gains not just for the home economy but also for consumers worldwide.
International trade rules, which are the result of painstaking negotiations among diverse interests – including, most notably, corporations and their lobbies, cannot be expected to discriminate reliably between these two sets of circumstances. Countries pursuing harmful policies that blunt their development prospects are doing the greatest damage to themselves. When domestic strategies go wrong, other countries may be hurt; but it is the home economy that pays the steepest price – which is incentive enough for governments not to pursue the wrong kind of policies. Governments that worry about the transfer of critical technological know-how to foreigners are, in turn, free to enact rules prohibiting their firms from investing abroad or restricting foreign takeovers at home.
Many liberal commentators in the US think Trump is right to go after China. Their objection is to his aggressive, unilateralist methods. Yet the fact is that Trump’s trade agenda is driven by a narrow mercantilism that privileges the interests of US corporations over other stakeholders. It shows little interest in policies that would improve global trade for all. Such policies should start from the trade regime’s Golden Rule: do not impose on other countries constraints that you would not accept if faced with their circumstances.
Il doppio modello della politica commerciale dell’America verso la Cina,
di Dani Rodrik
CAMBRIDGE – Pare che una delegazione commerciale di alto profilo degli Stati Uniti abbia fatto ritorno a mani vuote dalla sua missione in Cina. Difficlmente il risultato può essere considerato una sorpresa, data la dimensione e la natura unilaterale delle richieste statunitensi. Gli americani hanno spinto per una completa riscrittura delle politiche della Cina in materia industriale e delle regole sulla proprietà intellettuale, mentre hanno chiesto al Governo cinese di astenersi da ogni iniziativa contro le proposte di tariffe unilaterali di Trump nei confronti delle esportazioni cinesi.
Non è il primo diverbio commerciale con la Cina, e non sarà l’ultimo. Il modello di commercio globale dell’ultima generazione – dal momento della creazione della Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1995 – venne affermato sulla premessa che in tutto il mondo ci sarebbe stata una convergenza dei regimi regolamentari. In particolare la Cina, sarebbe diventata più “occidentale” nel modo in cui essa gestisce l’economia. Invece, la duratura divergenza dei sistemi economici è stata una fertile fonte di contrasti commerciali.
Ci sono buone ragioni da parte della Cina – e di altre economie – per resistere alla pressione ad uniformarsi al modello che viene loro imposto dalle lobbies delle esportazioni statunitensi. Dopo tutto, il fenomenale successo della Cina nella globalizzazione è derivato sia dalle politiche industriali non ortodosse e creative, sia dalla sua liberalizzazione economica. La protezione selettiva, i sussidi al credito, il ruolo delle imprese di proprietà dello Stato, le regole dei contenuti rivolti all’interno e le condizioni del trasferimento delle tecnologie hanno tutte giocato un ruolo nel far diventare la Cina la potenza manifatturiera che è diventata. L’attuale strategia della Cina, l’iniziativa del “Made in China 2025”, è diretta a costruire su questi risultati al fine di proiettare il paese nella condizione di una economia avanzata.
Il fatto che molte politiche cinesi violino le regole del WTO è piuttosto evidente. Ma coloro che in modo irridente definiscono la Cina un “imbroglio commerciale” dovrebbero valutare se la Cina sarebbe stata capace di diversificare la sua economia e di crescere così rapidamente se fosse diventata un membro del WTO prima del 2001, o se avesse pedissequamente applicato le regole del WTO a partire da allora. L’ironia è che molti di questi stessi commentatori non esitano ad indicare le Cina come il ragazzo prodigio della crescita della globalizzazione – opportunamente dimenticando in quelle occasioni in quale misura la Cina ha trasgredito le regole contemporanee dell’economia globale.
La Cina gioca la partita della globalizzazione sulla base di quelle che potremmo chiamare le regole di Bretton Woods, dopo il regime molto più permissivo che governò l’economia mondiale nel primo periodo postbellico. Come una volta mi spiegò un dirigente cinese, la strategia è di aprire la finestra ma di collocarci un paravento. Si ha così aria fresca (investimenti e tecnologia straniere) nel mentre si tengono fuori gli elementi dannosi (flussi volatili di capitali e importazioni dirompenti).
Di fatto, le pratiche della Cina non sono molto diverse da quello che tutti i paesi avanzati hanno adottato storicamente nel mentre si mettevano in pari con gli altri paesi. Una delle principali lamentele degli Stati Uniti contro la Cina è che i cinesi violano sistematicamente i diritti della proprietà intellettuale allo scopo di rubare i segreti tecnologici. Ma nel diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti erano nella stessa posizione in rapporto al leader tecnologico del tempo, l’Inghilterra, come è oggi la Cina di fronte agli Stati Uniti. E gli Stati Uniti ebbero la stessa considerazione per i segreti commerciali degli industrialisti inglesi che ha oggi la Cina per i diritti della proprietà intellettuale.
Le fabbriche tessili alle prime armi del New England erano disperatamente alla ricerca di tecnologia e fecero del loro meglio per rubare i progetti inglesi e introdurre illegalmente artigiani specializzati inglesi. Gli Stati Uniti avevano leggi sui brevetti, ma proteggevano soltanto i cittadini americani. Come si è espresso uno storico delle imprese americane, gli americani “furono anch’essi dei pirati”.
Ogni sensato regime commerciale internazionale deve partire dal riconoscimento che non è né fattibile né desiderabile restringere lo spazio delle politiche che i paesi hanno per progettare i loro propri modelli economici e sociali. I livelli di sviluppo, i valori e le prospettive storiche differiscono troppo tra i vari paesi, per essere costretti dentro uno specifico modello di capitalismo. Talvolta le politiche nazionali si ritorceranno contro e terranno fuori gli investitori stranieri, cosicché l’economia nazionale risulterà impoverita. In altri casi esse sospingeranno la trasformazione economica e la riduzione della povertà, come hanno fatto su scala massiccia in Cina, generando vantaggi non solo per l’economia interna ma anche per i consumatori su scala mondiale.
Le regole commerciali internazionali, che sono il risultato di scrupolosi negoziati tra interessi diversi – inclusi, tra i più rilevanti, quelli delle grandi società e delle loro lobby – non ci si può aspettare che discriminino affidabilmente tra questi due complessi di circostanze. I paesi che perseguono politiche dannose che riducono le loro prospettive di sviluppo stanno facendo il peggior danno a sé stessi. Quando le strategie interne vanno per il verso sbagliato, altri paesi possono essere danneggiati; ma è l’economia nazionale che paga il prezzo più salato – e questo è un incentivo sufficiente per i Governi a non perseguire quel genere sbagliato di politiche. I Governi che si preoccupano del trasferimento di tecnologie cruciali agli stranieri, a loro volta, sono liberi di adottare regole che proibiscano alle loro imprese di investire all’estero o di restringere acquisizioni straniere all’interno.
Molti commentatori liberali negli Stati Uniti pensano che Trump abbia ragione a scagliarsi contro la Cina. La loro obiezione si rivolge ai suoi metodi aggressivi e unilaterali. Tuttavia il punto è che l’agenda commerciale di Trump è guidata da un mercantilismo angusto che privilegia gli interessi delle grandi società statunitensi sugli altri portatori di interessi. Essi mostrano poco interesse sulle politiche che migliorerebbero il commercio globale per tutti. Tali politiche dovrebbero prendere le mosse dalla ‘regola d’oro’ del regime commerciale: non imporre ad altri paesi limitazioni che non si accetterebbero se ci si dovesse misurare con le loro circostanze.
By mm
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