June 27, 2018
By Paul Krugman
OK, this is a bit self-indulgent, aimed at a very narrow audience, and maybe also whiny too. But via Mark ThomaI see that Nicholas Gruen has a celebratory piece on Max Corden that for some reason is largely devoted to a sort of back-handed attack on yours truly. Money quote: “I think of Krugman as about the most brilliant and useful economist we have. But his most brilliant work wasn’t useful, and his most useful work isn’t brilliant.”
First, a word about Max Corden: his work has been wonderfully useful. In particular, his book “Trade Policy and Economic Welfare” is still, more than 40 years after its first publication, the best single guide to how to think about trade policy. It is, for example, lurking behind the recent stuff I’ve written about trade war and Brexit. Everything Gruen says about Max is totally true.
So what’s Gruen’s beef with me? He really, really doesn’t like the formalization of economies of scale and imperfect competition in trade that went along with the rise of the “new trade theory”, and compares it to the excessive faith in formalism that I myself have condemned in much of macroeconomics.
Obviously I don’t think that’s fair, and could say a lot about why I think the formalism was helpful. What’s really important here, however, is to point out the essential difference between the attitudes of new trade theory and “freshwater” macroeconomics toward real-world experience.
What the freshwater school did was to take the actual experience of business cycles and say, “We don’t see how to formalize this experience in terms of maximizing equilibrium models; therefore it doesn’t exist.” It only looks as if recessions result from inadequate demand and that monetary or fiscal expansion can create jobs; our models tell us that can’t happen, so it’s all an optical illusion.
This attitude, I’ve argued, had major negative consequences, not just for research, but for policy: it helped cultivate a sense of learned helplessness in the face of mass unemployment.
What about new trade theory? What us new trade theorists did was say, “It looks as if there’s a lot going on in world trade that can’t be explained in existing formal models. So let’s see if there’s a different approach to modeling that can make sense of what we see.” In other words, the attitude toward formalization was almost the opposite of the macro wrong turn: it was there to help clarify our reality sense, not deny it.
Now, we can argue about how much good this formalization did. I still believe that the formal models provided a level of clarity and legitimacy to trade discussion that wasn’t there before; your mileage may differ. Certainly nothing I wrote on trade has done as much to provide policy guidance as, say, my writing on the liquidity trap.
But one thing new trade theory certainly didn’t do was lend support to really bad ideas, or induce policy paralysis. And another thing it didn’t do was divert trade economists away from studying the real world. On the contrary, trade has become a far more empirical, open-minded field than it was when I first entered it.
Anyway, this isn’t about me (well, it sort of is, but never mind.) The important point shouldn’t be “don’t formalize”; it should be that formalism is there to open your mind, not close it, and if the real world seems to be telling you something inconsistent with your model, the problem lies in the model, not the world.
Usi ed abusi del formalismo economico, dal blog di Paul Krugman
È vero, questo è un post un po’ indulgente con me stesso, rivolto a un pubblico molto ristretto, e forse anche un po’ lamentoso. Ma, tramite Mark Thoma, noto che Nicholas Gruen pubblica un articolo celebratorio su Max Corden che per qualche ragione si dedica ampiamente ad una sorta di attacco mascherato al sottoscritto. Una citazione in soldoni: “Di Krugman penso che sia il più brillante e utile economista che abbiamo. Ma il suo lavoro più brillante non fu granché utile, e il suo più utile lavoro non è brillante”.
Anzitutto, una parola su Max Corden: il suo lavoro è stato meravigliosamente utile. In particolare, il suo libro “Politica commerciale e benessere economico” è ancora, più di 40 anni dopo la sua prima pubblicazione, la migliore guida unitaria su come ragionare sulla politica commerciale. Ad esempio, è nascosto dietro le cose che di recente ho scritto sulla guerra commerciale e la Brexit. Tutto quello che sostiene Gruen su Max è completamente vero.
Dunque, di cosa si lamenta Gruen a mio proposito? A lui non piace affatto la formalizzazione delle economie di scala e della imperfetta competizione nel commercio che si si sono accompagnate all’ascesa della “nuova teoria del commercio”, e la paragona alla eccessiva fiducia nel formalismo che io stesso ho condannato in molta macroeconomia.
Ovviamente io non penso che questo sia giusto e potrei dire molto sulle ragioni per le quali penso che il formalismo sia stato utile. Ma quello che è realmente importante in questo caso è mettere in evidenza la differenza sostanziale tra le caratteristiche della nuova teoria del commercio e la macroeconomia dell’“acqua dolce” (1) nei confronti dell’esperienza del mondo reale.
Quello che la scuola dell’”acqua dolce” faceva era assumere l’esperienza effettiva dei cicli economici e dire: “Non vediamo come formalizzare questa esperienza in termini di massimo sfruttamento dei modelli di equilibrio, di conseguenza essa non esiste”. Essa osserva soltanto se le recessioni derivano da una domanda inadeguata e se l’espansione monetaria o della finanza pubblica può creare posti di lavoro; i nostri modelli ci dicono che non può accadere, dunque essa è un’illusione ottica.
Questo orientamento, ho convenuto, ha importanti conseguenze negative, non solo per la ricerca, ma per la politica; essa contribuisce a coltivare una sensazione di erudita impotenza di fronte ad una disoccupazione di massa.
Cosa dire della nuova teoria del commercio? Quello che hanno fatto per noi i nuovi teorici del commercio è stato dire: “È come se ci fossero molte cose in corso nel commercio mondiale che non possono essere spiegate nei modelli formali esistenti. Dunque, fateci vedere se c’è un diverso approccio di modellazione che possa dare un senso a quello che osserviamo”. In altre parole, la tendenza alla formalizzazione è stata quasi l’opposto della svolta sbagliata della macroeconomia: ne è derivato un aiuto a chiarire la nostra percezione della realtà, non a negarla.
Ora, si può discutere quanto bene abbia fatto questa formalizzazione. Io credo ancora che i modelli formali abbiano fornito un livello di chiarezza e di credibilità al dibattito sul commercio che non c’era prima; la vostra misurazione può essere diversa. Certamente, niente di quello che ho scritto sul commercio ha fatto altrettanto per fornire un indirizzo alla politica come, ad esempio, il mio scritto sulla trappola di liquidità.
Ma una cosa che la nuova teoria del commercio certamente non ha fatto è stato dare sostegno a idee cattive, o indurre alla paralisi della politica. E un’altra cosa che non ha fatto è stato distrarre gli economisti del commercio dallo studiare il mondo reale. Al contrario, il commercio è diventato una disciplina assai più empirica, senza pregiudizi rispetto a quando me ne sono occupato per la prima volta.
In ogni modo, tutto questo non riguarda me (ebbene, in un certo senso mi riguarda personalmente, ma non è importante). Il punto importante non dovrebbe essere “non formalizzare”; dovrebbe essere che il formalismo esiste per aprire la vostra intelligenza, non per rinchiuderla, e se il mondo reale sembra vi stia dicendo qualcosa che non è coerente con il vostro modello, il problema sta nel modello, non nel mondo reale.
(1) Per un brave descrizione delle due scuole economiche americane – definite dell’ “acqua dolce e dell’acqua salata”, in riferimento al loro successo e insediamento nelle università delle aree dei grandi laghi o delle coste oceaniche – vedi le note sulla Traduzione.
By mm
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