By Paul Krugman
The title of this post is an actual question, not rhetorical. I have a hypothesis that may or may not be true, and am throwing it out for further discussion.
Start with the puzzle: the unemployment rate is now very low by historical standards. In fact, it’s back down to 2000 levels; those were the days when employment was so full that people used to joke about the “mirror test” for employment: if your breath would fog a mirror, that is, if you were alive, you could get hired. (Sorry, zombies.) Yet wage growth remains restrained, well below pre-crisis levels:
What’s going on?
One answer is that the official unemployment rate is misleading as an indicator of economic slack, and/or that structural changes have shifted the Phillips curve. This could be true; but there are a lot of stories about firms complaining that they can’t find workers. So why aren’t they just raising wages?
OK, here’s one hypothesis: it’s partly about downward nominal wage rigidity.
The notion that firms are very reluctant to cut wages has a long history, for a very good reason: it’s true. That truth has been obvious to many observers; Truman Bewley made a systematic survey to confirm the point. Employers believe that actual wage cuts, as opposed to, say, letting real wages erode via inflation, are demoralizing and perceived as unfair. So there tends to be a zero lower bound on wage changes, except in the face of very high unemployment.
Until the Great Recession, most economists believed that this constraint, like the zero lower bound on interest rates, wasn’t that important in practice. But during the recession and aftermath, downward nominal wage rigidity became binding for a large share of the work force:
But that explains why firms didn’t cut wages when unemployment was high. How does it explain why they won’t raise wages now that unemployment is low again?
OK, here’s my theory about the brontosaurus, I mean, about wages. What employers learned during the long slump is that you can’t cut wages even when people are desperate for jobs; they also learned that extended periods in which you would cut wages if you could are a lot more likely than they used to believe. This makes them reluctant to grant wage increases even in good times, because they know they’ll be stuck with those wages if the economy turns bad again.
This hypothesis also explains something else that’s been puzzling me: widespread anecdotes about employers trying to attract workers with signing bonuses rather than higher wages. A signing bonus is a one-time cost; a higher wage, we now know, is more or less forever.
If there’s any truth to this story, the protracted economic weakness that followed the financial crisis is still casting a shadow on labor markets despite low unemployment today.
La Grande Recessione sta ancora tenendo in basso i salari? (per esperti)
Di Paul Krugman
Il titolo di questo post è una domanda effettiva, non retorica. Io ho una ipotesi che può essere vera oppure no, e la sto tirando fuori per un ulteriore dibattito.
Partiamo dal mistero: il tasso di disoccupazione, in rapporto alle sue serie storiche, è oggi molto basso. Di fatto, è tornato ai livelli dell’anno 2000; quelli erano i giorni nei quali l’occupazione era così piena che la gente era solita fare uno scherzo sul “test dello specchio”: se il vostro respiro avesse appannato lo specchio, ovvero se eravate vivi, sareste stati assunti (spiacente per gli zombi). Tuttavia, la crescita dei salari resta limitata, ben al di sotto dei livelli precedenti la crisi:
Cosa sta succedendo?
Una risposta è che il tasso di disoccupazione ufficiale come indicatore della fiacchezza dell’economia è fuorviante, e/o che le modifiche strutturali hanno spostato la curva di Phillips [1]. Questo potrebbe essere vero; ma ci sono un sacco di storie su imprese che si lamentano perché non riescono a trovare lavoratori. Perché dunque non stanno semplicemente alzando i salari?
Ecco una ipotesi: in parte dipende dalla rigidità verso il basso dei salari nominali.
Il concetto secondo il quale le imprese sono molto riluttanti a tagliare i salari ha una lunga storia, per l’ottima ragione che è vero. Tale verità è risultata evidente a molti osservatori; Truman Bewley fece un sondaggio sistematico per confermare tale aspetto. I datori di lavoro credono che un effettivo taglio dei salari, anziché, ad esempio, lasciare che i salari reali vengano erosi dall’inflazione, siano demoralizzanti e percepiti come ingiusti. Così tende ad esserci un limite inferiore dello zero sui cambiamenti salariali, ad eccezione di una disoccupazione molto elevata.
Sino alla Grande Recessione la maggioranza degli economisti credeva che questo condizionamento, come il limite inferiore dello zero nei tassi di interesse, non fosse in pratica così importante. Ma durante la recessione e in seguito ad essa, la rigidità verso il basso dei salari nominali è diventata vincolante per un’ampia quota di forza lavoro:
Ma questo spiega perché le imprese non hanno tagliato i salari quando la disoccupazione era elevata. Come può spiegare perché essi non intendono aumentare i salari ora che la disoccupazione è di nuovo bassa?
Ecco dunque la mia teoria sul brontosauro, voglio dire sui salari. Quello che i datori di lavoro hanno imparato durante la lunga recessione è che non si possono tagliare i salari anche quando la gente è disperata per i posti di lavoro; hanno anche imparato che prolungati periodi nei quali tagliereste i salari se poteste, sono molto più probabili di quanto erano abituati a credere. Questo li rende riluttanti a concedere aumenti salariali anche nei periodi buoni, perché sanno che resteranno bloccati con quei salari se l’economia torna ancora ad essere negativa.
Questa ipotesi spiega anche qualcos’altro che mi sta interrogando; gli aneddoti generalizzati sui datori di lavoro che cercano di attrarre lavoratori sottoscrivendo gratifiche piuttosto che salari più alti. Sottoscrivere una gratifica è un costo una-tantum; un salario più elevato, ora lo sappiamo, è più o meno per sempre.
Se c’è una verità in questa storia, la perdurante debolezza dell’economia che ha fatto seguito alla crisi finanziaria sta ancora gettando un’ombra sui mercati del lavoro, nonostante la bassa disoccupazione odierna.
[1] ”L’economista neozelandese Alban William Phillips (1914 – 1975), nel suo contributo del 1958 ‘The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957′ (La relazione tra disoccupazione e il tasso di variazione dei salari monetari nel Regno Unito 1861-1957), pubblicato su Economica, rivista edita dalla London School of Economics, osservò una relazione inversa tra le variazioni dei salari monetari e il livello di disoccupazione nell’economia britannica nel periodo preso in esame. Analoghe relazioni vennero presto osservate in altri paesi e, nel 1960, Paul Samuelson e Robert Solow, a partire dal lavoro di Phillips, proposero un’esplicita relazione tra inflazione e disoccupazione: allorché l’inflazione era elevata, la disoccupazione era modesta, e viceversa. ” La società può permettersi un saggio di inflazione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione “(Robert Solow).
[2] La tabella mostra i lavoratori che affermano di mantenere lo stesso salario dell’anno precedente, suddivisi nelle tre tipologie dei lavoratori pagati su base oraria (linea rossa), con stipendio fisso (linea verde), o di entrambe le categorie (linea blu). Dunque, la percentuale di lavoratori che non indicano una differenza rispetto all’anno precedente dopo la recessione è salita attorno al 20% per quelli pagati su base oraria, è salita attorno al 10% per quelli con stipendio fisso e attorno al 15% per i complessivi.
By mm
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