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Perché una guerra commerciale con la Cina non è “facile da vincere” (leggermente per esperti), (dal blog di Paul Krugman, 22 maggio 2018)

May 22, 2018

Why a Trade War With China Isn’t ‘Easy to Win’ (Slightly Wonkish)

By Paul Krugman

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At this point, it’s looking as if Trump’s tough talk on China trade will turn out to be as empty as his tough talk on, say drug prices. Faced with the prospect of actually going toe to toe with powerful interests – as opposed to doing harm to desperate immigrants, poor people who need health care, etc. – Trump keeps backing down, ignominiously. But what happened to all that bluster about trade wars being “good, and easy to win”?

I can think of four reasons Trump ran away:

  1. Someone actually managed to explain the economics to him, and he realized that the trade war wasn’t actually a good idea
  2. He just lost his nerve, as he consistently does when confronting people who aren’t powerless
  3. He was bribed, with China offering sweet deals to his personal business interests
  4. The Chinese also have some kind of tape

It tells you a lot about the state of American leadership that (1) is highly implausible, while 2-4 all seem quite possible. And this means that what I’m about to say may amount to overthinking the issue.

Still, I think there are some good reasons why even a crude mercantilist looking at the China situation might conclude that this particular trade war isn’t nearly as easy to win as it might appear at first glance.

On the surface, the U.S. would appear to very much have the upper hand in any trade confrontation. After all, last year we only sold China $130 billion in goods, while they sent us $500 billion. So they have a lot more to lose, right?

Well, it’s not as clear as all that. You need to look at the realities of modern trade. And when you do, the story looks quite different. It goes without saying that Trump is wrong about the economics of bilateral trade imbalances. But he’s also wrong about the political economy, which isn’t the same thing.

Admittedly, the political economy of trade is kind of mercantilist, because it’s driven largely by producer interests. Long ago I wrote about “GATT-think”, the view of trade, enshrined in international negotiations, that sees exports as good, imports as bad, so that letting someone sell us stuff, even if it’s better and cheaper than we could make ourselves, is a “concession.” The genius of the postwar international trading system was that it harnessed this special-interest reality, using the ambitions of exporters to offset the protectionism of those competing with imports, to engineer a kind of enlightened mercantilism that vastly expanded world trade.

But GATT-think needs some modifying in an era of complex international value chains. Even if producer interests predominate over consumer interests, what producers should care about is not how much they export but how much income they derive from exporting. That is, they should care about “income at risk,” not “exports at risk.” These numbers can be very different, and in the case of US-China trade they are.

Consider the over-used but still illuminating case of the iPhone, which is assembled in China out of components made all over the world. That final assembly accounts for only 3 to 6 percent of the manufacturing cost, but the whole price of an iPhone shipped from China to America is counted as a Chinese export. If I’m doing the numbers right, this means that China exports around $17 billion worth of iPhones to America each year, but Chinese producers account for only around $1 billion of that.

Smartphones are an extreme case, but there’s a lot of that sort of thing. The income China derives from exports to the US is probably not much more than half the face value of those exports. There’s a bit of the same thing going on in the other direction – US aircraft, for example, contain quite a few foreign components – but it’s much less extreme.

What this means, in turn, is that even if we only focus on narrow producer interests – even if we take a mercantilist view – US-China trade is a lot less lopsided than it seems, which in turn means that the pain from a trade war would be a lot less asymmetric than the raw trade numbers might suggest.

But wait, there’s more. Apple sells those iPhones for considerably more than it costs to import them from China. This adds a whole additional chunk of US income at risk to the bilateral trade relationship. True, given time Apple could probably find other suppliers – but not right away, and not easily. Foxconn wasn’t built in a day.

Overall, it’s still probably true that China would be hurt worse than the U.S. in an all-out trade war. But the pain wouldn’t be at all one-sided. And it’s possible, I guess, that Trump dimly recognized that reality, or at least noticed that his beloved stock market really doesn’t like trade war talk.

Actually, I’m still betting that it’s a bribe and/or some kind of tape. But worth talking through, anyway.

 

Perché una guerra commerciale con la Cina non è “facile da vincere” (leggermente per esperti),

di Paul Krugman

A questo punto, sembra che il parlar duro di Trump sul commercio con la Cina si scoprirà essere vuoto come il suo parlare duro, ad esempio, sui prezzi dei farmaci. Di fronte alla prospettiva di finire faccia a faccia con interessi potenti – anziché provocare danni a immigrati disperati, alla povera gente che ha bisogno di assistenza sanitaria, etc. – Trump continua a tirarsi indietro vergognosamente. Ma cosa è successo a tutti coloro che facevano gli spacconi sulle guerre commerciali, “buone e facili da vincere”?

Posso pensare a quattro ragioni della fuga di Trump:

1 Qualcuno ha realmente cercato di spiegargli l’economia, e lui ha compreso che effettivamente non era una buona idea.

2 Ha perso coraggio, come normalmente fa quando si misura con persone che non sono impotenti.

3 È stato corrotto, con la Cina che gli offre deliziosi affari per i suoi personali interessi di impresario.

4 I cinesi hanno pure qualche tipo di registrazione. [1]

Ciò vi dice molto sullo stato della dirigenza americana, dato che (1) è altamente improbabile, mentre (2-4) sembrano entrambi abbastanza probabili. E questo significa che quello che sto per dire può corrispondere ad un eccesso di ragionamento sul tema.

Eppure, penso che ci siano buone ragioni perché persino un rozzo mercantilista che osserva la situazione della Cina possa arrivare alla conclusione che questa particolare guerra commerciale non sia lontanamente facile da vincere, come poteva sembrare a prima vista.

Superficialmente, gli Stati Uniti sembrerebbero proprio avere la meglio, in ogni scontro commerciale. Dopo tutto, l’anno passato abbiamo venduto alla Cina soltanto 130 miliardi di dollari di beni, mentre loro ce ne hanno spediti per 500 miliardi. Dunque, hanno molto di più da perdere, giusto?

Ebbene, non è così chiaro come parrebbe. È necessario guardare alle realtà del commercio moderno. E quando lo si fa, il racconto diventa abbastanza diverso. Non è il caso di dire che Trump sbaglia sull’economia degli squilibri commerciali bilaterali. Ma egli sbaglia anche sulla politica economica, che non è la stessa cosa.

Si può ammettere che la politica economica del commercio sia di tipo mercantilista, giacché è guidata ampiamente dagli interessi dei produttori. Molto tempo fa, scrissi sulla “logica del GATT” [2], il punto di vista del commercio, consacrato dai negoziati internazionali, che considera positive le esportazioni e negative le importazioni, cosicché consentire a qualcuno di venderci qualcosa sarebbe una “concessione”, anche se è una situazione migliore e più conveniente di quello che potremmo fare da soli. La genialità del sistema commerciale internazionale postbellico è stata che esso ha imbrigliato questa realtà degli interessi particolari, utilizzando le ambizioni degli esportatori per bilanciare il protezionismo di coloro che competono con le importazioni, al fine di concepire un mercantilismo illuminato, che ha ampliato enormemente il commercio mondiale.

Ma la logica del GATT ha bisogno di qualche modifica in un’epoca di complesse catene internazionali del valore. Persino se gli interessi dei produttori predominano sugli interessi dei consumatori, quello di cui i produttori dovrebbero curarsi non è quanto essi esportano, ma quanto reddito derivano dalle esportazioni. Ovvero, dovrebbero preoccuparsi del “rischio del reddito”, non del “rischio delle esportazioni”. Questi numeri possono essere molto diversi, e nel caso del commercio tra Stati Uniti e Cina lo sono.

Si consideri l’esempio abusato ma ancora illuminante degli iPhone, che sono assemblati in Cina con componenti costruite in tutto il mondo. L’assemblaggio finale pesa soltanto dal 3 al 6 per cento del costo manifatturiero, ma il prezzo complessivo di un iPhone spedito dalla Cina all’America è considerato come una esportazione cinese. Se sto facendo i miei calcoli correttamente, questo significa che il valore delle esportazioni annuali dalla Cina all’America di iPhone è di circa 17 miliardi di dollari, ma in quel dato i produttori cinesi pesano soltanto per un miliardo di dollari.

Gli smartphone sono un caso estremo, ma ci sono molte cose di quel genere. Il reddito che la Cina deriva dalle esportazioni negli Stati Uniti, probabilmente non è molto superiore alla metà del valore apparente di quelle esportazioni. Ci sono cose simili nella direzione opposta – gli aeroplani statunitensi, ad esempio, contengono un buon numero di componenti straniere – ma si tratta di casi molto meno radicali.

Questo comporta, a sua volta, che persino se ci concentriamo sugli interessi ristretti dei produttori – persino se assumiamo un punto di vista mercantilista – il commercio USA-Cina è molto meno asimmetrico di quello che sembra, il che a sua volta comporta che la sofferenza per una guerra commerciale sarebbe molto meno asimmetrica di quello che i dati grezzi su commercio potrebbero indicare.

Ma aspettate, c’è di più. Apple vende gli iPhone ad un prezzo assai superiore di quello che costano ad essere importati dalla Cina. Questo aumenta di una intera parte aggiuntiva di reddito statunitense a rischio nelle relazioni commerciali bilaterali. È vero, in un tempo definito Apple potrebbe probabilmente trovare altri fornitori – ma non immediatamente e non facilmente. Foxconn non è stata costruita in un giorno [3].

Nel complesso, è probabilmente ancora vero che la Cina sarebbe più danneggiata degli Stati Uniti da una guerra commerciale illimitata. Ma la sofferenza non sarebbe da una parte sola. E ritengo che sia possibile che Trump si sia oscuramente reso conto di questa realtà, o che almeno si sia accorto che il suo adorato mercato azionario non gradisce che si parli di guerre commerciali.

In realtà, sto ancora scommettendo se si tratti di una tangente e/o di un nastro registrato di qualche genere. Ma in ogni caso vale la pena di seguire la faccenda passo a passo.

 

 

 

 

 

[1] L’esistenza non inverosimile di nastri di registrazioni appare una ipotesi sia nella vicenda a sfondo sessuale in Russia che in uno scambio di favori tra Trump e la Cina.

[2] Il General Agreement on Tariffs and Trade (dall’ingleseAccordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio), meglio conosciuto come GATT, è un accordo internazionale, firmato il 30 ottobre 1947 a Ginevra, in Svizzera, da 23 paesi, per stabilire le basi per un sistema multilaterale di relazioni commerciali con lo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio mondiale.

[3] Studenti liceali al lavoro fino a 11 ore per produrre l’iPhone X. È tornata nel mirino Foxconn, il maggiore fornitore cinese di Apple, sotto accusa per le condizioni in cui versano i suoi lavoratori. Gli impianti della società cinese erano già saliti alle cronache negli anni scorsi, diventando famose con il nome di “fabbriche dei suicidi”. Ora, un’inchiesta del Financial Times alza di nuovo il velo sulla vicenda, con le parole dei diretti interessati. Sono sei i liceali cinesi che hanno denunciato al quotidiano finanziario di essere stati costretti a lavorare nell’impianto Foxconn di Zhengzou per un periodo di tre mesi, in quella che gli veniva presentata come «un’esperienza lavorativa necessaria per completare il programma di studi». (da un articolo su Il Messaggero)

 

 

 

 

 

 

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